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Aprirsi al mistero dell’Essere abbandonando la ridicola presunzione scientista

La cultura scientista oggi dominante ci ha talmente compenetrati che, ormai, facciamo quasi fatica a percepire tutta la ridicola assurdità e l’arroganza pomposa con cui il Logos strumentale e calcolante pretende di porsi davanti al mistero dell’Essere.

Non troviamo più quasi nulla di strano, ad esempio, nel fatto che qualche astrofisico più o meno noto al grande pubblico sentenzi compiaciuto, in un programma televisivo, che noi possiamo stabilire con un "buon" margine di approssimazione" (vale a dire con un margine d’incertezza di qualche decina di MILIONI DI ANNI) l’età dell’universo; che ci spieghi come, più o meno, essa sia avvenuta; per poi cedere la parola al geologo, che ci parlerà del raffreddamento del nostro pianeta, e al biologo, che ci dirà come la vita vi sia sorta "spontaneamente" nell’acqua ancora calda (il famoso "brodo primordiale") e come, a partire dagli organismi unicellulari, essa sia poi evoluta, sempre più complessa, sino alle forme attuali, uomo compreso.

Ora, a parte il fatto che in quei miliardi di anni di cui non sappiamo nulla possono essere accadute, evidentemente, moltissime cose che ignoriamo se andrebbero d’accordo con le nostre certezze da tavolino, e a parte anche il fatto che l’evoluzione delle forme viventi dal semplice al complesso è una pia supposizione di alcuni scienziati, ma non si regge su alcun elemento realmente probante, checché ne dicano i darwiniani irriducibili (il che toglie ogni carattere di certezza alle supposte origini recenti dell’uomo e rimette in discussione tutta la nostra idea della preistoria e della storia), resta il fatto che la scienza occidentale moderna – meccanicista, quantitativa, riduzionista – nulla sa e nulla può dire del PRIMA.

Possibile che non si affacci mai, alla mente di questi scienziati materialisti gonfi di orgoglio, l’idea che prima delle origini dell’universo, quali noi crediamo di conoscerle, poteva esservi un altro universo, e prima un altro, e un altro ancora e così via, all’infinito?

Possibile che non venga mai loro in mente, allorché si arrampicano in cima ai miliardi d’anni da essi calcolati per datare l’universo (13,72 secondo le ultime ipotesi, con una incertezza di 120 MILIONI DI ANNI), che somigliano a dei bambini i quali si balocchino con dei giochi più grandi di loro, di cui non sanno nulla di nulla, nemmeno come funzionino?

Possibile che non li sfiori mai l’intuizione che la loro scienza quantitativa e descrittiva non potrà mai contenere l’infinito mistero dell’Essere, per il semplice fatto che la mente umana è uno strumento troppo piccolo per ospitare concetti così grandi?

Da quando Galilei ebbe l’inverosimile audacia di affermare (nella lettera a padre Benedetto Castelli) che le conoscenze matematiche dell’uomo sono, «intensive» (cioè quanto alla qualità e non alla quantità) tanto esatte quanto quelle di Dio, noi non proviamo più il senso del ridicolo quando sentenziamo intorno a cose infinitamente più grandi di noi, davanti alle quali l’unico atteggiamento ragionevole (nel senso più maturo e comprensivo della parola) dovrebbe essere quello dell’umiltà, della piccolezza, della coscienza del limite.

Noi siamo come delle formiche viventi ai piedi dell’Himalaya, le quali, un bel giorno, pretendessero di dire: noi sappiamo che cos’è la realtà che ci sta davanti; noi sappiamo quanto è grande, quanto è antica: e intanto scambiassero l’Himalaya per il sassolino sul quale sono riuscite ad arrampicarsi, ma che, a paragone di una sola di quelle montagne, è meno di niente, sia in termini di spazio che di tempo.

Come quelle formiche, noi – che viviamo pochi anni e che riusciamo a vedere, pur con gli strumenti tecnologici più sofisticati, appena la superficie della realtà, mentre sappiamo pochissimo perfino di noi stessi – presumiamo di poter sentenziare a dritta e a manca, quasi che fossimo poco meno che i creatori dell’universo; il che ci spinge a perseguire folli progetti di manipolazione della natura (dal trapianto di cellule umane nel cervello di animali da laboratorio, alla creazione di vere e proprie chimere) come se, appunto, fossimo diventati simili a Dio.

La verità è che non sappiamo niente di niente, a cominciare dal nostro stesso essere e dal nostro stesso corpo; e che le concezioni materialistiche, affermatesi in Occidente con l’avvento della modernità, ci hanno inesorabilmente allontanati anche da quel poco che eravamo riusciti ad intuire grazie allo sforzo speculativo dell’antichità e del Medioevo.

Noi non possiamo comprendere il mistero dell’Essere per via strettamente razionale; solo affidandoci a una apertura coscienziali che comprende e oltrepassa il Logos razionale, potremo gettare un fugace sguardo sulle realtà ultime, cui fanno velo l’illusione della materia e l’illusione della separatezza.

Rimettendoci alla sapienza dei grandi Maestri dell’India, e particolarmente a Swami Sri Yukteswar (cfr. «La science sacrée», Self Realization Fellowship, 1993), possiamo intanto porre, come pietra fondamentale dell’edificio del reale, Parambrahma, ovvero il Brahman Assoluto, che fa emergere la creazione, costituita di materia inerte (Prakriti).

Dall’Aum, la Parola (confronta il latino «Amen» e confronta anche l’inizio del Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo»), manifestazione della Forza Onnipotente, provengono le tre idee fondamentali: Kala, il Tempo; Desa, lo Spazio, ed Anu, l’Atomo.

La causa della creazione è Anu, ossia l’Atomo; mentre il potere illusionante divino si configura come Maya a livello cosmico, come Avidya (Ignoranza) a livello individuale. Pertanto noi siamo vittime di una doppia illusione: che il mondo fisico sia autosussistente e che noi possiamo comprenderlo per via razionale.

Ma l’Amore Onnisciente del Parambrahma è Kutastha Chaitanya, che corrisponde al concetto cristiano dello Spirito Santo: una forza divina che si dispiega poderosamente nel mondo, per soccorrere e sostenere le creature. Il Sé individuale, essendo una sua manifestazione, fa un tutt’uno con lui: non vi è separazione reale tra il Sé e la manifestazione dell’Amore divino, ma solo illusione di separatezza.

Non solo: c’è un altro concetto che si adatta perfettamente all’idea cristiana del Figlio di Dio, ed è Abhasa Chaitanya, ovvero Purusha. Lo si può paragonare alla Luce che scende nelle tenebre per rischiararle. Tuttavia, proprio come nel concetto cristiano della Trinità, non bisogna pensare che Parambrahma, Kutasha Chaitanya e Abhasa Chaitanya siano tre cose distinte: esse non sono altro che le tre facce, le tre manifestazioni di una sola ed unica realtà suprema: la realtà di Dio in quanto Essere assoluto.

Ora, avviene che, sotto l’influenza dell’Amore universale, l’Atomo si spiritualizza (si confronti il recente concetto della fisica relativo alla sostanziale equivalenza di materia ed energia), in un certo senso come accade alla limatura di ferro, allorché viene attratta da un campo magnetico. In tal modo s’impregna di coscienza, ovvero del potere di sentire, e prende il nome di Mahat, ovvero il Cuore (Chitta). È a questo punto che essa genera l’idea dell’esistenza separata del Sé.

Così magnetizzato, l’Atomo permeato di Avidya (Ignoranza) dà vita a due poli: uno che l’attira verso la Sostanza Reale (Sat) ed uno che tende ad allontanarlo da essa. Il primo polo si chiama Sattva o Buddhi, ossia l’Intelligenza, che determina cosa sia la Verità. Il secondo, che è una parte della Repulsione o Forza Onnipotente spiritualizzata, produce, per sua propria soddisfazione (Ananda), il mondo delle idee e si chiama Anandatwa o Manas, cioè lo Spirito.

Chitta, l’Atomo spiritualizzato in cui compare Ahamkara (l’idea dell’esistenza separata del Sé), possiede cinque manifestazioni, che si possono paragonare a delle forme di elettricità eterica, che costituiscono il Corpo causale (Purusha). A partire dai loro tre attributi o Gunas (che sono Sattwa, la Virtù, positivo; Rajas, la Passione, neutro; e Tamas, l’Ignoranza, negativo), queste cinque correnti elettriche producono i Jnanendryas (organi dei sensi) ed i Karmendryas (organi dell’azione) e i Tanmatras (oggetti dei sensi).

L’Atomo spiritualizzato (Chitta, il Cuore), essendo una manifestazione della Repulsione, produce in ciascuna delle sue cinque parti uno dei cinque tipi di elettricità eterica; e, sotto l’influenza dell’Amore universale, questi cinque tipi di elettricità vengono attirati verso la Sostanza Reale (Sat). Poiché sono la causa di tutte le altre creazioni, vengono denominate Pancha Tattwa, ovvero le cinque Cause essenziali

I cinque attributi dell’Atomo spiritualizzato, più i suoi due poli già ricordati, l’Intelligenza e lo Spirito, costituiscono i Lingasarira , cioè il Corpo sottile di Purusha, che si può considerare come il Figlio di Dio.

Da tutto ciò nasce l’idea della materia fisica, nelle sue cinque forme: Kshiti (solida), Ap (liquida), Tejas (ignea), Marut (aeriforme) e Akasha (eterica). Complessivamente, si contano ventiquattro principi fondamentali della creazione (cfr. i ventiquattro Seniori di cui parla l’Apocalissse, 4, 4, raffigurati anche da Dante nel Paradiso terrestre); ma non si tratta che di creazione delle Tenebre, Maya, una delle manifestazioni dell’Ignoranza o Avidya.

In effetti, codesta Ignoranza non è formata d’altro che da idee, per cui è corretto affermare che la creazione non possiede alcuna realtà sostanziale, ma scaturisce da un gioco di idee prodotto dalla Sostanza Eterna, il Padre. Conclusione importantissima: il mondo, questo mondo delle cose che noi crediamo oggettivo e indipendente, e che i nostri scienziati considerano press’a poco l’unica realtà vera, non esiste in se stesso, ma è solamente il prodotto di una illusione cosmica, che si riflette a livello di illusione individuale.

Da ciò si può facilmente intuire quale sia la strada da percorrere per l’uomo consapevole: quella della liberazione dall’illusione, che si ottiene realizzando l’unione del proprio Sé individuale con il Sé universale, la Realtà Suprema. Tale unione del Sé individuale con la Sostanza eterna di Dio ha un nome preciso: Kaivalya.

A questo punto ci fermiamo, perché non è questa la sede per sviluppare e approfondire le strade della liberazione; volevamo piuttosto delineare brevemente i tratti fondamentali della grandiosa concezione dell’essere, propria di una delle forme più alte di sapere spirituale mai raggiunta da intelletto umano (e non con le sue sole forze, ma con l’aiuto della stessa sapienza divina, senza il quale noi non possiamo fare nulla).

Quel che volevamo dire, l’abbiamo detto: noi siamo le formichine, la realtà è l’Himalaya; dobbiamo cercar di non perdere il senso delle proporzioni. Che cosa può capire dell’Himalaya, una formica che vive pochi giorni e che può esplorare pochi metri di terreno? E così noi: che cosa possiamo capire del reale, del mistero dell’Essere?

Qualcuno potrebbe pensare che ci proponiamo di avvilire l’intelligenza, una delle facoltà più belle della natura umana; niente affatto. Vogliamo solo stabilire dei limiti al pensiero razionale, che è solo una minuscola parte dell’intelletto; il quale, a sua volta, è solo una minuscola parte della Mente Superiore: le cose che possiamo capire sono infinitamente più numerose di quelle che il pensiero razionale riesca anche solo ad immaginare.

Da Cartesio in poi, la cultura occidentale ha conosciuto una crescente sopravvalutazione del pensiero razionale, del Logos strumentale e calcolante, incapace, per sua stessa natura, di porsi in un atteggiamento di apertura, di empatia e gratitudine verso il reale; e portato, sempre per sua natura, a identificare il reale con la realtà fattuale, visibile, materiale, e perciò quantificabile e manipolabile a piacere, senza residui e senza rimorsi.

Fino a Kant, almeno, e nonostante tutto, si era conservata la nozione che la Cosa in Sé non coincide affatto con il Fenomeno; ma Kant medesimo, facendo di questo concetto una sorta di «caput mortuum» della propria filosofia, aveva aperto la strada alla progressiva soppressione della differenza ontologica, sicché la cultura odierna ne ha praticamente smarrito la coscienza.

Dobbiamo riscoprire quella differenza; dobbiamo riconoscere che il Fenomeno, cioè quella parte del reale che noi possiamo percepire e sulla quale possiamo indagare, non è che una sottile pellicola, peraltro illusoria, che ci separa dalla Realtà Assoluta, dall’Essere luminoso e risplendente.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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