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Lo Stato nazionale moderno è partigiano, nel senso in cui lo sono anche i terroristi

Così come la Scolastica ha rappresentato un luminoso tentativo, riuscito per più secoli, di tenere unite la ragione e la fede, ossia l’amore, mentre dalla sua dissoluzione è nata una «hybris» della ragione strumentale che ci sta precipitando nel vortice del nichilismo, allo stesso modo la dissoluzione dell’Impero medievale, come potere universale e sovra-nazionale, ha introdotto nella modernità l’egoismo e l’antagonismo irriducibili dei vari Stati nazionali, che ci ha condotti, con Hiroshima, alle soglie dell’olocausto nucleare.

L’Impero medievale, o, quanto meno, l’idea dell’Impero, è stata una di quelle forze spirituali che hanno preservato per secoli l’Europa da una concezione brutalmente partigiana del potere e, quindi, dello Stato: una concezione, quest’ultima, antagonista e speculare rispetto a quella delle forze eversive che, oggi, lo stanno minando e che lo vorrebbero distruggere, vale a dire le forze del terrorismo, nazionale e internazionale.

Se lo Stato nazionale moderno nasce dall’affermazione di un principio particolare eretto a valore universale, è chiaro che non può non scontrarsi con altri principi particolari che avanzano la medesima pretesa di assolutezza; principi particolari che non sono rappresentati solo dagli altri Stati nazionali, coi quali si ingaggia una inevitabile competizione per la supremazia, ma anche con l’anti-Stato: sia esso una potente organizzazione criminale (mafia), o un movimento separatista locale (Paesi Baschi, Irlanda del Nord), oppure un gruppo terroristico che può essere tanto di matrice politico-sociale (Brigate Rosse) , quanto politico-religiosa (Al Qaida).

E allora ecco che lo Stato, alzando il livello di vigilanza poliziesca e di repressione armata, diventa partigiano, nel senso etnologico della parola (vuol far trionfare una parte, con ogni mezzo) e sempre più assomiglia ai nemici che vorrebbe combattere e distruggere, venendo meno del tutto, e tradendo nel modo più radicale, la sua pretesa missione universale.

Perché solo un Impero sovra-nazionale, o una Chiesa sovra-nazionale, ecumenica, possono impersonare davvero una missione universale; non certo lo Stato nazionale moderno. In questo senso, l’ultimo Impero con tali caratteristiche, e sia pure molto sbiadite rispetto al progetto originario e alla sua stessa profonda ragion d’essere, è stato quello Austro-Ungarico; e non è affatto strano che la Massoneria internazionale, fra il 1917 e il 1918, si sia data tanto da fare per cancellarlo dalla carta d’Europa, cosa che non rientrava affatto negli obiettivi di guerra dell’Intesa nei primi tre anni del conflitto.

Del resto, nemmeno l’Impero rappresenta, sempre e comunque, un principio universale, dunque non partigiano: ci sono imperi ed imperi. Un impero di recente conquista, in cui una antica dinastia sia stata eliminata da un qualche ambizioso avventuriero, come Alessandro Magno o Napoleone, non possiede una missione universalistica, perché nasce da un puro e semplice atto di banditismo coronato dal successo. È noto l’apologo del pirata e dell’imperatore. Una volta, racconta Sant’Agostino, un pirata venne catturato e condotto alla presenza di Alessandro Magno, il quale gli domandò cosa avesse da dire a propria discolpa. Quello, con notevole franchezza, gli rispose: «In fondo, che differenza c’è fra te e me, o sovrano? Solamente il fatto che io, con una piccola nave, saccheggio i bastimenti che riesco a catturare, per la qual cosa vengo considerato un vile pirata; mentre tu, che fai la stessa cosa con centinaia di navi e con eserciti imponenti, conquistando immense province, sei acclamato come un imperatore».

A ben guardare, proprio la vicenda dell’Italia repubblicana ci offre un esempio perfetto di identità fra Stato moderno e Stato partigiano. Si dice che la Repubblica democratica del 1946 è figlia della Resistenza, ossia di un movimento partigiano «classico». Come nelle fazioni medievali dei Guelfi e Ghibellini, dei Bianchi e Neri, l’Italia del dopoguerra è nata quale risultante di una sanguinosa lotta tra fazioni contrapposte; e, in essa, per oltre mezzo secolo, vi sono stati dei cittadini moralmente di serie A, gli eredi della Resistenza vittoriosa, e cittadini moralmente di serie B, gli eredi del Fascismo sconfitto.

Pagine illuminanti sono state scritte, a questo proposito, da Carl Schmitt, un filosofo della politica al quale altra volta abbiamo avuto occasione di dedicare alcune riflessioni (cfr. F. Lamendola, «"Amico" e "nemico" nel pensiero politico di Carl Schmitt», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).

Francesco Gentile, docente di Filosofia del Diritto presso l’Università di Padova, nel suo volume «Intelligenza politica e ragion di Stato» (Milano, A. Giuffrè Editore, 1984, pp. 97-100), ha ben riassunto il pensiero di Schmitt a proposito della natura intrinsecamente «partigiana» dello Stato moderno:

«IL PARTIGIANO DIVINO. L’accostamento di questi due termini è tanto strano da apparire nel medesimo tempo equivoco e paradossale. Non saprei, tuttavia, trovarne uno migliore, per rappresentare la struttura teorica dello Stato moderno, quale in particolare essa si rivela sotto le bordate dei suoi nemici, in apparenza, più violenti.

Vi si possono riconoscere le tracce della ben nota formula hobbesiana del "dio mortale", "the mortal god" […].

Qual è il problema? La vulnerabilità dello Stato moderno da parte dell’azione terroristica dei partigiani non si lascia spiegare in termini strettamente o esclusivamente militari, non sembra dipendere solo dall’insufficienza o dalla precarietà della sua preparazione bellica. Il problema è politico.

Complessa e suggestiva la risposta della scienza politica. L’efficacia dell’azione del partigiano dipende, innanzitutto, dalla sua clandestinità. "Partigiano, in realtà, è chi evita di mostrarsi armato, chi combatte per imboscate, chi si nasconde nell’uniforme rubata al nemico oppure nei vestiti di ogni giorno, chi usa i contrassegni più diversi a seconda delle circostanze.»

E qui ci si permetta di aprire una parentesi.

Nella seconda guerra mondiale, «partigiane» non erano soltanto le bande jugoslave, o i "maquis" francesi, ma anche le tecniche di camuffamento delle navi corsare tedesche (già sperimentate, del resto, nel primo conflitto mondiale) che battevano i mari in cerca di naviglio mercantile alleato da affondare, e che si servivano di bandiere di nazioni neutrali o ricorrevano a falsi fumaioli e falsi libri di bordo, per trarre in inganno sia le prede che gli eventuali cacciatori.

Ma andiamo avanti.

»Per rendere, tuttavia, il senso profondo di questa clandestinità, Carl Schmitt si serve dell’immagine del sottomarino. "Uscendo d’improvviso dal fondo del mare, esso sconvolge il dramma convenzionale che si sviluppa sulla scena secondo regole fisse e convenute. Modifica, con la sua irregolarità, con la trasgressione di ogni regola, la struttura stessa delle operazioni, sia tattiche che strategiche, delle armate regolari". Ecco, dunque, la prima autentica caratteristica dell’azione del partigiano: l’irregolarità, la trasgressione di ogni regola.

Il partigiano, in quanto tale, non è soggetto a regole. È "legibus solutus", in un senso radicale che supera la dimensione della legalità, comunemente intesa. In altri termini, il partigiano non è sciolto solamente dalle leggi dello Stato di cui vuole rovesciare l’ordine’ costituzionale, ciò che è scontato, potremmo dire, lapalissiano. Ma è sciolto da ogni tipo di regola, poiché la sua azione non è condizionata che dalle particolari circostanze nelle quali svolge, ed è diretta dalla volontà di tagliare radicalmente i ponti con il sistema politico e sociale vigente. Citando un passo di Lenin a proposito della differenza tra guerra (woyna) e gioco (igra), Schmitt, in maniera assai efficace, nota che "l’irregolarità della lotta (partigiana) non mete in questione solo una linea ma l’intera costituzione de sistema politico e sociale".

Il rovescio ambiguo di questa irregolarità radicale, di questa assoluta trasgressione delle regole , è dato dalla tendenza alla criminalizzazione del nemico. In effetti, solo l’indegnità, la mancanza di valore, da parte dell’avversario, possono giustificare un’azione, quale quella del partigiano, sciolta da ogni regola. Sicché coloro che conducono un’azione terroristica sono costretti ad annientare gli avversari, cioè le loro vittime, anche da un punto di vista morale. "Devono bollare i nemici come dei criminali disumani – scrive sempre Schmitt – come se fossero del tutto privi di valore, poiché altrimenti i veri criminali, i mostri, sarebbero loro, i partigiani". Ecco, dunque, la seconda caratteristica dell’azione del partigiano che appare sostenuta dall’intenzione o, comunque, dalla esigenza di determinare ciò che è umano e ciò che non lo è, e dalla congiunta pretesa di affermarsi come unico criterio di valutazione.

Abbiamo così elementi sufficienti per definire il partigiano come soggetto politico, caratterizzato da una volontà particolare, di parte, sciolta da regole universale, che pretende tuttavia d’essere discriminante fra il bene e il male.

Se tutto ciò è vero, si delinea in modo più netto il problema politico che lo Stato moderno incontra nel far fronte all’azione terroristica del partigiano. E si possono verificare le difficoltà che ne disturbano e talvolta ne paralizzano la reazione militare. Difatti, "nel cerchio infernale del terrore e delle misure anti-terroristiche, sovente la caccia al partigiano diviene l’immagine speculare della lotta partigiana", di modo che lo Stato si trova progressivamente trascinato dal partigiano sul suo terreno". […]

Costretto per ragioni operative ad assumerne il modello, lo Stato moderno si vede ridotto alla misura del partigiano, obbligato a condividerne l’irregolarità, la trasgressione di ogni regola e l’inclinazione a criminalizzare l’avversario. E in tale contesto l’alternativa non può non risultare gratuita dato che la sola differenza percepibile dipende dal lato in cui ci si pone; la soluzione del conflitto non può non essere rimessa alla violenza, dati che il ristabilimento della pace dipende dall’eliminazione di no dei due contendenti…

L’esitazione, lo scrupolo, l’imbarazzo con i quali lo Stato moderno fa fronte all’azione terroristica del partigiano, sarebbero dunque imputabili, secondo la scienza politica, alla condizione contraddittoria nella quale lo Stato moderno si viene a trovare quando deve collocarsi, per ragioni operative, sullo stesso piano del partigiano, in una condizione, cioè, d’irregolarità e d’inimicizia assoluti.

In toni apocalittici, Schmitt conclude: "Nel 1914 popoli e governi europei andarono alla prima guerra mondiale senza essere divisi da una inimicizia reale. Questa inimicizia è scaturita dalla guerra stessa, iniziata come guerra convenzionale fra stati basata sul diritto internazionale europeo e conclusasi come guerra civile mondiale sulla base dell’iniziativa rivoluzionaria di classe. Così il partigiano ha la meglio sullo Stato moderno e un nuovo "Nómos" appare all’orizzonte della terra" (C. Schmitt, "Theorie des Partisanen").»

Per convincersi della sostanziale giustezza delle osservazioni di Carl Schmitt., si prendano in esame due episodi speculari e contrapposti, come l’attentato di Via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine.

Nel primo caso, ci troviamo in presenza di un’azione partigiana di stampo prettamente terroristico: un bidone dei rifiuti imbottito di esplosivo, una colonna di soldati del battaglione «Bozen», quasi tutti non più giovani e con una famiglia sulle spalle, impegnati in una mansione che non costituisce certo una minaccia immediata per la popolazione civile (e che, dopo l’attentato, si rifiuteranno di far parte del plotone d’esecuzione contro gli ostaggi).

Nel secondo caso, una durissima rappresaglia da parte dell’autorità militare occupante, secondo una logica della ritorsione prevista dal diritto di guerra, e tuttavia applicata in tempi e in forme tali da superare di molto l’entità dell’offesa ricevuta; per quanto oggi si sappia che essa fu il risultato di una manovra dilatoria dei comandi tedeschi a Roma, rispetto alle richieste assai più drastiche provenienti da Hitler. Una rappresaglia, comunque, che colpisce persone innocenti rispetto all’attentato, pur essendo noto che così sarebbe stato e non essendo ciò bastato a trattenere gli attentatori, i quali, anzi, probabilmente, desideravano provocare una dura rappresaglia, proprio per innescare una sollevazione della città prima che vi entrassero le forze armate anglo-americane provenienti dal Sud.

Da sempre, gli storici italiani di ogni orientamento sostengono che la prima azione fu perfettamente legittima, mentre la seconda fu puramente e semplicemente criminale. Invero, ci si può domandare quale differenza morale vi sia fra di esse, quanto alle modalità e al disprezzo per le conseguenze; e si arriva effettivamente alla sola conclusione possibile, che la differenza, se esiste, non è veramente di tipo morale, ma piuttosto di tipo politico; nel senso che solo se si considera una delle due parti totalmente barbara e disumana, si può giungere a giustificare l’azione spietata intrapresa dalla parte opposta.

Le tristi canzoni delle famigerate SS tedesche, allorché partivano per andare a combattere contro i partigiani jugoslavi, usi a seviziare e decapitare i prigionieri, mostrano che anche da parte loro esisteva la percezione di avere a che fare con un nemico totale, con un nemico, cioè, al quale non si riconoscevano caratteristiche di umanità e nei cui confronti non ci sentiva legati dal benché minimo obbligo morale; ed è altrettanto evidente che la medesima percezione animava i loro avversari delle bande partigiane.

Da tutto ciò si evince che lo Stato, quando deve fronteggiare una lotta di tipo partigiano, tende ad adottare i metodi terroristici di quella.

Il quadro, però, si complica per almeno due ordini di fattori.

Il primo è che non sempre risulta facile stabilire quale Stato sia legittimo e quale no, in presenza di rapidi sconvolgimenti politico-militari che portano alla nascita di Stati «fantoccio». La Repubblica Sociale Italiana era uno Stato «fantoccio»? E il cosiddetto Regno del Sud, invece, non lo era? Sono questioni giuridiche difficili; per non parlare dell’aspetto etico.

Un sabotatore fascista infiltrato nel Sud, compiendo un’azione terroristica contro le forze armate anglo-americane, si trovava su un piano analogo o su un piano differente, rispetto ad un partigiano dell’Italia settentrionale che compiva una imboscata a danno delle forze armate tedesche? Perché se uno Stato è legittimo, è legittima anche la sua azione di contro-guerriglia e di repressione antipartigiana; mentre se non lo è, diventa legittima la lotta delle bande partigiane, mirante a sovvertire e distruggere quello. Ma i metodi di lotta sono simili.

Il secondo fattore di cui bisogna tener conto è che, in una guerra moderna, la tecnica ha raggiunto livelli così sofisticati, da par apparire come normale attività bellica ciò che è, in verità, sia sotto il profilo strettamente militare, sia sotto quello etico, terrorismo della peggiore specie, vale a dire terrorismo massiccio e indiscriminato contro la popolazione. Tale è il caso del bombardamento deliberato e sistematico, con i mezzi aerei, delle aree urbane ad alta densità di popolazione, e per giunta prive di ogni interesse di tipo strategico: ciò che si vuole così ottenere, è il maggior danno possibile alla popolazione inerme, per piegare il morale e la volontà di resistenza del nemico. In questa accezione del termine, si può senz’altro affermare che Churchill fu uno dei più grandi terroristi e uno dei più grandi criminali della storia di tutti i tempi. E che dire delle bombe di Hiroshima e Nagasaki, sganciate per volontà di Truman?

Si noti, inoltre, che il bombardamento deliberato e sistematico delle grandi città corrisponde a una modalità di lotta molto più terroristica del siluramento delle navi mercantili, quest’ultimo addotto, fin dalla prima guerra mondiale, come tipico esempio della «barbarie tedesca». Perché in un siluramento, la perdita di vite umane è un effetto collaterale dell’obiettivo militare, ossia la distruzione del naviglio nemico e dei suoi rifornimenti industriali e alimentari; mentre nel bombardamento aereo di un’area urbana, lo scopo dell’azione è proprio quello di distruggere il maggior numero di abitazioni e di assassinare il maggior numero possibile di civili inermi, a fini di puro e semplice terrore psicologico.

E non è esattamente quello che fanno gli odierni terroristi di matrice islamica, quando colpiscono nel mercato di Baghdad o nelle Twin Towers di New York (posto che, in quest’ultimo casi, siano stati realmente loro)?

Qual è la differenza tra il diluvio di bombe inglesi su Amburgo, durante la seconda mondiale, e l’ecatombe quotidiana di Baghdad, Mosul, Kabul, Herat, se non che nel primo caso le stragi terroristiche erano compiute da piloti perfettamente addestrati che, al termine della propria missione criminale, se ne tornavano a Londra per brindare al proprio «successo», mentre negli altri casi sono compiute da terroristi suicidi, che si fanno saltare in aria per trascinare con sé quanti più «infedeli» possibile? Viene in mente il paragone tra il pirata e Alessandro Magno: vale a dire una differenza di quantità, non di genere.

Oppure che dire dell’impiego disinvolto dei servizi segreti per coprire, sotto la rispettabile etichetta della ragion di Stato, azioni di puro e semplice terrorismo? Qualcuno ricorda ancora come i servizi segreti francesi fecero saltare in aria, in un porto della Nuova Zelanda, la nave di Greenpeace «Raimbow Warrior», che cercava di disturbare gli esperimenti nucleari francesi nell’atollo di Mururoa, in Polinesia?

Oppure, ancora, si pensi alle modalità con cui le forze armate dello Stato di Israele combattono il terrorismo palestinese, ad esempio assassinando a vista i leader nemici, non appena essi vengono individuati con le più moderne tecnologie militari. Qualcuno ricorda ancora come lo sceicco Yassin venne ucciso mediante razzi guidati dalle parti metalliche della carrozzina di paralitico con cui si spostava? Oppure qualcuno ricorda che, prima del 1948, le bande terroristiche ebree, come la famigerata banda Stern, colpivano i militari britannici e la popolazione civile palestinese, specialmente donne e bambini, con le stesse modalità, se non anche più efferate, che ora adoperano i militanti di Hamas e di Hezobollah?

Sarà bene rinfrescare la memoria agli smemorati, che non rammentano come la banda Stern, insieme all’Irgun, uccise 91 persone nel corso di un solo attentato, quello al King David Hotel di Gerusalemme; e analoghe imprese vennero firmate dall’Haganah. Tanto andava detto per quanti, sentendo parlare di terrorismo mediorientale, pensano che esso sia sempre stato esclusivamente di matrice araba; mentre i sionisti, prima della creazione dello Stato d’Israele, lo praticarono con altrettanta sistematicità dei loro implacabili avversari palestinesi. Questo perché, quando si forma uno Stato nazionale affermandosi su altri gruppi etnici, esso desidera legittimarsi, cercando per prima cosa di rimuovere le imbarazzanti modalità terroristiche della sua nascita.

Anche in ciò, dunque, vediamo confermata la diagnosi di Carl Schmitt sulla natura partigiana dello Stato moderno.

Come se ne esce?

Il futuro ci dirà se gli organismi sovra-nazionali, come l’Unione Europea o le stesse Nazioni Unite, riusciranno a superare la logica partigiana dello Stato nazionale, nato in Francia con la rivoluzione del 1789 e culminato con l’età dell’imperialismo e con le due guerre mondiali; e quale ruolo svolgeranno la finanza, le società multinazionali e il mercato globalizzato.

Quello che è certo, è che serve un salto di qualità culturale, psicologico ed etico: perché, se le società del terzo millennio non riusciranno a superare la logica partigiana, ossia la logica di fazione, magari trasformata in Pensiero Unico politico, economico, scientifico, religioso, allora ben difficilmente esse riusciranno a superare lo stallo di una cultura che crea in se stessa la malattia terroristica che vorrebbe combattere.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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