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Le notti antartiche 1 – Fomalhaut

Questo dialogo è il primo di un trittico che comprende una seconda parte, "Alphard. Riflessioni sul significato della vita", e una terza parte, "Achernar. Riflessioni su amore e morte".

Una versione semplificata e ridotta di questi tre dialoghi è stata pubblicata sui "Quaderni" dell’Associazione Eco-Filosofica (già Associazione Filosofica Trevigiana), fra il 2003 e il 2006, col titolo di "Conversazioni Filosofiche".

SABINA: Che notte meravigliosa! Non ho mai visto brillare tante stelle, sembrano milioni.

ALESSIO: A queste latitudini il cielo è straordinariamente terso. E poi siamo in mezzo all’oceano, lontanissimi dai centri abitati, e l’atmosfera è perfettamente limpida.

SABINA: Credo che resterò qui tutta la notte. Non è troppo freddo. Questo profumo di salsedine sul viso mi dà un senso indicibile di benessere: mi par quasi di essere sul punto di toccare il cielo con un dito, la felicità stessa.

ALESSIO: Pure, questa immensità genera una specie di sgomento. È… troppo. Forse, l’animo umano è fatto solo per le piccole cose.

SABINA: Sgomento? Non so, ma è dolce, terribilmente piacevole.

ALESSIO: …e naufragar m’è dolce in questo mare.

SABINA: Certo, guardando il cielo e perdendosi in quel pulviscolo di sogno, ti dimentichi del mare, della nave, di tutto. Sembra di volare nello spazio. Perfino le parole ti escono con imbarazzo, innaturali. Naturale è tacere; contemplare e tacere.

ALESSIO: La felicità è inesprimibile.

SABINA: E tu… sei felice? Oh, guarda: una stella cadente! Presto, esprimi un desiderio.

ALESSIO: Fatto.

SABINA: Anch’io. Che fai con quella pipa?

ALESSIO: Fumo.

SABINA: Peccato non conoscere il cielo australe. Be’, anche del nostro ne so pochino: giusto la Polare, e le due Orse. E Orione, anche, perché ha quella forma così caratteristica, ed è tanto grande. Ma chi guarda il cielo, di notte? E poi, ci sono troppe luci artificiali.

ALESSIO: È bella, l’astronomia.

SABINA: Da bambina era diverso, vivevo in campagna. Ricordo bene certe notti di mezza estate, con il canto dei grilli e le danze delle lucciole. Quante lucciole! E l’odore intenso del fieno…

ALESSIO: Hai avuto un’infanzia fortunata.

SABINA: Oh, sì. Come si chiama quella stella? Quella lassù, così splendente.

ALESSIO: Si chiama Fomalhaut.

SABINA: Che nome strano. In che lingua è?

ALESSIO: In arabo. Quasi tutte le stelle hanno nomi arabi.

SAINA: E sai anche che cosa vuol dire?

ALESSIO: Vuol dire: "la bocca del pesce".

SABINA: Perché?

ALESSIO: Perché è la stella alfa della costellazione del Pesce Australe: Piscis Austrinus.

SABINA: Quante cose sai. E si vede anche dall’Italia?

ALESSIO: Sì, in autunno, a sud dell’Acquario.

SABINA: Ma come fai a sapere tutte queste cose?

ALESSIO: Anche tu sai una quantità di cose, nel tuo campo.

SABINA: Sì, le scienze naturali. Ma tu sei una persona veramente còlta, perché sai di tutto. Come gli uomini del Rinascimento.

ALESSIO: Ma no. Ti piace dunque tanto, che non ne stacchi lo sguardo?

SABINA: Fomalhaut? Sì, è incredibile. Brilla come una pietra preziosa, sembra pulsare… È molto lontana?

ALESSIO: Se ben ricordo, qualcosa come 23 anni-luce.

SABINA: Vuol dire che la luce che noi vediamo ora è partita, in realtà, circa ventitre anni fa?

ALESSIO: Sì.

SABINA: Allora ciò significa che noi vediamo il passato, non il presente. Teoricamente, quella stella potrebbe essere scomparsa nel frattempo. Ma come?

ALESSIO: Esplodendo, sotto forma di Supernova, per poi spegnersi rapidamente. Diciamo un’esplosione atomica.

SABINA: Quando tutto l’idrogeno si sarà trasformato in elio?

ALESSIO: Esatto.

SABINA: Questo cielo così vivido, così splendente mi fa venire delle idee strane. Mi sento come trasportata fuori di me, e sospesa sopra un abisso. Pare impossibile che la terra esista ancora, la terraferma voglio dire. E che domani il sole sorgerà ancora, e verrà un giorno chiaro e luminoso.

ALESSIO: È vero, sembra strano anche a me.

SABINA: Ma ci aspettano ancora quasi tre settimane di navigazione. L’arrivo in Antartide è previsto per la fine di novembre. Tu non sei emozionato, all’idea?

ALESSIO: Certo.

SABINA: Non lo lasci vedere, però. Hai un forte autocontrollo.

ALESSIO: Sono semplicemente introverso.

SABINA: Già. Ti confesso che, all’inizio, mi eri un po’ antipatico. Pensavo: ecco il classico presuntuoso. Perché sorridi?

ALESSIO: Niente, continua.

SABINA: Invece, conoscendoti, ho visto che non lo sei affatto. Anzi, sei una persona eccezionalmente schiva, modesta. Sembra quasi che tu voglia farti notare il meno possibile.

ALESSIO: Mimetizzarmi, come il camaleonte.

SABINA: Per esempio, hai notato che non parliamo mai di te?

ALESSIO: Come puoi dirlo? Marzia, ieri sera, m’ha fatto un vero e proprio terzo grado.

SABINA: Già, ma tu adottavi la tecnica dell’impermeabile.

ALESSIO: Cioè?

SABINA: Ti lasciavi scivolare addosso le sue domande. Sorridevi, scherzavi, e intanto sviavi ogni volta il discorso.

ALESSIO: Diciamo che non mi giudico un soggetto di conversazione particolarmente interessante.

SABINA: Marzia non la pensava così, a quanto pare.

ALESSIO: Marzia stava crepando di noia, come quasi tutti qui a bordo.

SABINA: Lo vedi?

ALESSIO: Che cosa?

SABINA: Che ti svaluti sempre.

ALESSIO: Parliamo di te, invece.

SABINA: Parliamo di Fomalhaut.

ALESSIO: Anche tu fai l’impermeabile?

SABINA: Stando con lo zoppo, s’impara a zoppicare.

ALESSIO: Va bene. Ma perché ti affascina tanto?

SABINA: È una stella che vedo per la prima volta, e che quasi certamente non rivedrò mai più, dopo. Guardandola, mi sorgono mille domande.

ALESSIO: Per esempio?

SABINA: L’universo è ordine o disordine? Questa notte stellata così affascinante dà un senso di pace suprema, di perfetta armonia. Ma la realtà potrebbe essere un’altra. Le stelle – lo dicevamo poc’anzi – non sono altro che delle gigantesche bombe atomiche. Violenza, almeno dal nostro punto di vista. Ma forse, l’uomo non era previsto. Forse tutto questo non era destinato affatto a noi. Tu che ne pensi?

ALESSIO: Quanto a questo, ne sono addirittura certo. È una delle mie poche certezze.

SABINA: Cioè, siamo un prodotto del caso?

ALESSIO: In un certo senso. Dell’evoluzione; ma il passaggio dal non-vivente al vivente è un evento altamente improbabile, come biologa lo sai meglio di me.

SABINA: Appunto. Così improbabile, da far pensare che forse non è un frutto del caso. Come tirare i dadi cento volte, e cento volte veder uscire il dodici. Possibile, ma estremamente improbabile.

ALESSIO: E Fomalhaut, e le altre seimila stelle visibili a occhio nudo nel corso dell’anno, e i cento miliardi di stelle che formano la Via Lattea e tutte le altre dell’universo, non aspettavano che noi. Prima che noi le vedessimo, anzi, era come se non esistessero: "esse est percipi", come diceva Berkeley.

SABINA: Per favore, niente filosofia.

ALESSIO: Ma noi, ora, stiamo facendo filosofia.

SABINA: Può darsi. Io mi pongo, semplicemente, delle domande; e penso che tutti, prima o poi, lo facciano.

ALESSIO: D’accordo. E allora, procediamo con metodo. Stavamo già andando fuori strada: tu chiedevi se l’Universo sia ordine o disordine. Altra cosa è chiedersi se sia stato fatto per noi, oppure no.

SABINA: Forse è vero. Il nostro antropocentrismo può condurci a confondere le duecose: "se è fatto per noi vuol dire che è ordine, altrimenti no"…

ALESSIO: Quale delle due questioni desideri che esaminiamo per prima?

SABINA: Tu pensi che siano collegate?

ALESSIO: No. L’universo può non essere stato fatto minimamente per noi, e tuttavia essere altamente ordinato.

SABINA: Oppure può essere estremamente disordinato, ma finalizzato alla comparsa dell’essere umano.

ALESSIO: Credi? Ma se è finalizzato a qualcosa, allora non è più disordinato. Il finalismo implica un ordine, una progressiva manifestazione di ordine…

SABINA: Hai ragione.

ALESSIO: Dunque le possibilità sono tre. Prima possibilità: che l’universo sia stato creato per l’uomo, e quindi che sia ordinato. Seconda possibilità: che non sia stato creato per l’uomo, ma che sia ugualmente ordinato: cioè, diretto verso un qualche altro fine, che non sia l’uomo stesso. Infine, la terza possibilità: che non sia stato creato per l’uomo e che sia disordinato, cioè prodotto unicamente dal caso.

SABINA: Ti ascolto. Da dove partiamo?

ALESSIO: Guarda che esaminare una tale questione può richiedere parecchio tempo. Non hai freddo?

SABINA: No, sto bene. Ricordo come un incubo il passaggio dell’Equatore, soffrivo molto il caldo. Ma ora dove siamo, esattamente?

ALESSIO: Giusto nel mezzo dell’Oceano Indiano, a egual distanza fra l’Africa e l’Australia. In una zona così lontana da qualsiasi terraferma che, di solito, i costruttori di mappamondi la utilizzano per stamparci sopra il nome della casa editrice, l’indicazione della scala di riduzione e la legenda.

SABINA: È buffo.Vuol dire che stiamo navigando in una specie di zona perduta, di angolo morto. Fa venire in mente il "Triangolo delle Bermude" e quelle cose lì.

ALESSIO: Oppure L’uomo senz’ombra di Adelbert von Chamisso.

SABINA: La nave morta di Traven.

ALESSIO: Il Gordon Pym di Poe.

SABINA: Una metafora dell’alienazione dell’uomo moderno. Kafka, Musil, Joyce, Svevo. Magari Pirandello e Borgés.

ALESSIO: Colpo su colpo, vero? Mi arrendo, sei una lettrice troppo forte per me.

SABINA: Eppure qualche terra ci deve essere, da qualche parte.

ALESSIO: È vero, ci sono due piccolissime isole gettate in questa immensa distesa d’acqua: Saint-Paul e Nuova Amsterdam. Credo anzi che ci stiamo passando relativamente vicino. Ma sono fuori delle normali rotte di navigazione, non penso che le vedremo.

SABINA: Comunque, mi fa piacere sapere che esistono e che sono qua vicino, si fa per dire. Mi dà un senso di sicurezza.

ALESSIO: Già.

SABINA: Allora, abbiamo tutta la notte per noi. Anzi, sai cosa ti dico? Mi piacerebbe veder sorgere il sole.

ALESSIO: E dormire…?

SABINA: Domani. È noioso, di giorno, sull’oceano.

ALESSIO. Sta bene. Comincio io?

SABINA: Sei tu il filosofo.

ALESSIO: Piantala.

SABINA: Guarda che ho visto i tuoi libri, giù in cabina.

ALESSIO: Non sono di filosofia.

SABINA: È la stessa cosa. Uno che va in Antartide al seguito di una missione scientifica, e che si porta dietro Omero, Virgilio, Dante e la Bibbia, non può essere che un filosofo.

ALESSIO: Da che cosa lo deduci?

SABINA: Dalla scelta che hai saputo fare. Soltanto cinque libri (contando separatamente l’Iliade e l’Odissea, com’è giusto), ma sono i migliori. I più importanti della cultura occidentale: è come se ti portassi dietro tutto quello che occorre. Per me, filosofo è colui che sa andare dritto all’essenziale.

ALESSIO: Capisco. Ma coi libri è facile, difficile è con la vita.

SABINA: Qualcosa mi dice che, anche lì, hai saputo andare al sodo, magari per una strada solitaria e malagevole.

ALESSIO: Anch’io lo penso di te, e forse con più ragione.

SABINA: Dici? Eppure la mia vita è piena di sbagli.

ALESSIO: Vuol dire che ti sei mossa. Che hai tentato. Del resto, l’importante non è cadere, ma rialzarsi.

SABINA: Lasciamo perdere. Allora, riprendiamo il nostro ragionamento. Ho bisogno di chiarirmi le idee.

ALESSIO: Ci eravamo domandati se fosse meglio partire dal problema dell’ordine, o da quello del principio antropico. Ed esaminando il rapporto logico tra le due questioni, avevamo riconosciuto che sono indipendenti l’una dall’altra. Ma che, volendo considerarle entrambe, potevamo ridurle a tre possibilità. Ricordi?

SABINA: Perfettamente.

ALESSIO: Prima possibilità. Un universo ordinato e, al tempo stesso, finalizzato in senso antropico. Seconda possibilità: un universo ordinato, ma non finalizzato in senso antropico. Terza possibilità: un universo disordinato e non finalistico. Va bene, Sabina?

SABINA: Sì.

ALESSIO: Io comincio ad esaminarle; e tu fermami, quando ti sembra che non proceda con rigore logico.

SABINA: Da quale possibilità incominciamo?

ALESSIO. Dalla prima. Mi si è spenta la pipa. Hai del fuoco?

SABINA: Ecco, prendi.

ALESSIO: Bene. Allora, separiamo i due elementi dell’ipotesi, e poi vedremo di ricongiungerli. Primo elemento: l’universo è ordinato. Secondo elemento. Tale ordine tende al principio antropico. Come procediamo?

SABINA: Dal primo elemento, ovviamente.

ALESSIO: E per prima cosa, diamo una definizione di ordine.

SABINA: Una definizione di tipo scientifico, o di tipo filosofico?

ALESSIO: Scientifico.

SABINA: Perché?

ALESSIO: All’inizio dobbiamo porre dei postulati, cioè compiere alcune scelte a priori. È inevitabile. Come per la geometria: se non si postula, ad esempio, che il punto geometrico non ha dimensioni, o che la retta è illimitata nei due sensi, non si può costruire nulla.

SABINA: E tu, come motivi la tua scelta?

ALESSIO: Con la convinzione che la filosofia non è un qualcosa che sta fuori delle cose, ma dentro di esse. Non è una forma di conoscenza diversa da quella scientifica, nel senso di alternativa ad essa. La scienza non è altro che la tensione umana verso la conoscenza: essa procede per ipotesi. Che vengono via via verificate, smentite, confermate, riviste e modificate. Dunque la filosofia è un ragionare all’interno della scienza, almeno fin dove ciò è possibile. Perché la scienza non potrà mai spiegare tutta la realtà, anche se deve sempre procedere come se ciò fosse un problema che non la riguarda.

SABINA: Come, non la riguarda?

ALESSIO: Perché si occupa del concreto, dell’esperibile. Dunque prende in esame solo problemi parziali.

SABINA: E la filosofia comincia solo là dove "finisce" la scienza?

ALESSIO: Alcuni lo hanno creduto e lo credono tuttora; io no. Come ho detto, penso che la filosofia s’identifichi, in sostanza, con la scienza. Però, precisando: primo, che la scienza è ricerca continua, non dato acquisito una volta per tutte, secondo: che la filosofia mira a coordinare i diversi rami della scienza, si occupa di questioni metodologiche, e quindi tiene un occhio rivolto al particolare e l’altro al generale.

SABINA: Prendo atto di questa tua scelta, di questo postulato. Del resto, la definizione di cosa sia scienza e di cosa sia filosofia ci porterebbe troppo lontano.

ALESSIO: Ora, dammi tu la definizione di "ordine" in termini fisici.

SABINA: In base ai tre pincìpi della termodinamica e al concetto di entropia, possiamo dire che esiste un certo ordine, quando un sistema è configurato in modo coerente, ovvero secondo un principio logico.

ALESSIO: Cioè?

SABINA: Cioè quando, in un determinato sistema, possiamo individuare una grandezza costante.

ALESSIO: Va bene, mi hai detto quando possiamo affermare che esiste un ordine, ma non che cosa esso sia.

SABINA: Ci proverò. Chiamo ordine una disposizione razionale ed armonica di qualche cosa nello spazio e nel tempo. Questa, più o meno, è la definizione che ne danno i testi scolastici di fisica, anche universitari.

ALESSIO: "Razionale"ed "armonica", alla luce di quale principio?

SABINA: Sia pratico che ideale, o secondo norme desumibili da una legge matematica. Sì, ricordo che il mio libro del liceo, il Caforio-Ferilli, diceva press’a poco così…

ALESSIO: Molto bene. E adesso, dimmi: in tutti i processi naturali conosciuti, la tendenza è quella verso l’ordine o verso il disordine?

SABINA: Verso il disordine.

ALESSIO. È facile passare da una condizione fisica di ordine, ad una di disordine?

SABINA: Sì. Anzi, è la regola: tutti i sistemi tendono verso un aumento dell’entropia, cioè della quantità di disordine.

ALESSIO: E il processo inverso?

SABINA: Dal disordine all’ordine?

ALESSIO: Sì. In natura, voglio dire.

SABINA: Non avviene mai, spontaneamente.

ALESSIO: Cioè, se io prendo un mazzo di carte nuove e le mescolo, il risultato sarà la scomparsa di ogni traccia dell’ordine iniziale. Non saranno più disposte secondo il valoree il colore, come lo erano prima.

SABINA: Certo.

ALESSIO: E se mescolo e rimescolo all’infinito?

SABINA: "Infinito" non è un concetto delicato, in fisica.

ALESSIO: Giusto. Ma per un tempo lunghissimo?

SABINA: Non torneranno spontaneamente nell’ordine originario, mai.

ALESSIO. Anche "mai" è un concetto delicato, implica l’infinito.

SABINA: Allora diciamo: non torneranno nell’ordine iniziale, anche rimescolandole per anni e anni.

ALESSIO: È impossibile che ciò accada?

SABINA: Impossibile magari no, però altamente improbabile. In fisica si usa questo linguaggio.

ALESSIO: Vero. E dimmi: l’esempio fatto per le carte, può essere fatto per qualunque altra situazione analoga, avente per oggetto la materia?

SABINA: E come no? L’irreversibilità di un evento significa che, in un dato sistema molecolare, il disordine tende sempre ad aumentare.

ALESSIO: Quindi, il disordine è il verso naturale degli eventi.

SABINA: Sì. Ma il disordine, più che uno stato, è un movimento. È l’ordine che si trasforma in disordine.

ALESSIO: Ma perché affermi che il disordine procede dall’ordine? Voglio dire: come fai a postulare uno stato originario di ordine?

SABINA: È semplice. In base al principio dell’aumento di entropia, possiamo procedere mentalmente a ritroso nel tempo e affermare che l’universo, in origine, era molto più ordinato di adesso. Il Big Bang eccetera, e tutto il resto.

ALESSIO: Ma i pincìpi della termodinamica possono essere trasportati anche nel campo della materia vivente?

SABINA: In base alle nostre attuali conoscenze, sì.

ALESSIO: Giusto. Infatti, potremmo definire la vita come un sistema in cui vi siano delle diminuzioni locali e temporanee di entropia, per mezzo del metabolismo dei tessuti. Ma è chiaro che ogni diminuzione di entropia all’interno del sistema-vita, dovrà essere compensato da un aumento di entropia in qualche zona dell’ambiente esterno con esso comunicante, cioè del sistema molecolare non vivente. Mi segui fin qui?

SABINA: Sì.

ALESSIO: Ora dimmi. Nel complesso dell’universo conosciuto, quale dei due sistemi è prevalente?

SABINA: Di quali sistemi parli?

ALESSIO: La vita e la non-vita.

SABINA: È prevalente il secondo.

ALESSIO: Cioè, la non-vita?

SABINA: Sì. Se anche vi fossero milioni e milioni di mondi abitati – il che, del resto, è solo un’ipotesi statistica – le molecole inorganiche sarebbero sempre immensamente più numerose di quelle organiche.

ALESSIO: A quanto pare, abbiamo appena riconosciuto che l’universo è disordinato. Dunque, cade il principio antropico, che era il secondo elemento della prima ipotesi. Ma cade anche la seconda ipotesi e non resta che la terza. Un mondo disordinato e casuale, non finalistico.

SABINA. Qui, però, mi sorge un dubbio.

ALESSIO: Coraggio, tiralo fuori.

SABINA: Prima abbiamo affermato che il disordine non è, propriamente parlando, un modo dell’essere, ma un divenire: "il disordine è un graduale passaggio dall’ordine al disordine". Te ne ricordi?

ALESSIO: Molto bene.

SABINA: E abbiamo anche detto – l’ho detto io, ma tu eri d’accordo – che, in origine, l’universo doveva essere molto più ordinato di oggi. È così?

ALESSIO: Me ne ricordo.

SABINA: E allora, un ordine originario c’era. E se c’era, questo significa che l’ordine è all’origine dell’universo, non il disordine. Anzi, più ci penso e più sembra che questo possa perfino rimettere in gioco il principio antropico. Un universo nato ordinatamente, che tende alla creazione di una mente capace di contemplarlo e di specchiarvisi: l’uomo. Sì, mi pare che questi siano fatti; cioè, che siano deduzioni rigorose e che tutta la questione vada pertanto riesaminata.

ALESSIO: E noi la riesamineremo, serenamente e senza pregiudizi. Ma davvero non sei stanca?

SABINA: No, no.

ALESSIO: E non hai freddo? Questo venticello non viene precisamente dai Tropici, direi.

SABINA: È un piccolo, piccolissimo assaggio del grande Signore del Sud, che ci aspetta fra tre settimane.

ALESSIO: Chi è il grande Signore del Sud?

SABINA: Il continente di ghiaccio, laggiù oltre l’orizzonte meridionale. Sua Maestà l’Antartide. E noi dobbiamo cominciare ad abituare il corpo al suo respiro. Perciò, quest’arietta notturna non mi spaventa. Però, fumerei volentieri una sigaretta.

ALESSIO: Credevo che non fumassi.

SABINA: Oh, una ogni tanto. Così, nei momenti che so io. Andiamo pure avanti.

ALESSIO: Dunque, tu dici: "l’aumento di entropia segna il passaggio da una condizione di ordine a una di disordine. Ergo, ab initio l’ordine c’era". Però, la nostra domanda iniziale non era se l’universo, in passato, fosse stato ordinato, ma se lo sia adesso. Se noi – che viviamo qui e ora – possiamo giudicarlo ordinato, appunto qui e ora. Non è così?

SABINA: È così. Ma non potremmo ipotizzare che l’ordine originario fosse comunque finalizzato al principio antropico? Proprio come la stella che, spenta, continua a brillare per noi, anche dopo migliaia e milioni di anni? In questo modo, l’ipotesi che l’universo sia stato fatto in funzione di noi, esseri viventi, riprenderebbe quota; non puoi negarlo.

ALESSIO: D’accordo, vediamo. Come credo saprai, gli astronomi considerano elemento decisivo, per stabilire un modello di origine dell’universo, quello della densità cosmica. Se essa è minore di un certo valore critico, vuol dire che l’universo è infinito e continuerà ad espandersi per sempre. Se è maggiore, l’universo è finito e, ad un certo momento, la sua espansione comincerà ad arrestarsi, per poi contrarsi fino a ridursi alle dimensioni di un punto. Il ciclo completo di espansione-contrazione dovrebbe durare qualche cosa come 120 miliardi di anni, stimando l’età attuale dell’universo in 10 miliardi di anni. Veramente c’è anche una terza possibilità, quella cioè che la quantità di materia presente nell’universo sia esattamente sul limitare della massa critica. Ma in questo caso, il sistema tenderebbe a scivolare nello stato di energia minima, col risultato che, prima o poi, si ricadrebbe in una contrazione, cioè nella seconda ipotesi che abbiamo fatto.

SABINA: Sì, anche se non sono un’astronoma, ricordo qualcosa dei miei studi di fisica. Fin qui ti seguo abbastanza bene.

ALESSIO: Gli scienziati – temo anche in base ai loro particolari gusti in fatto di teologia – sono equamente divisi fra la prima e la seconda ipotesi. I creazionisti, e quindi i credenti, prediligono il modello dell’universo in continua espansione, e quindi infinito: il Big Bang e tutto il resto. Gli anti-creazionisti, e quindi i non credenti, preferiscono invece il modello oscillatorio: espansione, contrazione, e poi di nuovo daccapo, all’infinito. Questo secondo modello è "comodo" filosoficamente, perché sposta all’indietro il problema dell’inizio, secondo le leggi del moto perpetuo: è una regressio ad infinitum. Una successione incessante di espansioni e contrazioni, senza un principio e senza una fine. A questo proposito, però, sorge un problema.

SABINA: Quale?

ALESSIO: È stato dimostrato che, ad ogni "ciclo" di espansione e contrazione, dovrebbe corrispondere un aumento dell’entropia per ogni particella nucleare.

SABINA: Puoi spiegarti in termini più semplici?

ALESSIO: Ad ogni ciclo dovrebbe corrispondere un aumento dei fotoni in rapporto alle particelle nucleari.

SABINA: E dov’è il problema?

ALESSIO: Il problema risiede nel fatto che il rapporto dei fotoni alle particelle nucleari è grande, ma non infinito. Ecco, vediamo se ci arrivi da sola.

SABINA: Credo di sì. Vuoi dire che, se l’universo esiste da un tempo infinito, come vuole il modello oscillatorio, il rapporto dei fotoni alle particelle nucleari dovrebbe essere ugualmente infinito.

ALESSIO: Brava: proprio così. Invece non è infinito. È grande, ma non infinito. Dunque l’universo ha un’età, dopotutto. E possedere un’età vuol dire, per forza, avere anche un inizio.

SABINA: E circa il problema della densità cosmica, a che punto sono le ricerche?

ALESSIO. La densità critica è calcolata in circa tre protoni per metro cubo. La densità effettivamente osservata nell’universo è oggi stimata in un valore circa cinquanta volte inferiore.

SABINA: Allora l’universo sarebbe infinito!

ALESSIO: Piano. Ci sono molti fatti che inducono a ipotizzare la presenza di una "massa invisibile", e questo rimetterebbe tutto in discussione.

SABINA: Quali fatti?

ALESSIO: Per esempio, i cosiddetti "buchi neri": luoghi di densità molecolare talmente elevata, che neppure la luce può sfuggire alla loro forza di gravità.

SABINA: E poi?

ALESSIO: I neutrini. Finora gli scienziati avevano supposto che queste particelle fossero praticamente prive di massa. Ma oggi non ne sono più tanto sicuri. Se i neutrini avessero una massa, anche minima, diciamo intorno ai venti elletronvolt, ne seguirebbe che i neutrini, pur essendo pressoché impercettibili, formerebbero da soli il novanta per cento della massa dell’intero universo.

SABINA: E allora la massa critica sarebbe ampiamente superata!

ALESSIO: Esatto. E l’universo sarebbe sicuramente finito.

SABINA: Col che, torneremmo al modello oscillatorio: un universo senza un principio e senza una fine.

ALESSIO: E avrebbero ragione gli anti-creazionisti. I materialisti, se così li vogliamo chiamare. La materia sarebbe certamente l’unico fondamento dell’universo, e sarebbe assolutamente indistruttibile, in saecula saeculorum.

SABINA: Mi torna in mente il De rerum natura, che ho letto al liceo.

ALESSIO: Ti piaceva?

SABINA: Sì, molto. Mi affascinava. Trovavo che Lucrezio possedesse in tutto e per tutto una potenza drammatica paragonabile a quella di Dante. Pensa, è uno dei pochi autori latini che ricordo con piacere. Ma adesso non arrabbiarti: lo so che tu adori Virgilio.

ALESSIO: Lucrezio, comunque, ha voluto essere semplicemente il divulgatore, a Roma, della filosofia di Epicuro.

SABINA: Ed Epicuro, se ben ricordo, ha preso molto della sua concezione filosofica da Democrito.

ALESSIO: …che il mondo a caso pone, come dice il padre Dante. Inferno, canto IV, verso 136.

SABINA: È incredibile! Lo conosci a memoria!

ALESSIO: Ecco che siamo tornati al nostro assunto iniziale. Secondo il modello oscillatorio, , con l’aiuto dei buchi neri e ella massa dei neutrini, siamo giunti all’idea dell’universo come frutto del caso, dunque come disordine.

SABINA: Caso e disordine sono inscindibili?

ALESSIO: Teoricamente no, ma praticamente sì. Ricorda quanto dicemmo sui concetti di probabilità e di possibilità, e ripensa all’esempio del mazzo di carte. È possibile che, mescolandole a caso, me le trovi tutte in bell’ordine, secondo il colore e secondo il valore, come un mazzo nuovo?

SABINA. Possibile, in teoria; ma, in realtà, talmente improbabile da essere pressochè escluso. Anzi, sicuramente escluso.

ALESSIO: Appunto.

SABINA: Però, non hai dimostrato che il modello oscillatorio è quello giusto. Né, a rigor di logica, che sia frutto del caso.

ALESSIO: Certamente, sul primo punto hai ragione. Bisogna aspettare che i fisici trovino il modo di "pesare" quei benedetti neutrini. Quanto al secondo punto, tu come definiresti il caso?

SABINA: Fammi pensare… non so bene. Credo che prenderei un buon vocabolario.

ALESSIO: E più o meno, cosa ci troveresti scritto?

SABINA: Più o meno, vediamo… Qualcosa del genere: "caso: causa misteriosa e remota degli avvenimenti umani". Sì, penso che questa definizione potrebbe andare. Tu che ne pensi?

ALESSIO: Lo penso anch’io. Ma trovo che il problema sia solo spostato.

SABINA: Già, è evidente il punto debole di una tale definizione. Dire che il caso è una causa misteriosa, è una contraddizione in termini.

ALESSIO: Una doppia contraddizione. Perché il concetto di caso è opposto a quello di causa, e perché il concetto di mistero è inconciliabile con quello di causa.

SABINA: Vero. Dammela tu, allora, una definizione migliore.

ALESSIO: Ci proverò. Ma non essere troppo severa con me, non aspettarti troppo. Sono questioni ardue, e andiamo tutti un po’ a tentoni.

SABINA: D’accordo.

ALESSIO: Allora, io definirei il caso come la possibilità di un evento, al di fuori di una qualunque volontà, di una qualunque intenzionalità.

SABINA. Un evento autoproducentesi?

ALESSIO. Sì.

SABINA: Certo, così eviti di invischiarti sia con il concetto di "causa" che con quello di "mistero". Tuttavia, c’è ancora qualcosa che non mi convince pienamente. Non so bene cosa.

ALESSIO: Credo di saperlo io: il fatto che un evento autoproducentesi, o anche la sua pura possibilità, ricorda troppo il modello oscillatorio dell’universo: si sposta all’infinito il problema dell’inizio (e della fine), ma non lo si risolve. Anzi, non lo si affronta nemmeno.

SABINA: Già, è proprio questo. È come dire che l’universo oscillatorio si è prodotto da solo, che la materia si è "creata" da sé stessa.

ALESSIO: Il fatto è che il pensiero – e il pensiero occidentale più di quello orientale – non riesce assolutamente a prescindere dalla nozione di causa ed effetto. È legato ad essa come Ulisse all’albero maestro della sua nave, mentre il canto delle Sirene lo faceva quasi impazzire dal desiderio.

SABINA: Ma potremo mai spiegare qualcosa, se rinunciamo al principio di causalità?

ALESSIO: Forse. Ci ho pensato parecchio, e credo di sì.

SABINA: E con che cosa lo sostituiremo?

ALESSIO: Con l’intuizione. Quando io intuisco qualcosa, è abolita – per un attimo – la distinzione fra soggetto e oggetto, fra causa ed effetto.

SABINA: Per esempio?

ALESSIO: Per esempio, quando intuisco la soluzione di un problema di geometria: vedo la soluzione perché so risolvere il problema, o so risolvere il problema perché vedo la soluzione?

SABINA: Non ti seguo.

ALESSIO: Voglio dire che il principio di causa ed effetto si basa sulla distinzione fra il prima e il poi, cioè un qualcosa di temporale. Ma se aboliamo il tempo, cade anche la soluzione del prima e del poi e non resta che la pura intuizione: unità indifferenziata e reciproca di causa ed effetto.

SABINA: E come si può abolire il tempo?

ALESSIO: Il tempo è qualcosa di relativo: dipende da una relazione della materia, ma non è pensabile in assoluto.

SABINA: E cosa è pensabile in assoluto?

ALESSIO: Nient’altro che un eterno presente, senza principio e senza fine. E l’intuizione sta al tempo, come il punto sta allo spazio.

SABINA: Vuoi dire che l’intuizione è priva di durata, come il punto è privo di estensione?

ALESSIO: Perfettamente.

SABINA: Va bene. Devo riflettere ancora su questa faccenda, ma intanto proseguiamo. Sii gentile, ripetimi la tua definizione di caso.

ALESSIO: La possibilità di un evento, del tutto a-finalistica.

SABINA: Sì, ora ho ripreso il filo del ragionamento. Prosegui pure. Adesso dovevi spiegare perché il modello oscillatorio dell’universo sia un’ipotesi che implica il concetto di causalità.

ALESSIO: Da quanto abbiamo detto poc’anzi, dovrebbe risultare evidente.

SABINA: Perché, secondo te – vediamo se indovino – un universo oscillatorio non potrebbe essere il frutto di una volontà o di una finalità poste al di fuori di esso.

ALESSIO: Esatto. È un evento autoproducentesi; e, in questo senso, casuale.

SABINA: Aspetta, ho bisogno di riflettere. Non vorrei concederti qualcosa in più del giusto, cioè del ragionevole.

ALESSIO: Vedi qualche artificio nel nostro ragionamento?

SABINA: No; non so. Forse…

ALESSIO: Dimmi.

SABINA: Forse, dire che un evento, il quale è causa sui, è, per ciò stesso, anche casuale, non mi pare sufficientemente dimostrato.

ALESSIO. È vero, io avevo posto una definizione di caso, non avevo sviluppato un ragionamento completo.

SABINA: Ecco, vorrei che riprendessimo in esame questo punto.

ALESSIO: Va bene. Ecco, guarda un’altra stella cadente!

SABINA: Un altro desiderio!… Fatto. E tu?

ALESSIO: Non sono stato abbastanza pronto. E poi… non ci credo.

SABINA: Ma si fa per gioco!

ALESSIO: Lo so, volevo vedere se t’arrabbiavi.

SABINA: Prima, però, ne avevi pensato uno.

ALESSIO: Sì.

SABINA: Non vuoi dirmelo?

ALESSIO: Forse, ma non oggi.

SABINA: Vuoi fare il misterioso? Va bene, tientelo pure. Nemmeno io ti dirò il mio. Anzi, i miei.

ALESSIO: D’accordo.

SABINA: Riprendiamo il nostro ragionamento, allora.

ALESSIO: Quand’è che noi definiamo un evento "casuale"? Nella nostra esperienza quotidiana, voglio dire.

SABINA: Quando nessuno è in grado di prevederlo.

ALESSIO: Vuoi farmi un esempio qualsiasi?

SABINA: Lasciamici pensare un attimo. Vediamo… Ecco, ci sono. Noi stiamo navigando nella notte, ma un grande iceberg va alla deriva proprio in questo tratto di mare. Si è staccato dalla bianca fronte del grande Signore del Sud, e scivola via sulle onde, verso la nostra rotta.

ALESSIO: Un iceberg alla deriva non è un fatto imprevedibile, in questa stagione. Nell’estate antartica, la banchisa si frantuma e i lastroni di ghiaccio vanno alla deriva.

SABINA: Ma l’Oceano Indiano è grande, e la nostra rotta lo attraversa tutto, da un capo all’altro. Che l’iceberg la incroci proprio nel momento preciso del nostro passaggio, è un evento altamente improbabile.

ALESSIO: Quindi, casuale?

SABINA: Sì. Un evento improbabile è frutto del caso.

ALESSIO: Va bene. Ma il caso non è poi così improbabile, se ci pensi. Immagina di giocarti un milione alla roulette, puntando sul rosso. Quante probabilità hai di vincere?

SABINA: Cioè, quante probabilità ci sono che esca il rosso e non il nero?

ALESSIO: Sì.

SABINA: Cinquanta su cento. Una su due, se preferisci.

ALESSIO: Quindi, vincere o perdere dipende dal caso, ma non è un evento poi tanto improbabile. Ha lo stesso grado di probabilità di accadere, come di non accadere.

SABINA: Bisognerebbe vedere quante volte è già uscito il rosso, prima della mia puntata. Se è già uscito una volta, le probabilità favorevoli dovrebbero essere una su quattro – credo. Ma il calcolo probabilistico non è il mio forte.

ALESSIO: Meglio fare l’esempio dei dadi, allora. Abbiamo due dadi e li lanciamo sul tavolo. Quante probabilità di fare "due"?

SABINA: Fammi pensare a quante sono le combinazioni possibili. Sono trentasei, vero?

ALESSIO: Sì. Cioè, sei numeri per ciascuna faccia del dado significa che il valore della somma delle due facce superiori dei due dadi va da un minimo di "due" a un massimo di "dodici". Gli eventi possibili sono quindi sei per sei, cioè trentasei.

SABINA: Allora, c’è una sola probabilità favorevole di fare "due" su un totale di trensai. E trentacinque probabilità sfavorevoli.

ALESSIO: Bene. E quante probabilità abbiamo di fare "tre"?

SABINA: Per fare "tre" bisogna che esca "due" più "uno", o "uno" più "due". Cioè, due col primo dado e uno col secondo, o viceversa. Quindi, due possibilità favorevoli e trentaquattro sfavorevoli.

ALESSIO: Come ottieni il calcolo di quelle sfavorevoli?

SABINA: Sottraendo sempre quelle favorevoli a trentasei, che è il totale delle possibilità che possono verificarsi.

ALESSIO: Giusto; andiamo avanti. Quante probabilità ci saranno per noi di fare "quattro"?

SABINA: Con due dadi, le combinazioni possibili per fare "quattro" sono – vediamo un poco -:"due" più "due"; "tre" più "uno"; "uno" più "tre". Totale, tre probabilità a favore e trentasei meno tre, quindi trentatre probabilità contrarie.

ALESSIO: Quante probabilità di fare cinque?

SABINA: Aspetta che ci penso; devo concentrarmi. Per fare "cinque" con due dadi, si può avere "tre" più "due", o "due" più "tre"; oppure "quattro" più "uno", o "uno" più "quattro". E basta: perciò, quattro combinazioni possibili: quattro probabilità a favore, e trentadue contro.

ALESSIO: Ora vediamo quante probabilità di fare "sei".

SABINA: Accidenti, mi hai scambiato per un elaboratore elettronico?

ALESSIO: Sono sicuro che puoi calcolarlo. Dopotutto, sei una scienziata, una mente superiore.

SABINA: Va’ al diavolo. Quante probabilità di fare "sei", hai detto? Intanto, per fare "sei" si può avere "tre" più "tre". Poi, "quattro" più "due", e "due" più "quattro". Poi… aspetta. Si può avere anche "cinque" più "uno", e "uno" più "cinque". Totale; cinque eventi possibili a favore, e trentuno contrari.

ALESSIO: Molto bene. E ora, il massimo della probabilità: se esce il numero "sette".

SABINA: Basta, non ce la faccio più. Aiutami.

ALESSIO: Intanto, "sei" più "uno" e "uno" più "sei". Giusto?

SABINA: Sì.

ALESSIO: Poi, "due" più "cinque" e "cinque" più "due". E siamo a quattro probabilità. Mi segui?

SABINA: Certo.

ALESSIO: Infine, "tre" più "quattro" e "quattro" più "tre". Totale, sei probabilità favorevoli e trenta sfavorevoli. È la combinazione più frequente: sei su trentasei è come dire una su sei. Dunque, significa che è quella che esce più spesso.

SABINA: D’accordo.

ALESSIO: Ora, il più è fatto. Raggiunto, col totale di sei, il massimo delle combinazioni possibili (infatti, con due dadi non esiste la possibilità di fare "uno"), con le altre eventuali uscite le probabilità favorevoli non faranno che decrescere progressivamente, con la stessa proporzione con cui erano aumentate passando da "due" a "tre", a "quattro", a "cinque", a "sei" e a "sette". Cioè, il numero "otto" ha cinque probabilità a favore di uscire, come lo aveva il "sei". Il numero "nove" ha quattro probabilità favorevoli, quante, cioè, ne aveva il "cinque". Il numero "dieci" ha tre probabilità a favore, quante ne aveva il "quattro". Il numero "undici" ne ha solo due, come ne aveva il "tre". Finalmente, il "dodici" ha una sola probabilità di uscire su trentasei: che esca "sei" più "sei", cioè che esca "sei" per entrambi i dadi. Come il "due", che può uscire solo con "uno" più "uno": cioè "uno" con entrambi i dadi. Siamo d’accordo?

SABINA: Ammiro sinceramente la tua agilità mentale e le tue capacità di pensiero astratto. Ora, spero che mi vorrai spiegare perché abbiamo esaminato, una per una, tutte queste trentasei probabilità.

ALESSIO: Era solo un esempio. Tu, come definiresti il concetto di probabilità?

SABINA: È un rapporto. Il rapporto che esiste fra il numero dei casi favorevoli e quello dei casi possibili. Ossia, fra gli eventi che potrebbero accadere e quelli che realmente accadono.

ALESSIO. E pensando ai nostri due dadi, come definiresti la probabilità che, lanciandoli sul tavolo, esca il sette?

SABINA: Relativamente favorevole. Il che significa: la più favorevole (o la meno sfavorevole, secondo i punti di vista) tra quelle possibili.

ALESSIO: E che escano il "due" o il "dodici"?

SABINA: Le meno favorevoli di tutte.

ALESSIO: Il che vuol dire che se io, ora, gettassi due dadi sul tavolo, sarebbe estremamente improbabile che escano il "due" o il "dodici"?

SABINA: Estremamente.

ALESSIO: Mentre sarebbe assai più probabile che esca il "sette"? Più probabile rispetto al "due" o al "dodici".

SABINA: Certamente. Molto più probabile.

ALESSIO: Ma potrebbe anche uscire "due", oppure "dodici", proprio al primo colpo.

SABINA: Diavolo! Vuoi dire che abbiamo fatto tutti questi calcoli mentali per nulla?

ALESSIO: È vero o non è vero che potrebbe uscire "due" o "dodici" al primo colpo?

SABINA: Ma, come disse qualcuno – Einstein, credo – Dio non gioca ai dadi.

ALESSIO: Lascia stare Dio e rispondi.

SABINA: È vero. È vero, che ti prenda il malanno.

ALESSIO: Ed è vero o non è vero che, anche dopo trecento lanci – ma che dico trecento, anche dopo tremila lanci – il "sette" potrebbe anche non essere uscito affatto?

SABINA: È vero, che Dio ti perdoni.

ALESSIO: Niente superstizioni!

SABINA: Ma che cosa vorresti concludere?

ALESSIO: Che il calcolo probabilistico si avvicina agli eventi reali – e non solo a quelli meramente possibili – a condizione di venire applicato a un numero grandissimo di casi. Sui piccoli numeri – e anche tremila è un piccolo numero – non vale un fico secco. Ancora un altro esempio. Un bivio nel bosco: a destra la strada sbagliata, a sinistra quella giusta. Ci sono cinquanta probabilità su cento che un viandante, pur non conoscendo la strada, imbocchi il sentiero giusto. Quindi, ogni due viandanti che, non conoscendo la strada, giungono a quel bivio, uno dovrebbe prendere quella giusta e uno quella sbagliata. Sei d’accordo?

SABINA: Sì.

ALESSIO: Invece, può succedere benissimo che dieci viandanti infilino di seguito il sentiero sbagliato, e nessuno prenda quello giusto. Solo su un campione di centomila viandanti comincerà ad essere probabile che la metà di essi imbocchi la strada giusta. Ma bisognerà arrivare a un miliardo di viandanti per poter affermare che sarà quasi certamente così.

SABINA: Tuttavia, le molecole che compongono la materia dell’intero universo sono innumerevoli. Infinite, poi, se l’universo risultasse davvero infinito.

ALESSIO: E questo cosa cambierebbe?

SABINA: Che, sulla scala dell’universo, la probabilità tende a coincidere con l’accadimento reale di un determinato evento.

ALESSIO: Continua.

SABINA: Che il caso, in ultima analisi, non esiste.

ALESSIO: E tutto avrebbe una causa ben precisa, come anticamente pensavano gli Stoici.

SABINA: Che ne pensi?

SABINA: Niente. Vediamo piuttosto dove ci può portare questa ipotesi. Verifichiamo se sia un vicolo cieco, o se ci possa condurre in qualche luogo.

ALESSIO: A dire il vero, non lo so neppur io. È un’idea che mi è venuta alla mente così, quasi da sola.

ALESSIO: Per caso?

SABINA: Ti odio. Be’, ora che ne facciamo di questa ipotesi?

ALESSIO: La seguiamo, si capisce. Comincia tu.

SABINA: Se il caso non esiste, l’universo deve avere una finalità.

ALESSIO: Ed essere ordinato.

SABINA: Sì.

ALESSIO: E avere una causa fuori di sé.

SABINA: Sì.

ALESSIO: E, se ha una causa, ha avuto anche un inizio.

SABINA: Anche.

ALESSIO: Dio.

SABINA: Forse.

ALESSIO: Già, perché no?

SABINA: Perché no?

ALESSIO: Dunque, rimetteremmo tutto in discussione.

SABINA: Così pare.

ALESSIO: Allora, non ci resta che riprendere tutto il ragionamento daccapo.

SABINA: Oh no, ti prego. Non vorrai ricominciare con la tortura dei dadi e delle probabilità…

ALESSIO: Scherzavo. Tuttavia, dovrai ammettere che questa nuova prospettiva merita di essere presa in esame.

SABINA: Sì, eccome.

ALESSIO: Tu ti chiedevi se il fatto che ci siano degli eventi innumerevoli, e forse infiniti, non significhi, per caso, che tutte le possibilità pensabili finiscano per realizzarsi. Tra parentesi, questa era anche – più o meno – l’idea di Nietzsche dell’ eterno ritorno dell’uguale.

SABINA: Ricordo più o meno questa teoria, ma vorrei che mi rinfrescassi la memoria.

ALESSIO: Cioè, se l’universo è eterno ma la materia di cui è fatto è finita, ogni cosa sarà fatalmente destinata a ripetersi, in condizioni perfettamente identiche a sé stesse, cioè a "ritornare" eternamente.

SABINA: Ma se anche la materia fosse infinita?

ALESSIO: Allora non vi sarebbe mai alcun ritorno, e tanto meno "eterno".

SABINA: E ogni cosa sarebbe unica e irripetibile?

ALESSIO: Esattamente.

SABINA: Scusa, mi rendo conto di spezzare la fluidità del ragionamento; tuttavia c’è un punto sul quale vorrei ritornare, perché mi aveva incuriosito. Ti dispiace?

ALESSIO: Per niente.

SABINA: Che cosa stavi dicendo, poco fa, degli Stoici?

ALESSIO: Che credevano fermamente nell’assoluta razionalità del mondo, e quindi che il caso non esiste. Ora, se il mondo è perfettamente razionale, ad ogni ciclo cosmico esso dovrà rinascere esattamente uguale a sé stesso, fin nei minimi particolari. Ercole dovrà compiere eternamente le sue dodici fatiche, e Socrate dovrà bere eternamente la cicuta. Per gli Stoici, ogni cosa era dominata dal destino, cioè dalla Provvidenza: ordine necessario e razionale di tutti gli eventi del reale.

SABINA: Dunque, il determinismo è la convinzione che ogni evento sia regolato meccanicamente dal principio di causa ed effetto.

ALESSIO: Sì, ma gli Stoici non erano deterministi.

SABINA: Come no? Allora vuol dire che non ho capito. Non credevano alla assoluta razionalità del mondo? E in un destino che prestabilisce l’ordine di ciascun evento?

ALESSIO: Sì; ma la connessione tra i fenomeni, per loro, non era da ricercare tanto nelle loro cause, quanto nel loro fine. Cioè, nel loro tendere a uno scopo. E lo scopo, per gli Stoici, era mosso da una volontà, da una intenzionalità: cioè, dalla Provvidenza.

SABINA: Certo, è tipico della mente umana tendere a uno scopo. Ma nulla prova che la Mente Universale, o Dio, o comunque vogliamo chiamarlo, ragioni così.

ALESSIO: Nulla prova che vi sia una mente. Nulla prova che vi sia una intenzionalità, nell’universo. Vi sono delle cause; e, a volte, queste cause sono così poco prevedibili, che le chiamiamo caso. Questo sì. Ma che ne sappiamo se vi sia anche un fine?

SABINA: Democrito, abbiamo detto prima, la pensava così.

ALESSIO: Sì, lui è stato il fondatore del determinismo. Ed Epicuro, più tardi. Sono loro i veri antagonisti della concezione finalistica. Per Democrito, gli atomi si agitano senza scopo e senza fine: prodotti di una razionalità intrinseca alla materia, ma fredda e impersonale; non di una volontà.

SABINA: E il mondo è senza uno scopo.

ALESSIO: Diciamo meglio: è senza un fine. Non tende verso qualcosa.

SABINA: Scopo e fine non sono la stessa cosa?

ALESSIO: Per me, c’è una sfumatura di differenza. "Fine" vuol dire ciò verso cui si è diretti; "scopo" implica, oltre a questo, anche il concetto di significato, quindi di valore.

SABINA: Un universo senza un fine non è anche senza uno scopo?

ALESSIO: Sarebbe senza scopo, se qualcuno o qualcosa lo avesse creato omettendo d’imprimergli un fine.

SABINA: Infatti, nella nostra ipotesi, non ha un fine.

ALESSIO: Ma nella nostra ipotesi, che poi è quella di Democrito e di Epicuro, nessuno lo ha creato. Nessuno e niente. È questa la differenza.

SABINA: Ora capisco.

ALESSIO: Vedi, se manca una volontà da cui l’universo abbia avuto origine, il concetto di scopo diviene improponibile. Anzi, diviene privo di significato, semplicemente.

SABINA: Si potrà dire solo che è privo di un fine.

ALESSIO: Esatto.

SABINA: Però mi par di vedere un grave punto debole nella concezione deterministica dell’universo.

ALESSIO: Ti ascolto.

SABINA: Essa si regge sul principio di causa ed effetto, non è vero?

ALESSIO: Sì.

SABINA: Però, nel risalire a ritroso la catena degli eventi, quando arriva al principio primo, che ha impresso il movimento al meccanismo, è costretto a fare dietro-front e a rinnegare tutta la sua metodologia. Per non dover ammettere che c’è stata una causa fuori, e quindi prima (in senso cronologico), della catena materiale delle cause e degli effetti; cioè una volontà e, molto probabilmente, una intenzionalità, un fine. Infatti, è quasi impossibile immaginare una volontà senza un fine e senza uno scopo.

ALESSIO: Anche tu, però, ora pensi in termini pesantemente antropomorfici. Abbiamo già detto, anzi lo dicevi proprio tu, che è tipico dell’essere umano pensare in termini di fine e di scopo. Ma la mente umana è l’ultima inquilina, in ordine di tempo, dell’universo. Dunque, l’universo non è tenuto a rispettare le sue categorie.

SABINA: Toccata. L’avevo detto, e ora vedo bene la contraddizione in cui stavo cadendo.

ALESSIO: E in cui è così difficile non cadere, dal momento che noi umani non abbiamo a disposizione un altro tipo di mente, per prenderci il lusso di pensare in modo diverso.

SABINA: Questo mi consola un po’ del mio errore.

ALESSIO: Comunque, quello che dicevi circa la contraddizione insita nel determinismo è abbastanza vero. Secondo Democrito, il principio strutturale della materia è dato dai vortici atomici: movimenti degli atomi che sono, per così dire, risucchiati dal vuoto; con i più pesanti che cadono verso il centro del vortice, mentre i più leggeri restano alla periferia. Ma, in realtà, non aveva spiegato un gran che. Piuttosto, mi par che vada evidenziata una cosa che tu, poco fa, avevi intuito, credo: e cioè, la curiosa parentela esistente tra gli Stoici e Democrito, cioè tra il finalismo e il determinismo.

SABINA: Sì, ho avuto questa sensazione, ma non riesco a precisarla.

ALESSIO: Quelle due scuole di pensiero così diverse, per non dire opposte, avevano – e hanno – un decisivo punto in comune: il razionalismno. Razionalismo metafisico quello degli Stoici, razionalismno materialistico quello di Democrito (e degli Epicurei). Sono come due fratelli siamesi attaccati per la schiena: guardano in direzioni opposte, ma la radice è la stessa: il rifiuto dell’idea di casualità.

SABINA: Ma tu credi al caso, oppure no?

ALESSIO: Ricordi che lo avevo definito come un evento possibile, autoproducentesi e slegato da qualunque intenzionalità?

SABINA: Sì. Ma ora vedo che questa definizione, per Democrito, designava l’opposto del caso: il principio di causalità.

ALESSIO: Bene. Ma la contraddizione, se c’è, è solo apparente.

SABINA: In che senso?

ALESSIO: Nel senso che il caso, a rigor di termini, è chiaramente un non-senso. Quel che chiamiamo caso, è un evento causalmente determinato, ma che non siamo in grado di prevedere.

SABINA: A causa della sua dubbia probabilità

ALESSIO: Mettiamola pure così. Per esempio, il numero che "esce" quando lancio due dadi, si dice che è opera del caso. Ma, in realtà, ci sono delle leggi fisiche ben precise, che, in base a un certo movimento dei dadi dalla mia mano al piano del tavolo, li hanno fatti cadere in quel certo modo: cioè, rivolgendo verso l’alto una delle loro sei facce, piuttosto che un’altra. Anche per Democrito, del resto, il caso e la causa non erano che le due facce di una stessa medaglia.

SABINA: In che modo?

ALESSIO: Nel senso che i movimenti degli atomi, i famosi vortici, sono casuali, cioè non prevedibili (e tanto meno previsti, altrimenti si ricadrebbe nel finalismo); ma, al tempo steso, sono necessariamente determinati, cioè spiegabili col principio di causa-effetto.

SABINA; Se ho ben capito, il principio di causa-effetto è la spiegazione, anzi, la constatazione a posteriori di quegli eventi che, quando non erano sufficientemente prevedibili, venivano chiamati, a priori, frutto del caso.

ALESSIO: Be’, semplificando forse un poco le cose, ma tutto sommato hai detto bene.

SABINA: Quindi, diciamo che il caso è una forza "misteriosa" semplicemente perché è ancora nella forma della possibilità. Ma quando la possibilità si è precisata in un evento determinato, allora diciamo che è una manifestazione del principio di causa-effetto.

ALESSIO: Ecco perché ti dicevo che il principio di causa-effetto è inadeguato come strumento di descrizione della realtà. Rischia, infatti, di ridursi a un misero "senno del poi".

SABINA: Cioè, se io esco liberamente dalla porta di casa mia sulla strada, posso scegliere di andare a destra o a sinistra. Allora, se qualcuno mi osserva dall’esterno, dirà che la scelta di avviarmi a destra è stata frutto del caso…

ALESSIO: … mentre noi sappiamo bene che c’erano un milione di ragioni perché tu scegliessi di prendere la destra invece della sinistra. Ma come si faceva a a vederle prima? Tu stessa, in parecchi casi, non avresti potuto prevedere la "scelta" in anticipo, fino all’ultimo momento: cioè fino al momento di agire.

SABINA: Ma allora, la libertà dove va a finire?

ALESSIO: Già, dove va a finire?

SABINA: Ti vedo assorto e pensieroso.

ALESSIO: E come si potrebbe accostarsi al problema della libertà, senza sentirsi tremar le vene e i polsi? Del resto, ti avviso che una riflessione in proposito, per quanto sommaria e incompleta, ci porterà sicuramente lontano.

SABINA: Non preoccuparti. Te l’ho detto: ormai aspetto l’alba. Guarda come si sono spostate le costellazioni! È incredibile, non mi ero mai sentita così piccola davanti al cielo stellato.

ALESSIO: E anche davanti alle cose che stiamo discutendo, c’è da sentirsi piccoli.

SABINA: L’uomo è una canna, ma una canna che pensa. Non era Pascal? Ricordi di liceo…

ALESSIO: Incominciamo col distinguere il problema della materia non vivente da quello della materia vivente. Per la materia non vivente il problema del determinismo ha implicazioni etiche meno "pesanti", per quanto non possa dirsi insignificante. Epicuro, ad esempio, vide che il meccanicismo atomistico ben difficilmente avrebbe potuto produrre qualcosa di diverso dal nulla (o dal caos), e appunto per questo introdusse il concetto di clinamen. Parlavamo di Lucrezio, te ne ricordi?

SABINA: Molto vagamente.

ALESSIO: Semplificando al massimo, il problema è questo: se gli atomi cadono nel vuoto, come fanno ad aggregarsi? Coi vortici. Ma non si capisce come tali vortici possano formarsi. Allora Epicuro immagina che gli atomi cadano nello spazio non in linea retta, ma con una leggera deviazione dalla verticale. Il clinamen, appunto. Senonché, questa "soluzione" crea forse maggiori difficoltà di quante non ne risolva. Come fanno gli atomi a deviare dalla verticale? Quale "forza" ve li induce? Dunque le leggi della natura non sono deterministiche?

SABINA: Mi pare che un po’ tutti i filosofi abbiano la tendenza a comportarsi così. Costruiscono i loro bravi sistemi e poi, allorché ne scoprono qualche difetto, anziché domandarsi se non abbiano commesso degli errori e rimettere tutto in discussione, applicano un cerotto per rimediare alla difficoltà, e poi vanno avanti tranquillamente, come nulla fosse.

ALESSIO: Com’è vero. Mi chiedo anzi se gli uomini, anche i più grandi, cerchino davvero la verità, o se non cerchino semplicemente una verità qualsiasi: delle certezze più o meno a buon mercato, che li dispensino dal fastidio di una ulteriore, continua ricerca.

SABINA: Vuoi dire che la verità non è un oggetto cui si possa pervenire, ma un percorso che non ha mai fine?

ALESSIO: All’incirca. Un qualche cosa che ci tenga sempre ben desti e di cui non accontentarsi mai, mai.

SABINA: Sei esigente. E spietato. Questi poveri esseri umani: guardali. Non penano già abbastanza per conto loro, alle prese con il problema della vita? Hanno pur bisogno di riprendere fiato, di sentire il conforto di qualche certezza.

ALESSIO: Ma sì.

SABINA: No, vedo che non ci credi.

ALESSIO: Sai cos’è? È che non posso fare a meno di pensare ai roghi, alle torture, alle crociate. Gli uomini meriterebbero certo comprensione, se fossero come tu li hai descritti: dei poveri, piccoli pulcini spaventati di fronte alla minacciosa complessità del reale. Ma in essi la paura, il meccanismo difensivo sono solo una manifestazione della loro pigrizia. Sono essenzialmente animali da preda: aggrediscono per il piacere della forza, del dominio. Usano anche le loro paure come un alibi per la loro sete di dominio.

SABINA: Per esempio?

ALESSIO: Penso alla Leggenda del Grande Inquisitore, che è un vero romanzo nel romanzo I fratelli Karamazov di Dostojevskij. Quando il Grande Inquisitore ha un colloquio con Gesù, che è ritornato fra gli uomini ed è stato gettato nelle carceri di Siviglia, rimane scosso dal bacio di lui. Comprende tutta la menzogna della Chiesa, dei suoi dogmi, della sua intolleranza, e lo lascia andare. Ma resta convinto che agli uomini non si debba dare la verità, che essa sia troppo pericolosa per loro. Pertanto, si guarderà bene dall’annunziare che Cristo è ritornato. La sua domanda al prigioniero era stata categorica: "Che sei venuto a fare?". Come dire: adesso che abbiamo il cristianesimo, adesso che abbiamo una Chiesa due volte millenaria, che ce ne facciamo di Te?

SABINA: Ora che abbiamo una verità, che ce ne facciamo della Verità?

ALESSIO: Appunto: questo è il nocciolo della questione. Comunque, ci siamo allontanati parecchio dal nostro assunto. Propongo pertanto, se per te va bene, di tornare indietro.

SABINA: Sono d’accordo.

ALESSIO: Stavamo dicendo che un certo grado di autonomia dal determinismo, un certo gradi di "libertà" fa capolino perfino nel meccanicismo atomistico degli Epicurei. Figuriamoci se il problema del libero arbitrio non diventa estremamente impellente, quando si passa dalla riflessione sulla materia inorganica agli esseri viventi e, quindi, all’uomo.

SABINA: Tu che ne pensi?

ALESSIO: Penso che sia la domanda delle domande; non è mica poco quello che chiedi.

SABINA: Bisogna pur tendere a qualche punto fermo.

ALESSIO: Va bene. Ecco, io ora posso scegliere di restare appoggiato al corrimano della murata (che te ne pare del mio gergo da vecchio lupo di mare?), oppure di tirarmi in piedi. O magari di sedermi su quella panca. Scelgo di restarmene appoggiato al corrimano. È un segno della mia libertà?

SABINA: Non lo so, dimmelo tu.

ALESSIO: Secondo me, no. Ho trovato più comodo restarmene in questa posizione. C’erano più ragioni per fare questa "scelta", se così vogliamo chiamarla, che per una qualunque delle altre possibili. Tutto qui. Questo piatto della bilancia pesava più dell’altro. E bada bene che ho fatto l’esempio dell’azione più gratuita, almeno in apparenza. Ma nella vita quotidiana, di solito la nostra possibilità di scegliere è ancora più illusoria. Il nostro patrimonio genetico e, naturalmente, l’educazione ricevuta e le esperienze fatte – specie infantili -, da un lato; dall’altro le leggi, le consuetudini, la pressione dell’ambiente, sia quello fisico che quello sociale: metti ogni cosa sul piatto della bilancia, e non avrai più dubbi.

SABINA: Pure, assistiamo di frequente a delle libere scelte, delle scelte imprevedibili, che sembrano opporsi e sfuggire a tutte quelle forze condizionanti che tu hai ricordato.

ALESSIO: Dici bene: sembrano.

SABINA: Dunque non c’è alcun merito nell’essere santi?

ALESSIO: Posso sbagliarmi, ma penso di no.

SABINA: Che non c’è merito.

ALESSIO: Che non c’è.

SABINA: E non c’è alcuna colpa nell’agire da criminali?

ALESSIO: È naturale pensare che ci sia, e forse è anche giusto. Bisogna crederlo, per avere la forza di andare avanti. E per poter sanzionare, con buona coscienza, le azioni criminali. Ma a ben guardare, secondo me, non c’è alcuna colpa.

SABINA: Perché non c’è libertà?

ALESSIO: Perché non c’è libertà.

SABINA: Aspetta. Arrivati a questo punto, sento che mi manca il fiato; ho bisogno di raccogliere le idee. Mi sembra di essere giunta sulla cima di una montagna altissima, ove scarseggia l’ossigeno.

ALESSIO: Vedo perfettamente la serietà del problema e la gravità delle sue implicazioni pratiche: tutte le idee correnti sul premio e sul castigo vengono a cadere. Tra l’altro, sul concetto di libertà poggiano non solo tutte le legislazioni, ma anche tutte le religioni. Niente libertà, e allora niente Paradiso e niente Inferno. Niente peccato, niente di niente.

SABINA: Mi fai venire le vertigini.

ALESSIO: Ti prometto che ci ritorneremo sopra, se vorrai, una delle prossime notti. Ne abbiamo ancora, di notti stellate come questa, che ci attendono.

SABINA: Ma ora le tue parole mi fanno considerare anche questo meraviglioso sfolgorìo di stelle sotto una luce diversa.

ALESSIO: Meno rassicurante?

SABINA: Sì.

ALESSIO: Meno poetico?

SABINA: Resta sempre indicibilmente bello. Ma ora mi fa un po’ l’impressione di una bellezza fredda, impassibile.

ALESSIO: Leopardi?

SABINA: Anche, certo.

ALESSIO: Pure, proprio il contrasto fra la bellezza della natura e la sua potenziale crudeltà ha ispirato alcuni fra i versi più belli della poesia universale.

SABINA: Come al tuo amato Virgilio.

ALESSIO: Sì.

SABINA: Per favore, recitamene qualche verso. Ho bisogno di rinfrancarmi, di rimettermi in pace con Fomalhaut e con tutti quei Soli che brillano lassù, e che forse altri occhi – non umani, né terrestri – stanno ora ammirando, chissà dove, nello spazio.

ALESSIO: Tempus erat, quo prima quies mortalibus aegris

Incipit et dono divom gratissima serpit…

SABINA: Questi versi hanno una musicalità, una dolcezza straordinarie. Li ho già sentiti… me li traduci?

ALESSIO: È l’ultima notte di Trioa, nel canto secondo dell’Eneide. Dopo nove anni di guerra, per la prima volta i Troiani dormono sollevati, sereni. Non sanno che i Greci stanno per prendere la città, col tradimento.

Era l’ora in cui il primo riposo giunge ai mortali affannati

E scende quale dono dolcissimo degli dei…

SABINA: Com’è bello, non ci sono parole.

ALESSIO: Oppure questo, proprio dall’incipit del secondo canto:

… et iam nox umida caelo

praecipitat suadentque cadentia sidera somnos.

Questa volta siamo nella reggia di Didone, a Cartagine. La sventurata regina, già innamorata di Enea, lo prega di raccontare le sue dolorose vicissitudini; e l’eroe, circondato dal silenzio generale, comincia:

… e già scorre nel cielo l’umida notte,

le stelle, tramontando, invitano al sonno.

SABINA: Che peccato aver trascurato il latino, dopo il liceo! Adesso lo rimpiango. Ma… hai voglia di riprendere la nostra discussione?

ALEESSIO: Certo.

SABINA: Non ti sto spremendo un po’ troppo?

ALESSIO: Non devi pensarlo. Al contrario.

SABINA: Davvero?

ALESSIO: Sì.

SABINA: Però, sei strano.

ALESSIO: Perché?

SABINA: Sembra quasi che non t’importi niente di nessuno, e ora fai le ore piccole a ragionare di filosofia, rinunciando al sonno. Su richiesta di una seccatrice, che oltretutto conosci così poco.

ALESSIO: Seccarmi, tu?

SABINA: Di’ la verità, cosa pensi di me?

ALESSIO: La verità?

SABINA: Sinceramente.

ALESSIO: Disse Pilato a Gesù Cristo: "Che cos’è la verità?". Vangelo di Giovanni, capitolo diciottesimo.

SABINA: E non adottare la tattica dell’impermeabile.

ALESSIO: Di scherzare e sviare il discorso.

SABINA: Appunto.

ALESSIO: Ma perché lo vuoi sapere? Nemmeno tu dai l’impressione di curarti troppo di quel che gli altri pensano di te.

SABINA: Dipende da chi sono gli altri.

ALESSIO: Bene. Ti faccio una proposta. Concludiamo il nostro ragionamento, e poi daremo la stura alle nostre confessioni personali.

SABINA: Dulcis in fundo?

ALESSIO: Dulcis in fundo.

SABINA: Ci sto.

ALESSIO: Parlavamo della libertà e del determinismo. A una tua domanda precisa, sono saltato direttamente alle conclusioni, anzi a una mia personalissima conclusione; e ho negato che la libertà sia qualcosa di più di una vuota parola, flatus voci. La qual cosa ti ha fatto una penosa impressione, probabilmente ti è parsa una filosofia disperata.

SABINA: A dire il vero, questa filosofia da disperati mal si concilia con l’idea che mi sono fatta di te. Mi sembri una persona energica, capace di lottare, all’occorrenza, per le cose in cui credi. Sarebbe tutto illusorio? Se fosse così, la vita sarebbe una ben misera farsa.

ALESSIO: La verità va ricerca indipendentemente dalle conseguenze etiche, più o meno simpatiche, che ne possono derivare. Non c’è un errore più grande che voler far coincidere la realtà coi propri desideri. E, oltre a questo, il pessimismo della ragione non esclude un ottimismo della volontà.

SABINA: Cioè?

ALESSIO: Tu puoi anche essere convinto che ogni cosa è dominata dalle leggi della materia, che ogni scelta è illusoria; e tuttavia sentire l’esigenza morale di impegnarti, di agire come se così non fosse.

SABINA: Perché dovrei?

ALESSIO: Semplicemente perché questo ci aiuta a vivere; ci dà la sensazione di avere uno scopo, il che è essenziale.

SABINA: Non posso credere che tu lo pensi veramente.

ALESSIO: Perché?

SABINA: Per esempio, perché quando abbiamo fatto sosta a Città del Capo, ti ho visto adoperarti coi poliziotti che volevano arrestare quel negro ubriaco che ci infastidiva. Perché lasciassero perdere.

ALESSIO: E con ciò?

SABINA: Forse, se tu non avessi agito così, lo avrebbero picchiato o portato in questura. Dunque, noi possiamo agire sulla realtà e modificarla: e tu non la pensi diversamente.

ALESSIO: Se ho agito così, c’erano delle ragioni che mi hanno spinto a farlo: e quelle ragioni hanno deciso per me.

SABINA: Parrebbe, dunque, che siamo solo delle marionette.

ALESSIO: È probabile che lo siamo.

SABINA: Probabile?

ALESSIO: Certo, io non ho la sicurezza del prete, che ti dice: "L’uomo è libero; dunque, se pecca, andrà all’inferno". Né quella del giudice, che ti dice: "L’uomo è libero. Dunque, se infrange la legge, verrà punito". Invidio le loro certezze. A me, nessun Dio le ha sussurrate all’orecchio, nessun codice me ne ha persuaso.

SABINA: Che cos’è l’uomo, allora?

ALESSIO: Un poveraccio. Due volte poveraccio, perché non lo sa e, magari, si crede una specie di piccolo padreterno.

SABINA: Dunque, tornando al nostro assunto iniziale: l’universo è disordine e l’uomo vi è capitato assolutamente per caso.

ALESSIO: Così credo. Tuttavia, ti ricordi la definizione che abbiamo dato di "ordine"?

SABINA: Sì: Più o meno questa: "una disposizione armonica e razionale di qualcosa nello spazio e nel tempo, misurabile in termini pratici o ideali o matematici".

ALESSIO: Molto bene. E quella di disordine?

SABINA: In natura, il disordine è un processo: un passaggio graduale dall’ordine al disordine, cioè da un sistema armonico e razionale verso uno disarmonico e irrazionale.

ALESSIO. Vedo che ricordi perfettamente quanto avevamo detto a proposito. Benissimo.

SABINA: Tuttavia – posso interromperti? – la vita a me pare qualcosa di armonico e razionale, cioè di ordinato. E la mente umana mi pare, anch’essa, un qualcosa di ordinato. Questo, come lo spieghi?

ALESSIO: Se l’universo è disordinato – e, in natura, tutto è un crescente disordine – la vita e la stessa mente non possono essere che figlie di quel disordine. Ora, una mente disordinata non potrebbe in alcun modo percepire se stessa come tale, né il mondo come disordinato.

SABINA: Ma l’ordine può essere prodotto dal disordine?

ALESSIO: Ti risponderò con un’altra domanda. Una scimmia, battendo a caso i tasti di una macchina da scrivere, può comporre una terzina a caso della Divina Commedia?

SABINA: No.

ALESSIO: Sicura?

SABINA: Sarebbe un evento estremamente improbabile.

ALESSIO: Ma possibile?

SABINA: Teoricamente.

ALESSIO: Teoricamente sì?

SABINA: Teoricamente sì.

ALESSIO: Auff! Sei un osso duro, Sabina.

SABINA: Così dicono.

ALESSIO: E quella scimmietta, pur battendo i tasti a casaccio, potrebbe comporre una brevissima parola? Una parola di tre lettere, come "uva"?

SABINA: Questo sarebbe già un evento più probabile.

ALESSIO: Forse, allora, hai già risposto alla domanda che mi avevi posto: se l’ordine possa nascere dal disordine.

SABINA: Ma il passaggio dalla più complessa molecola inorganica alla più semplice molecola organica è un evento infinitamente più improbabile dell’esempio che mi hai fatto ora.

ALESSIO: A me basta aver mostrato la sua possibilità.

SABINA: Teorica.

ALESSIO: Teorica. Però, considera i milioni di anni che ha avuto a disposizione la natura, per provare e riprovare.

SABINA: Troppo pochi, secondo i biologi. Se non è stata una volontà intenzionale, è stato praticamente un miracolo.

ALESSIO: Cos’è un miracolo?

SABINA: Ho l’impressione che me lo dirai tu.

ALESSIO: È una parola priva di significato.

SABINA: Ancor meno di "libertà"?

ALESSIO: Ancor meno, se fosse possibile.

SABINA: E allora dimmelo tu, cos’è stata la comparsa della vita sulla Terra.

ALESSIO: Un caso.

SABINA: Ma non avevamo detto che noi chiamiamo "caso" quella causa necessaria e naturale che non siamo in grado di prevedere?

ALESSIO: Appunto.

SABINA: Dunque?

ALESSIO: Dunque, la comparsa della vita e la formazione del cervello umano sono il frutto di un meccanismo naturale, che si è messo in moto a partire da un evento improbabile, ma perfettamente naturale e tale da potersi effettivamente verificare in qualsiasi momento.

SABINA: E questo ti basta? Cioè, sei appagato da una tale conclusione?

ALESSIO: No.

SABINA: Come?

ALESSIO: Ho detto: no.

SABINA: Questa volta mi hai proprio spiazzata. Ero convinta, invece, che avresti risposto di sì.

ALESSIO: Delusa?

SABINA: No, solo meravigliata. Ma allora, perché…? Non capisco.

ALESSIO: Perché ho dato una tale definizione della vita e del cervello umano? Per una buona ragione, la migliore possibile: perché non mi riesce di trovarne una più soddisfacente. Anzi, per parlare propriamente: non mi riesce di trovarne una meno insoddisfacente.

SABINA: Vedo…

ALESSIO: Che cosa dovrei fare: scomodare un deus ex machina che interviene con la bacchetta magica, che crea la vita e la mente umana come "coronamento" di un suo non meglio precisato piano o disegno? Tanto varrebbe credere ai miracoli.

SABINA: Io penso che credere in qualcosa – che sia la materia o il caso o Dio o quello che vuoi – sia un po’ sempre scommettere.

ALESSIO: Può darsi. Ma allora, tanto vale scommettere sul più probabile degli eventi. O, se preferisci, sul meno improbabile.

SABINA: Ascolta. Tu affermi che la vita si è prodotta da sé, senza una causa e senza un fine…

ALESSIO: Ti correggo: senza un fine, ma per delle cause precise.

SABINA: Hai ragione; volevo dire: senza una causa esterna ad essa.

ALESSIO: Ora va bene.

SABINA: Ma guardando lo spettacolo del mare sereno e della notte stellata; pensando alle stagioni, alla luce del sole, e al suo calore benefico; all’atmosfera che avvolge il nostro pianeta e che ci protegge dalla radiazione ultravioletta, dalla caduta dei meteoriti, e che consente la respirazione dei viventi…

ALESSIO: Al profumo dei fiori, in primavera.

SABINA: Sissignore, al profumo dei fiori…

ALESSIO: …come faccio a negare che la vita esprima un evidente disegno benefico, una finalità ben precisa?

SABINA: Come fai?

ALESSIO: Ma il profumo dei fiori, mia cara, non è stato "inventato" dalla natura per noi umani. Lo sai bene. È stato "inventato" per gli insetti che li devono impollinare, così come i loro splendidi colori.

SABINA: E tuttavia, per noi è gradevole.

ALESSIO: Siamo stati semplicemente fortunati. Perché i nostri gusti in fatto di odori collimano con quelli delle api e dei calabroni. Se questi ultimi apprezzassero gli stessi odori che piacciono, ad esempio, ai cani, per noi camminare attraverso un bel prato fiorito sarebbe alquanto penoso: dovremmo turarci il naso per il fetore.

SABINA: E anche questo, è solo un caso?

ALESSIO: Un evento. Niente fiori, niente insetti. Niente insetti, niente profumo. Noi esseri umani annusiamo quel profumo a scrocco. Quanto all’atmosfera che ci protegge da spiacevoli "bombardamenti" celesti, tu sai benissimo come si è formata. L’uomo non c’entra affatto: è comparso milioni di anni dopo.

SABINA: Ma l’atmosfera ha creato le condizioni favorevoli.

ALESSIO: Questo è un modo di ragionare che ricava le conseguenze a posteriori, scambiando determinati eventi per delle cause di qualche cosa. Pezze d’appoggio per un finalismo a buon mercato.

SABINA: Nei sei certo?

ALESSIO: Come del fatto che, quando i nostri corpi marciranno nella terra, non sarà per offrire un banchetto ai signori vermi. I vermi si auto-inviteranno e mangeranno a sbafo: ecco tutto.

SABINA: Perché sei così ostile al finalismo?

ALESSIO: Perché è un ragionare da bambini.

SABINA: E questo è male?

ALESSIO: Quando si è bambini, no.

SABINA: E quando si è adulti?

ALESSIO: È ridicolo.

SABINA: Ricordi quella frase di san Paolo? Come fa…?

ALESSIO: "Quando ero bambino, ragionavo da bambino. Ma ora che sono uomo, ho smesso le cose da bambini."

SABINA: Ma perché il finalismo è infantile?

ALESSIO: "Dimmi, papà – chiede il bambino – perché le palme sono tanto alte?". E lui: "Ma è evidente, figlio mio: perché le giraffe possano mangiarne le foglie."

SABINA: Simpatica.

ALESSIO: Aspetta, non è finita. Il bambino ci pensa un po’ su, e poi ricomincia: "Ma papà, non era più semplice che Dio facesse le palme basse?". "Ma caro – risponde il padre – è evidente che Dio ha fatto le palme alte perché altrimenti le giraffe, col loro lungo collo, come avrebbero fatto a brucare le palme così basse? Avrebbero dovuto mettersi ogni volta in ginocchio, non ti pare?". Ecco, questo è il finalismo. E per molti secoli ha pesato sulla ricerca scientifica, inceppandola, sotto la forma dell’aristotelismo dogmatico.

SABINA: Il che manda su tutte le furie l’illuminista che è in te.

ALESSIO: Un po’.

SABINA: Ma l’illuminismo non è figlio del razionalismo?

ALESSIO: Sento che stai tendendo qualche trappola.

SABINA: Lo è o non lo è?

ALESSIO: Sì, lo è.

SABINA: E non abbiamo detto che il razionalismo metafisico è il fratello siamese del razionalismo materialistico?

ALESSIO: Ora la vedo. Sì; ma non è scacco matto.

SABINA: Allora tu sei quasi fratello di quello spiritualismo finalistico che tanto detesti!

ALESSIO: Ma non lo sapevi che noi odiamo il nostro simile? Il diverso, al massimo lo disprezziamo.

SABINA: Ed è proprio questa somiglianza che ti esaspera.

ALESSIO: Adesso cercherai di farmi passare per un prete alla rovescia. No, te l’ho già detto prima. Io ho la coscienza chiara e distinta dell’enorme complessità dei problemi. So di poter sbagliare, so che forse sbaglio. Ma è preferibile sbagliare cercando la verità, anche se essa è sgradevole, che non inventarsi dei miti consolatorî.

SABINA: Per esempio?

ALESSIO: Che l’universo sia un luogo ospitale e quindi, verosimilmente, creato da una mano amorevole. No, Sabina, l’universo è un luogo maledettamente inospitale per qualunque forma di vita. Ovunque vediamo che il vivente è minacciato dal non vivente (oltre che dal vivente stesso); ovunque il disordine sempre più caotico reclama i suoi diritti.

SABINA: Ma allora, che scopo ha la vita umana?

ALESSIO: Dammi prima una definizione di scopo.

SABINA: Dico "scopo", vediamo…; dico "scopo" ciò verso cui si tende, a cui si indirizzano i propri sforzi. Scopo è ciò che si vuole raggiungere in virtù di mezzi adeguati.

ALESSIO: Ora, mi sembra che la vita in generale – e la vita umana in particolare – non vogliano raggiungere proprio nulla, semplicemente perché non hanno alcunchè da raggiungere. Esistono, e basta. Domani non esisteranno più. E tutto continuerà come prima.

SABINA: Senza una mente che osservi e interroghi la materia?

ALESSIO: Senza che le palme debbano essere alte per farsi mangiare le foglie dalle giraffe.

SABINA: D’accordo. Ma sarà proprio così?

ALESSIO: Non lo so, naturalmente. Quando non vi sarà più alcuna mente nell’universo, chi lo sa cosa ne sarà delle galassie e delle nebulose? Io credo che continueranno a esistere altrettanto bene senza di noi. Ma è chiaro che si tratta di una semplice congettura. Inevitabile, d’altra parte: poiché la mente pensa sempre per immagini. Siamo fatti così. Un pensiero puramente astratto, cioè veramente privo di contenuti tratti dall’esperienza visiva, non esiste.

SABINA: Alessio, il grande demolitore.

ALESSIO: Oh, tu non ci crederai, ma ho dei limiti anch’io. Si dà il caso che, in natura, nulla si distrugge. Sono i finalisti che devono postulare una distruzione finale, una resa dei conti cosmica che giustifichi l’universo. E questo per aver voluto porre delle mète alla materia; anche se lei, poveretta, veramente non sa che farsene. Lei sta benissimo anche così, e si meraviglierebbe non poco se qualcuno di codesti preti travestiti da filosofi le dicesse: "Cara signora, ma davvero lei è esistita per tutto questo tempo senza sapere che deve tendere verso il suo fine?". Eh sì, la vecchia signora si gratterebbe per un bel po’ la testa, e poi direbbe: "Davvero? Che peccato non averlo saputo prima! Così avrei potuto dare uno scopo al mio esistere. Dev’essere bello avere uno scopo. Di certo fa sentire importanti e affaccendati. Perché le persone serie sono sempre molto, molto affaccendate. Solo i vagabondi e gli anarchici non hanno mai fretta, bighellonano qua e là in maniera veramente sconveniente. Sconveniente e deplorevole. Qualche volta siedono perfino sulle panchine pubbliche, fischiettando, e guardano in aria. Inaudito!"

SABINA: Certo mi hai messo in crisi. Ma in realtà, tanto sicura del finalismo non lo sono mai stata neppure io. Dunque, concludendo, nessuno scopo per noi poveri umani, quaggiù?

ALESSIO: Al contrario.

SABINA: Oh, senti! Questa proprio non me l’aspettavo. Ma… vuoi rimettere tutto daccapo in discussione? Non dirmi che ora vorresti esaminare di nuovo l’intera questione dal punto di vista opposto, per poi confrontare le due ipotesi e solo allora tirare le conclusioni, come si faceva nelle dispute scolastiche delle università medioevali.

ALESSIO: Non sarò crudele fino a questo punto, rassicurati.

SABINA: E allora…?

ALESSIO: Dicendo che anche per noi c’è uno scopo, dopotutto, non voglio affatto sostenere che anche noi abbiamo uno scopo, ma che dobbiamo darcelo da noi stessi: cosa ben differente.

SABINA: Continua, ti prego.

ALESSIO: Esistere senza uno scopo è atroce. Solo la materia inorganica può sopportarlo, per la buona ragione che non lo sa. Ma noi, noi lo sappiamo. È la nostra croce, la nostra piaga nella carne. Niente scopo, niente obiettivo. Niente obiettivo, niente cambiamento. Niente cambiamento, niente speranza. Devo continuare?

SABINA: Sì, per favore.

ALESSIO: Niente speranza, niente vita. Cioè, vivere senza sperare è puramente e semplicemente impossibile. L’uomo è un animale che si nutre essenzialmente di speranza.

SABINA: Anche tu?

ALESSIO: Come tutti.

SABINA: Anche sapendo che non c’è nulla da sperare? Perché queste erano, mi sembra, le premesse.

ALESSIO: Sempre. L’uomo deve sempre sperare, ne ha bisogno come del respiro. Anche nel carcere più tetro, anche sotto le bombe, anche senza le braccia, le gambe, gli occhi. Anche davanti alla morte. Sperare nel paradiso, magari. O nella rivoluzione, o nella gloria postuma, o nella fine del proprio soffrire. Sperare in un oggetto qualunque; e perfino senza un oggetto definito.

SABINA: Sicché, non esistono uomini veramente disperati?

ALESSIO: La disperazione è come la febbre. Se è alta dura poco, se dura a lungo vuol dire che è bassa. Cioè una disperazione parziale, tutto sommato piacevole. In attesa di qualcosa di meglio: ancora la speranza.

SABINA: E tu, Alessio, in che cosa speri?

ALESSIO: È una bella domanda. Talmente bella che vorrei sapere cosa rispondere.

SABINA: Ma tu lo sai.

ALESSIO: Lo credi veramente?

SABINA: Ne sono certa.

ALESSIO: Allora dimmelo tu.

SABINA: Speri di poter dare un senso alla vita.

ALESSIO: Ah, questo sì; però mi hai rubato il gran finale.

SABINA: Speri di trovarlo. Per te e per tutti gli altri. Ma non sai bene dove cercarlo.

ALESSIO: E dove dovrei cercarlo? Tu sapresti dirmelo?

SABINA: Non ce n’è bisogno.

ALESSIO: Perché?

SABINA: Perchè, secondo me, l’hai già trovato.

ALESSIO: Questo sì che è un colpo basso! Ma continua. La cosa mi intriga moltissimo.

SABINA: Una volta mi è capitato di smarrire l’orologio. Non sto scherzando, è un ricordo vero. Ero disperata, perché quell’orologio rappresentava un caro ricordo. L’ho cercato dappertutto. Ho buttato la casa sottosopra. Non potevo darmi pace d’averlo perduto…

ALESSIO: E alla fine lo ritrovasti?

SABINA: Lo trovai.

ALESSIO: Dove si era ficcato?

SABINA: In nessun posto. Lo avevo al polso.

ALESSIO: No.

SABINA: Sì.

ALESSIO: E anch’io ho lo scopo in mano, mentre lo cerco dappertutto?

SABINA: Credo di sì.

ALESSIO: Allora, suggeriscimi meglio dove cercare.

SABINA: Non serve. Devi solo abbassare lo sguardo, e lo vedrai. Era lì da sempre, fin dal principio.

ALESSIO: Adesso non mi tirerai fuori Dio.

SABINA: No, un colpo basso alla volta. Niente Dio.

ALESSIO: Via, non tenermi oltre sulla corda.

SABINA: Sei tu.

ALESSIO: …?

SABINA: Lo scopo. Sei tu.

ALESSIO: Ma il problema, per quelli che la pensano come me, è proprio il fatto che la vita non sembra avere alcuno scopo precostituito – ciò presupporrebbe comunque un fine -, quindi siamo noi a doverglielo dare.

SABINA: Un valore è anche uno scopo?

ALESSIO: Sì… credo di sì.

SABINA: E se io affermo che la vita è un valore?

ALESSIO: Un valore in se stessa? Un valore infuso all’atto della nascita, come i cattolici dicono che avvenga dell’anima individuale?

SABINA: I cattolici dicono all’atto del concepimento.

ALESSIO: Cioè, un valore indipendente da quel che ciascuna singola vita sarà? Un valore a priori, un valore eterno e immutabile, come le Idee platoniche?

SABINA: Sì.

ALESSIO: Allora devi prima dimostrarlo, e non solamente porlo.

SABINA: Ci proverò. Ma non approfittarti del fatto che è la prima volta che cerco di argomentare una tesi filosofica. Devi avere pazienza, e confutarmi se ti sembra che sbagli. Però non tendermi trabocchetti.

ALESSIO: Mai, mai. Lo prometto.

SABINA: Ora ti dirò quello in cui credo. Credo in questa meravigliosa, incantevole notte stellata, come non ne avevo viste mai, e che mi resterà per sempre nel cuore. Credo in questa brezza vivificante, che mi accarezza la pelle e mi dà brividi deliziosi di salute e di giovinezza. Credo in questo mare immenso, sconfinato, che oggi è tranquillo come un lago e domani si gonfierà in cavalloni spaventosi. Credo in Fomalhaut, credo nella Via Lattea, credo nei delfini che, stamattina, saltavano e danzavano accompagnando la nostra nave, e ci lanciavano piccoli gridi di saluto. Credo nel Grande Signore del Sud, che ci aspetta laggiù nel buio, da qualche parte, immergendo nelle onde la sua bianca fronte turrita di ghiaccio scintillante… Devo continuare?

ALESSIO: Te ne prego.

SABINA: Credo nella sensazione di benessere, di pace, di perfetta felicità che provo in questo momento. Credo in un tizio che ha fatto della disperazione la sua filosofia, ma che non si dà e non si darà mai per vinto, che continuerà a lottare, a cercare, a sperare, anche se non lo sa…

ALESSIO: Dunque, siamo già arrivati al dulcis in fundo?

SABINA: No, ma ci stiamo arrivando.

ALESSIO: Veramente non amo ragionare in termini personalistici…

SABINA: Stai tranquillo, era solo un esempio.

ALESSIO: Per arrivare dove?

SABINA: All’idea di valore. Per te la vita è un fatto, un evento; per me, un valore. La differenza è che il fatto è indifferente, mentre il valore "importa" allo spirito umano. Sei d’accordo con questa affermazione?

ALESSIO: Sì.

SABINA: E ritieni che la vita sia un valore?

ALESSIO: No, un fatto, come hai detto prima.

SABINA: Dunque la vita ti è indifferente?

ALESSIO: Vedo un punto debole nel tuo ragionamento. No, nessun trabocchetto. Tu hai accettato di definire "valore" la Vita in se stessa, in quanto vita, cioè indipendentemente da quel che sarà questa singola vita di questo singolo essere. Ricordi?

SABINA: Sì.

ALESSIO: Dicemmo: "la vita come valore a priori, analogamente all’Idea di Platone.

SABINA: Sì.

ALESSIO: Allora, rispondo alla tua domanda: la Vita come valore a priori mi è indifferente.

SABINA: E la singola vita del singolo essere? La tua, per esempio?

ALESSIO: Come potrebbe essermi indifferente?

SABINA: Allora, per te è un valore. Abbiamo detto che il valore importa allo spirito umano.

ALESSIO: Io, però, non sono lo spirito umano. Sono uno spirito umano.

SABINA: E cosa intendi per "spirito umano"?

ALESSIO: Il pensiero in astratto. La facoltà del pensare.

SABINA: Il Pensiero come un’Idea platonica?

ALESSIO: Ora sei tu che mi tendi un trabocchetto. Se io rispondo di sì, tu mi dirai: "Ma caro amico, voi materialisti non potete pensare altro che la materia. Non potete pensare il pensiero come separato e indipendente dalla materia. Questo è un lusso che possiamo prenderci solamente noi spiritualisti, noi finalisti."

SABINA: E allora, cosa mi rispondi?

ALESSIO: Che il pensiero come facoltà astratta è una semplice convenzione, però una convenzione necessaria. Senza codeste convenzioni, ragionare così in astratto, come stiamo facendo noi ora, sarebbe semplicemente impossibile.

SABINA: E sia. Allora, riformulo la domanda che ti avevo posto: la tua singola vita ti importa perché è la Vita in sé stessa, o perché è la tua vita particolare?

ALESSIO: Perché è la mia vita particolare, e anche perché godo di tutta una serie di fortunate circostanze.

SABINA: Potresti chiarirmi meglio ciò che intendi?

ALESSIO: Voglio dire semplicemente che sono fortunato perché ho una casa, un lavoro, un corpo sano, un’intelligenza normale; perché possiedo tutti i miei quarantasei cromosomi. Insomma, le mie cellule fanno discretamente il loro bravo dovere.

SABINA: Ma se così non fosse…?

ALESSIO: Se il caso mi avesse voluto destinare un cromosoma di troppo, sarei nato affetto da mongolismo. E, in quel caso, non avrei avuto neanche la possibilità di chiedermi se la mia vita costituisca un valore oppure no. Ti pare?

SABINA: Dunque tu pensi che non tutte le vite siano un valore.

ALESSIO: Non tutte.

SABINA: Come mai? Voglio dire: come lo giustifichi filosoficamente?

ALESSIO: Il disordine. L’aumento di entropia nei processi irreversibili. Il fottuto secondo principio della termodinamica. L’universo è disordine, e noi possiamo soltanto prendere atto delle conseguenze. I finalisti, invece, che spiegano tutto con una qualche forma di provvidenza camuffata, sono costretti a vederla far cilecca un po’ troppo spesso. Come dire che al mondo c’è troppa entropia, troppo disordine per poter ragionevolmente parlare di un universo ordinato.

SABINA: O, per dirla con Leibniz, del "migliore dei mondi possibili".

ALESSIO: Già. Figuriamoci se ci fosse toccato in sorte il peggiore! Sai quanti morti provocò l’esplosione del vulcano Krakatoa, nel 1883? O il terremoto di Messina del 1908? O la peste nera del 1348 in tutta Europa?

SABINA: Sì, questi indubbiamente sono fatti. Ma si possono interpretare in diverse maniere.

ALESSIO: Certo. I finalisti cercheranno di minimizzarli. Devono fare così per forza: ridurli alle trascurabili dimensioni di semplici incidenti di percorso. Per non guastare la "perfezione" dell’insieme.

SABINA: E i materialisti?

ALESSIO: Le mettono nel conto degli imprevisti di un universo senza alcun fine. Adesso, però, attendo da te che mi dimostri che la vita ha un valore in sé stessa.

SABINA: Già. E, veramente, comincio un po’ a chiedermi se non mi sono per caso avventurata, con giovanile entusiasmo, in un’impresa troppo ardua per le mie forze. Comunque, ci proverò lo stesso. Sai, la tua parte è molto più facile. Tu devi solo distruggere, io tento di costruire.

ALESSIO: È vero, è più difficile. Ed è per questo che ti ammiro. Affronti con coraggio un avversario più forte di te – non me, s’intende, bensì il materialismo – per puro senso del dovere. Mi ricordi Ettore che va incontro al duello fatale con Achille, per amore e senso di protezione dei suoi cari, della sua amata patria.

SABINA: Piuttosto, dovrei ricordarti Pentesilea. Decisamente, voi uomini pensate troppo al maschile.

ALESSIO: La regina delle Amazzoni, che cade combattendo eroicamente per la difesa di Troia.

SABINA: Comunque, mi sopravvaluti. A parte una certa simpatia per le Amazzoni, così libere e così coraggiose, io non ho una particolare causa cui desidero immolarmi. E, come dicevo, non ho neppure una particolare consonanza col finalismo, tanto meno con lo spiritualismo in tutte le sue varie forme e travestimenti. Vorrei piuttosto cercare se non vi sia un modo di spiegare positivamente questo amore per la vita, "che ti senti qui, proprio qui – scriveva Pirandello (in Non si sa come), come un nodo nella gola – il gusto della vita!".

ALESSIO: Anche questo, se permetti, mi sembra un modo di procedere tipicamente finalistico. Prima "poni" un determinato valore; poi cerche di "spiegarlo" a partire dal tacito presupposto che, dal momento che c’è, deve anche avere una direzione e uno scopo.

SABINA: Può darsi, ma ora lasciami provare. Tu dici che la vita non ha una direzione, non ha un fine, come del resto l’intero universo. Non ha scopo, se vogliamo usare un’espressione presa dal linguaggio comune – per quanto imprecisa. Giusto?

ALESSIO: Sì.

SABINA: Tra parentesi, mi pare che ciò assomigli molto a ciò che dice Nietzsche del nichilismo. Spesso è la delusione del cristianesimo che genera questo pessimismo radicale: di quanto ci si è illusi circa il senso della vita nella prospettiva finalistica promossa dal cristianesimo, di tanto si è poi sommersi dalla delusione, quando si tocca con mano la fallacia di quelle promesse. Scommetto che tu hai cercato di credere in Dio.

ALESSIO: È merito della tua perspicacia psicologica o di una deduzione per analogia con la critica nietzschiana al nichilismo? In ogni caso, ammiro la tua acutezza e rispondo di sì.

SABINA: E sei rimasto deluso?

ALESSIO: Ovviamente.

SABINA: Perché avevi puntato troppo in alto?

ALESSIO: Comunque, per essere una biologa poco versata in filosofia, vedo che il pensiero di Nietzsche lo conosci abbastanza.

SABINA: Perché la lettura dello Zarathustra è affascinante. Un’opera altamente poetica, oltre che speculativamente audacissima.

ALESSIO: Ora mi dirai che il mio pessimismo è conseguenza di quella delusione.

SABINA: Ed è così?

ALESSIO: No, al contrario – credo. La mia personale delusione è molto più l’effetto e non la causa del pessimismo. E anche un po’, pensandoci bene, il contrario. Comunque, Nietzsche doveva saperlo bene: secondo me, lui per primo doveva aver cercato di credere. Hai presente quella sua poesia, Al dio sconosciuto?

SABINA: Sì, mi pare.

ALESSIO: Io voglio conoscere Te, o sconosciuto,

Te che ami ghermirmi profondamente l’anima,

Te che la mia vita sconvolgi come fa la bufera,

Te, inafferrabile e a me così affine,

Te io voglio conoscere e servire.

SABINA: Questi versi sono di Nietzsche? Che strano, sono così lontani dall’immagine che solitamente abbiamo di lui.

ALESSIO: Be’, se per te va bene, chiudiamo la parentesi nietzschiana.

SABINA: D’accordo. Stavo dicendo che, per te, la vita in genere non ha scopo, essendo parte casuale di un universo senza scopo; e neanche la vita dei singoli esseri, sia perché priva di libertà, sia perché insidiata nella sua stessa dignità da forze ostili troppo più potenti di essa. Ho riassunto bene?

ALESSIO: Bene.

SABINA: E tuttavia, nonostante tutto questo e a dispetto di ogni logica, sentiamo che la nostra vita c’importa. Che essa è, almeno a determinate condizioni – prima fra tutte, quella di avere giusto quarantasei cromosomi – un valore.

ALESSIO: Sì.

SABINA: Ed è solo la nostra viltà a farcene essere così affamati? Solo il fatto che sappiamo d’averne una sola? (Tralascio per ora, da buon materialista, l’ipotesi reincarnazionsita). Io non credo.

ALESSIO: Perché?

SABINA: Perché conosco persone coraggiose, che non hanno paura della morte. Che non vivono solo perché hanno troppa paura per suicidarsi. Persone che soffrono, vedendo gli altri soffrire; ma che, quanto a sé stesse, non si lamentano neanche davanti alle prove più dure. Dunque, la ragione di questo amor fati, di questo attaccamento alla vita, dev’essere qualcosa di diverso dalla semplice paura.

ALESSIO: Che cosa, allora?

SABINA: L’odio.

ALESSIO: Questa, poi…!

SABINA L’odio, te lo ripeto. Come dice così bene Victor Hugo. "Si odia. Bisogna pur fare qualche cosa", parlando di Barkilphedro, il "cattivo" del suo romanzo L’uomo che ride.

ALESSIO: Odio per cosa?

SABINA: Per tutto. In primo luogo, per la vita. Solo chi sa odiare con tutto sé stesso, può anche amare così tanto. Noi odiamo quello che vorremmo amare. E, se vi sono persone che odiano la vita più di ogni altra cosa, è perché la amano troppo, e mal sopportano di vederla così misera e brutta, così squallidamente, turpemente schiava.

ALESSIO: E che altro odiano, questo allegri cannibali?

SABINA: Dio.

ALESSIO: Mi pareva che tu stessi parlando degli atei…

SABINA: Appunto. Lo odiano perché non esiste.

ALESSIO: Sabina, decisamente sei una ragazza piena di sorprese. "Lo odiano perché non esiste"…

SABINA: Ti pare una ragione da poco? Io non conosco offesa più atroce che Dio possa fare agli uomini, che quella di non esistere… Se esistesse, almeno lo potrebbero maledire. Avrebbero per le mani un colpevole. Invece, non esistendo, Egli li defrauda anche della miserabile, disperata soddisfazione di bestemmiarlo e di maledirlo.

ALESSIO: Spero che dei così buoni odiatori non si arrestino alla vita e a Dio…

SABINA: Certo che no! Sono dei veri professionisti, che cosa credevi?, non dei miseri dilettanti. L’odio è una scienza quasi altrettanto complessa della gastronomia. Ogni singolo boccone vuole il suo proprio intingolo, il suo calice particolare di vino.

ALESSIO: Chi è dunque il prossimo della loro lista, in ordine di odiosità?

SABINA: Ma se stessi, naturalmente! Che gusto c’è a odiare con fatica qualcuno che è lontano, o che addirittura non esiste, se non si è capaci di odiare sino in fondo il proprio scandaloso, intollerabile esserci; che, per giunta, è tanto indecentemente vicino, da farci sentire – giorno dopo giorno – lo sconcio puzzo della sua stessa corruzione?

ALESSIO: Eccellente. E poi?

SABINA: Gli altri, naturalmente. Tutti gli altri. Che riempiono i cessi con l’unico messaggio ai posteri di cui sono capaci, e intanto ammorbano l’aria e rubano l’ossigeno, che è già così scarso. Come osano?, si chiedono gli odiatori professionisti. Noi soli abbiamo il diritto di depositare la nostra fecale saggezza, concimando questo infelice pianeta sovrappopolato. Gli altri, che non riconoscono i nostri meriti straordinari, ma hanno perfino l’impudenza di reclamare dei diritti. Loro, volgo infame che è già tanto se li tolleriamo come inquilini abusivi del nostro palazzo privato… Che osano perfino dirci, sorridendo: "Io e tu": come se fossero la stessa cosa! Come se fra noi e loro non vi fosse alcuna differenza! Impostori, che usurpano sfacciatamente il diritto al nostro stesso sole e alla nostra stessa aria. Si può essere più arroganti di così?

ALESSIO: E ora, il banchetto è completo?

SABINA: No, no! Odiano ancora molte altre cose; tra esse, la verità è forse la più meritevole di tanto odio e disprezzo, di tanto accanito zelo.

ALESSIO: Che cosa rimane da odiare?

SABINA: Che cosa fecero Enea e i suoi compagni, quando, sbarcati alla foce del Tevere, dopo aver mangiato tutte le loro provviste, ebbero ancora fame?

ALESSIO: Divorarono, per così dire, le mense (come l’arpia Celeno aveva loro profetizzato), cioè le focacce di grano su cui ponevano il cibo, a guisa di piatti.

SABINA: E Virgilio, nella Divina Commedia, con che cosa zittisce le gole latranti di Cerbero, il cane infernale?

ALESSIO: Con delle manciate di terra, che quello avidamente ingoia. Ma… che c’entra? Aspetta, ci sono: la fame mangia sé stessa; si divora, per così dire, da sé medesima…

SABINA: Dunque, allorché si è odiato tutto quel che di odiabile ci sta attorno, anzi, anche sé stessi…

ALESSIO: … si odia il proprio odio!

SABINA: Sì, e credo che sia una sensazione assolutamente meravigliosa.

ALESSIO: Vuoi scherzare.

SABINA: No, dico sul serio. Ci si deve sentire come Sansone allorquando fece crollare le colonne del tempio, seppellendo tutti i Filistei e sé stesso con loro. Splendido! Esaltante! Infrangere l’ultima barriera, la paura della morte; e, al tempo stesso, spazzar via i propri nemici fino al’ultimo; avere il tempo, prima di precipitare nel nulla, di vedere la maschera del terrore sui volti di tutti gli altri…

ALESSIO: Eh, ma tu hai la vocazione del teatro drammatico, anzi, della poesia epica. Altro che scienze naturali!

SABINA: Odiare il proprio odio; sentire che tutto quell’odio ti avvelena, ti soffoca; che è lui il responsabile della tua angoscia; e tuttavia non potere e non voler spezzare la sua catena perversa, ma prendere a odiarlo, a rispondere all’odio con l’odio. Che voluttà, che beatitudine, che estasi!

ALESSIO: Mi par quasi di essere sazio solo a sentirti, come dopo un triste e feroce banchetto.

SABINA: Già: perché per odiare il proprio odio, e sprofondare così, sino in fondo, nella palude, senza più speranza alcuna di risalire, bisogna essere dei geni o dei mostri, e magari entrambe le cose; e provare, al tempo stesso, la gioia disperata di una cattiva coscienza sempre in rivolta, di un’ultima speranza strangolata nella culla, di una possibile redenzione volontariamente e metodicamente assassinata…

ALESSIO: Come dessert di questo inconcepibile pasto cannibalesco, spero mi offrirai la chiave di tutta quanta l’allegoria.

SABINA: Ma Alessio, non è affatto un’allegoria!

ALESSIO: Vorresti dire che…

SABINA: Ho fatto un ritratto fedele e realistico.

ALESSIO: Di chi o di che cosa?

SABINA: Dei nichilisti fiammeggianti.Di coloro che odiano e amano la vita: che sanno perché la odiano, ma non capiscono perché la amino tanto; e la odiano perché la amano, pur non volendo amarla. Perciò la amano con cattiva coscienza e la odiano con meschinità. E intanto odiano con appetito, insaziabilmente, perché hanno trovato nell’odio la loro ragione di vita.

ALESSIO: Il loro scopo.

SABINA: Vendicandosi allegramente della promessa mancata del finalismo.

ALESSIO: Vedo… Di’ un po’, hai fatto per caso il mio ritratto?

SABINA: No, perché non ti conosco abbastanza. Ho fatto un ritratto fedele e realistico di una disposizione dello spirito, che è sempre qualcosa di sfumato e di contraddittorio; non di una singola persona.

ALESSIO: Ma perché lo hai fatto?

SABINA: Ho la sensazione che in te ci sia qualcosa del nichilista fiammeggiante. Qualcosa, ripeto. Come in molti altri e, forse, un po’ anche in me stessa.

ALESSIO: Già, quello che hai detto mi fa venire in mente una frase di Émile Cioran, il filosofo francese di origine romena (credo in Storia e utopia). Dice press’a poco: "Impieghiamo la maggior parte delle nostre veglie nel fare a pezzi, nell’immaginazione, i nostri nemici, nello strappare loro gli occhi e le viscere, nello spremere e svuotare le loro vene, nel pestare e stritolare ogni loro organo, pur lasciando loro – per pietà – il godimento del proprio scheletro. Fatta questa concessione, ci plachiamo e, spossati, scivoliamo nel sonno: riposo ben meritato dopo tanto accanimento e tanta pignoleria. D’altra parte, dobbiamo recuperare le forze per poter la notte seguente ricominciare l’operazione, riprendendo un lavoro che scoraggerebbe un Ercole macellaio… Il programma delle nostre notti sarebbe meno pesante se, di giorno, ci fosse concesso di dare libero corso alle nostre cattive inclinazioni. Per raggiungere non tanto la felicità quanto l’equilibrio, dovremmo liquidare una buona parte dei nostri simili, praticare quotidianamente il massacro sull’esempio dei nostri lontanissimi e fortunatissimi avi."

SABINA: Questa volta sono in grado di superare il maestro. "Non tanto fortunati, si obietterà – scrive più o meno Cioran a completamento del suo pensiero – dato che la scarsità demografica dell’epoca delle caverne non offriva loro molte possibilità di scannarsi a vicenda continuamente", e via di questo passo. Eh, Cioran, Cioran!… L’unico pensatore, che io sappia, che ha avuto l’onestà di chiamare questo aspetto dell’animo umano con il suo vero nome: "odissea del rancore". Sosteneva che il rinvio o la rinuncia all’idea di vendetta ha reso gli uomini civilizzati dei poveri isterici. L’idea del perdono, in particolare, ha avuto l’effetto di far sprofondare e soffocare nell’odio colui che non può o non vuole vendicarsi. "Niente rende più infelici – afferma più o meno – che il dovere di resistere alla propria essenza primitiva, al richiamo delle proprie origini".

ALESSIO: Tutto avrei creduto di te, ma non che tu leggessi e amassi Cioran: e, soprattutto, che tu conoscessi così bene la psicologia dell’odio.

SABINA: Ho molte virtù, che solo pochi fortunati conoscono. Intanto, ti offro su un piatto d’argento un ottimo argomento razionale – bada, razionale! – per poter continuare a vivere il tuo odio con allegra cattiva coscienza, continuando a detestare il mondo intero.

ALESSIO: In cambio di che cosa?

SABINA: Ma è chiaro: di una triste, pretesca cattiva coscienza!

ALESSIO: Ah, grazie! Grazie tante.

SABINA: Non c’è di che.

ALESSIO: Anche Erich Fromm, comunque, sostiene – ne Il cosiddetto male – che la repressione degli istinti aggressivi dell’uomo, causata dal troppo rapido mutamento delle condizioni di vita, è degenerata in violenza, cui l’evoluzione non ha avuto il tempo di contrapporre adeguati impulsi inibitori…

SABINA: Ah, è vero.

ALESSIO: E quale ricetta proponi ai nichilisti fiammeggianti?

SABINA: Nessuna ricetta, anzi. Io direi loro di dare sfogo al proprio odio; così dopo, forse, se ne libereranno almeno in parte.

ALESSIO: Sai bene che non è possibile, nelle circostanze attuali.

SABINA: E allora, non resta che una sola cosa da fare.

ALESSIO: Quale?

SABINA: Qual è la cosa che più assomiglia alla violenza fisica, ma non è sanzionata socialmente come quella; e che, inoltre, può rivelarsi piacevole sia per l’aggressore che per la vittima – con tanto di scambio frequente dei ruoli?

ALESSIO: Il sesso.

SABINA: Scandalizzato?

ALESSIO: No, anche perché lo vedo che stai scherzando.

SABINA: Credi?

ALESSIO: Con te, c’è questo di bello: che non si capisce mai quando parli sul serio, e quando no.

SABINA: Bello?

ALESSIO: Diciamo meglio: interessante.

SABINA: Semplicemente comodo – per me, s’intende. Ho l’inestimabile vantaggio di poter dire quello che penso, sapendo che non mi crederanno; oppure di dire quello che non penso, sapendo che mi crederanno.

ALESSIO: Pure, poco fa mi hai chiesto cosa penso di te. Come si concilia questo tuo bisogno di sincerità con l’abitudine all’ironia? L’ironia è una maschera, una forma di nascondimento.

SABINA: Bisogno di sincerità, da parte degli altri.

ALESSIO: Ma io non credo che tu solleciti un giudizio su te stessa, al solo scopo di trarre gli altri in inganno.

SABINA: Te, no.

ALESSIO: Perché?

SABINA: Perché sei così franco che non avresti sentore del trucco; pensi che tutti siano diretti come te.

ALESSIO: E non c’è gusto a depistare un ingenuo?

SABINA: È poco sportivo; troppo facile.

ALESSIO: Ora sei tu che vuoi apparire cinica.

SABINA: Una maschera anche quella, ovviamente.

ALESSIO: E la vera Sabina?

ALESSIO: Io speravo di ricevere qualche lume da te.

ALESSIO: Dulcis in fundo?

SABINA: Dulcis in fundo.

ALESSIO: Sabina è un enigma.

SABINA: Continua.

ALESSIO: Una matrjoska. Non sai mai cosa c’è sotto.

SABINA: Almeno non è noiosa.

ALESSIO: Anzi, imprevedibile dietro quell’aria solare.

SABINA: Come tu sei un tranquillo desperado.

ALESSIO: Sì; ma adesso è il mio turno d’infierire, lasciami parlare.

SABINA: Agli ordini! Hai fatto il militare?

ALESSIO: Sì.

SABINA: Si vede. Sergente?

ALESSIO: Caporale. Posso proseguire?

SABINA: Non volevo darti del guerrafondaio.

ALESSIO: Ne sono sollevato.

SABINA: Ti prego, continua. Farò la brava.

ALESSIO: Cosa ci sarà dietro tanta impertinenza?

SABINA: Una povera, fragile, piccola creatura spaventata.

ALESSIO: Forse c’è davvero.

SABINA: Guarda: Fomalhaut sta tramontando. Come dicevi prima? "Et iam nox umida…"

ALESSIO: "… et iam nox umida caelo*

Praecipitat suadentque cadentia sidera somnos."

SABINA: C’è qualcosa di struggente nel tramonto delle stelle… Anche il mare ha assunto una trasparenza misteriosa, opalescente… Pare che il tempo si sia fermato, indugiando perplesso sul limite estremo della notte.

ALESSIO: È un’ora strana. Troppo tardi anche per i nottambuli, troppo presto anche per gli amanti delle levatacce… Un’ora che sembra trattenere il fiato sul crinale, come se qualcosa debba accadere.

SABINA: Di bello o di brutto?

ALESSIO: No so. Per Damone, il pastore protagonista dell’ottava egloga di Virgilio, è l’ora della decisione suprema, del suicidio:

"Omnia vel medium fiat mare. Vivite, silvae:

praeceps aerii specula de montis in undas

deferar…"

"Ora tutto sia mare profondo. Selve, addio: cadrò a capofitto nelle onde dall’alto del monte."

SABINA: Perché lo fa?

ALESSIO: Per la più antica delle ragioni: l’amore.

SABINA: Non aveva un’idea allegra dell’amore, Virgilio.

ALESSIO: No, non l’aveva. Per lui l’amore è qualcosa di criminale, che porta colpa, disperazione e morte. Come per Didone.

SABINA: La sua più grande creazione.

ALESSIO: Già. Bella, intelligente, generosa…

SABINA: … e votata a un destino crudele.

ALESSIO. E Pentesilea, come se la cava?

SABINA: Quella caduta sotto le mura di Troia, o quella attualmente in navigazione verso il Polo Sud?

ALESSIO. Della prima è nota la vicenda. Subisce, dopo morta, l’oltraggio della necrofilia di Achille.

SABINA: Davvero? Questo non lo sapevo!

ALESSIO: No? Dopo averla uccisa, Achille le toglie l’elmo e rimane sconvolto dalla sua bellezza. Al punto da voler spremere l’amore da quel corpo ormai freddo…

SABINA: Spaventoso.

ALESSIO: Tanto da meritarsi gli oltraggiosi commenti di Tersite; il quale, questa volta, non se la cava però a buon mercato, come quando Ulisse l’aveva battuto con lo scettro sulla schiena…

SABINA: Be’, spero che all’altra Pentesilea venga risparmiato, se non altro, un simile affronto postumo.

ALESSIO: E nel frattempo…?

SABINA: Ecco… sopravvive.

ALESSIO: Non è molto.

SABINA: E intanto fugge…

ALESSIO: Verso dove?

SABINA: Ma in Antartide, no?

ALESSIO: E da che cosa sta fuggendo?

SABINA: Chi lo sa? Da se stessa, probabilmente…

ALESSIO: Perché?

SABINA: Quante domande! Perché si fugge?

ALESSIO: Ora, però, non è più uno scherzo, vero? Se vuoi, smettiamo.

SABINA: Come, sul più bello? No, non preoccuparti. Le tue domande non mi infastidiscono per niente, anzi. Mi trovo bene a parlare con te.

ALESSIO: Sta bene. Si fugge… perché si è spaventati.

SABINA: Oppure…?

ALESSIO: Oppure… vediamo, ci sto pensando… perché si è infelici.

SABINA: Non saresti stato da buttar via, però, come psicologo.

ALESSIO: O magari come confessore.

SABINA: Vada avanti, padre Alessio. Mi assolva.

ALESSIO: Non posso, figliola, se prima non mi apri il tuo cuore con fiducia; fiducia nella Misericordia Infinita, che per bocca mia ti sta parlando.

SABINA: Padre, sono imbarazzata. È da molto tempo che non mi confesso.

ALESSIO: Basta. Ora incomincerò a mettere insieme i tasselli del mosaico, anzi del puzzle. E tu mi aiuterai a completarlo, d’accordo? Senza inganni.

SABINA: E sia.

ALESSIO: Una biologa che se ne va per sei mesi a seppellirsi tra pinguini e foche-leopardo… Una bella ragazza che fugge da qualcosa o da qualcuno, probabilmente da se stessa. Una che dice di non volerne sapere di filosofia, ma che ha letto Nietzsche, e cita Cioran quasi a memoria…

SABINA: Prosegui: "fuochino".

ALESSIO: … che di giorno è allegra e spensierata, di notte pensierosa e turbata… Che nelle ore piccole, invece di dormire il sonno del giusto, medita su ordine e disordine, caso e provvidenza… Che vuol sapere degli altri, ma non parla di sé e semina false tracce dietro lo schermo dell’ironia…

SABINA: E questo è tutto quello che sai?

ALESSIO: Ora devo mettere insieme i pezzi…

SABINA: Ma davvero non sai altro?

ALESSIO: No, perché?

SABINA: Perché su questa nave è come essere in un caseggiato di periferia. Tutti sanno di tutti. E ammazzano la noia sparlando a più non posso…

ALESSIO: È uno sport che m’interessa molto poco.

SABINA: Sì, ma qui vieni a sapere le cose anche se non vuoi…

ALESSIO: Non ho saputo niente.

SABINA: Meglio. Perché, eventualmente, voglio essere io…

ALESSIO: Ehi, ma che c’è? Sabina!

SABINA: Niente, scusa. Niente. Oh, Dio, che stronza. Non ho niente, credimi, e comunque tu non c’entri…

ALESSIO: Mi spiace, c’è qualcosa che non va. Ho fatto qualcosa…?

SABINA: Per nulla.

ALESSIO: Avevi detto che è una notte speciale, che stavi bene…

SABINA: E infatti è così. Credimi.

ALESSIO: In breve, mi avevi chiesto cosa penso di te.

SABINA: Sì. No. Dimenticalo.

ALESSIO: Va bene che sia un tipo imprevedibile, Pentesilea; ma fino a questo punto, mi sembra che tu esageri…

SABINA: Tutto ciò sta prendendo una strana piega, vero? Vorresti essere già in cabina, magari col tuo Dante o il tuo Omero fra le mani…

ALESSIO: No. Sto bene qui.

SABINA: Con questa matta?

ALESSIO: Io non vedo matte. E tu?

SABINA: Credi, non m’era mai successo di essere così balorda. Non so come mai. O forse lo so… Cavolo, è così complicato.

ALESSIO: No, è semplice. Avevi bisogno di parlare, per qualcosa che ti rode dentro. E sono contento che tu lo stia facendo.

SABINA: Non lo so, ne dubito…

ALESSIO: Ti dico che hai fatto bene.

SABINA: Sì, mi sento strana… Be’, non so da dove cominciare.

ALESSIO: Guarda che non mi devi alcuna spiegazione, se non ti va.

SABINA: Lo so. Brrr, che freddo.

ALESSIO: È quasi l’alba, le stelle impallidiscono. E laggiù, a oriente, sorge una tinta verde-oro… Vuoi che ne riparliamo domani? O un’altra volta?

SABINA: Hai sonno, vero?

ALESSIO: Io no.

SABINA: Devo dirti qualcosa.

ALESSIO: Anch’io.

SABINA: No, prima io.

ALESSIO: Come vuoi.

SABINA: Non mi ero mai sentita a mio agio con una persona pressoché sconosciuta, come con te questa notte. Mi pare di conoscerti da anni. E so poco più del tuo nome. Bene… Ma è stato sciocco, da parte mia, chiederti cosa pensi di me.

ALESSIO: Perché?

SABINA: Perché con certe cose non si scherza.

ALESSIO: Ma io…

SABINA: Tu non sai nulla!

ALSSIO: So che mi trovo bene con te.

SABINA: Già. Ma non è questo il punto…

ALESSIO: So che ti amo.

SABINA: E da quando?

ALESSIO: Da quando siamo saliti su questa nave.

SABINA: Cristo!… No, non possiamo.

ALESSIO: Perché?

SABINA: Sarebbe un tremendo errore… Io… io non ti ho detto…

ALESSIO: Ma tu, cosa provi per me?

SABINA: E non l’hai ancora capito?

ALESSIO: Ma allora…?

SABINA: No. Ti dico di no. Ah, merda! Ora sì, che ti devo una spiegazione. E dopo, ce l’avrai con me.

ALESSIO: No.

SABINA: Ascolta. Tu mi piaci… molto. E, per un momento, ho quasi creduto… Ma non è possibile. Proprio perché sei tu, bisogna che ti dica subito che ho fatto un terribile errore… che mi sono illusa.

ALESSIO: Non ti capisco.

SABINA: Tu non mi conosci, non sai nulla di me.

ALESSIO: So quanto basta.

SABINA: No, tu credi di conoscermi… E anch’io, credevo di conoscermi… Invece, mi sono illusa. Ma davvero non ti hanno detto niente?

ALESSIO: Chi? Gli altri?

SABINA: Sì.

ALESSIO: No, te l’ho detto.

SABINA: Be’, che sfortuna. Perché tu mi piacevi, mi piaci veramente…

ALESSIO: Sei sposata?

SABINA: Oh, no.

ALESSIO: Fidanzata?

SABINA: Neanche. Non è questo. Insomma, non so come dirtelo. Mi sono illusa io per prima… ma sento che sarebbe inutile e sbagliato, che ti farei del male…. E ne farei anche a me, senza scopo.

ALESSIO: Del male…

SABINA: Vorrei che restassimo amici. Sempre, come questa notte. Che la nostra amicizia non cambiasse mai. Che tu fossi per sempre il mio grande, vero amico… Vuoi esserlo?

ALESSIO: Sì.

SABINA: Non hai voglia di strozzarmi?

ALESSIO: No.

SABINA: Di gettarmi fuori bordo?

ALESSIO: Tu hai bisogno di parlare.

SABINA: Sì, credo di sì. Sai, non è per me che sono così imbarazzata, come una sciocca. È per te… Insomma, non vorrei perdere il mio migliore amico.

ALESSIO: Non accadrà. Non lo perderai.

SABINA: Penserai che sono una stronza…

ALESSIO: No, no.

SABINA: … che ho fatto un gioco cretino. Ma non ho giocato. Ci sono dei momenti, in cui tutto sembra possibile…

ALESSIO: Sì, è vero. E questo non è male.

SABINA: Non è male. No, non lo è.

ALESSIO: Rasserenati. Io non potrò mai pensare male di te.

SABINA: Già… Guarda, tutte le stelle sono ormai tramontate. Non resta che Venere, la Stella del Mattino… E il cielo è di un blu incredibile…

ALESSIO: In tutta l’immensità dell’Oceano Indiano, forse siamo i soli a contemplarla, in questo momento.

SABINA: Bene, si tratta di questo…

ALESSIO: Non sei obbligata a dirmelo.

SABINA: No, ma lo voglio. Ecco: io non posso amarti.

ALESSIO: Avevo capito che non ti ero indifferente…

SABINA: Taci, ascolta. Non posso e non potrò mai amarti. Mai. Perché non so amare gli uomini…

ALESSIO: E chi ami, allora?

SABINA: Io? Io amo… le donne.

ALESSIO: Ah, capisco…

SABINA: Se io sapessi, se potessi amare un uomo, quello saresti tu.

ALESSIO: Io non immaginavo…

SABINA: Eppure, credevo che qualche pettegolezzo ti fosse arrivato all’orecchio.

ALESSIO: E va bene. Qualcosa…

SABINA: Allora lo sapevi!

ALESSIO: No, perché non ci avevo badato. La gente parla; se si dovesse credere a tutto… e poi…

SABINA: E poi…?

ALESSIO: Il fatto è che nulla mi faceva pensare… Voglio dire, io ti ho sempre vista come una donna…

SABINA: … "normale"?

ALESSIO: Femminile. E bella. Uno, magari, s’immagina che certe cose debbano essere evidenti…

SABINA: Per te sono bella?

ALESSIO: Molto.

SABINA: E adesso… sarai sempre mio amico?

ALESSIO: Certo. Però, come fai a essere sicura…

SABINA: … che non potrei amarti?

ALESSIO: Appunto. Non provi del desiderio?

SABINA: Sì. Ma so che non sarebbe possibile.

ALESSIO: Ma perché? A me non importa quello che hai fatto sino a ieri… Perché non sarebbe possibile fare un tentativo?

SABINA: Perché ci illuderemmo entrambi. E sarebbe tutto più difficile, dopo. Forse non resterebbe neanche l’amicizia…

ALESSIO: Perché?

SABINA: Vedi, io ti desidero, e tu desideri me. Potremmo fare l’amore. E forse sarebbe anche bello. Ma… non vorrebbe dir nulla. Io mi conosco. La mia natura non cambierebbe. Resterebbero l’affetto, la stima… Ma non potremmo fare della strada insieme, in quel senso. Io non voglio rischiare di perdere un’amicizia così preziosa, così unica, per un po’ di piacere fisico. È troppo raro trovare un vero amico… come te.

ALESSIO: Sei sicura di tutto questo?

SABINA: Sì. Perché in realtà non siamo liberi di agire, di scegliere, ricordi? L’hai detto tu.

ALESSIO: È vero, l’ho detto.

SABINA: Ma voglio essere la tua migliore amica, se me lo permetti.

ALESSIO: E come no?

SABINA: Ora mi guarderai con occhi diversi.

ALESSIO: No. E sono contento di averti conosciuta.

SABINA: Anch’io. Molto.

ALESSIO: Posso baciarti?

SABINA: Sì.

ALESSIO: Ora dammi la mano.

SABINA: Ecco. Oh, guarda! Sta sorgendo il Sole!

ALESSIO: Come un dio che esce dal mare…

SABINA: Questi riflessi dorati sulle onde, come schegge di luce… Pare che ogni cosa riemerga vergine e fresca dal seno della notte.

ALESSIO: Come se fosse il primo giorno della creazione del mondo.

SABINA: Addio, Fomalhaut!

ALESSIO: No, non addio. Arrivederci…

SABINA: Sì, arrivederci; arrivederci a presto.

F I N E

Il seguito di questo dialogo è intitolato "Le notti antartiche: Alphard. Riflessioni sul significato della vita"; il terzo, che conclude l’opera completa, "Le notti antartiche: Achernar. Riflessioni su amore e morte."

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Pixabay from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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