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Rispetto, sobrietà, forza d’animo, onestà, lealtà, autorevolezza: ecco ciò che fa grande un popolo

Non c’era bisogno che l’ultima puntata di «Annozero» ci mostrasse, impietosamente, quel che si dice sulla BBC del nostro presidente del Consiglio, per sapere che tutto il mondo sghignazza di lui, e, quel che è più grave, di noi; lo sapevamo già.

Tuttavia, quel che non sanno, o fanno finta di non sapere, quanti ritengono che il popolo italiano ritroverà stima e considerazione nel mondo, non appena il Cavaliere verrà rispedito ad Arcore, è che non lui soltanto, ma l’intera classe politica italiana – di destra e di sinistra – gode di ben scarsa considerazione nel mondo, e questo già da molto tempo; non solo la classe politica, ma la classe dirigente (o dovremmo dire dominante?) nel suo complesso; e non solo la classe dirigente, ma il popolo italiano in quanto tale.

Questa è l’amara verità, che ci riguarda tutti: dal presidente del Consiglio ai ministri e parlamentari, ai finanzieri, agli industriali, ai dirigenti delle aziende, ai commercianti, agli artigiani ai direttori dei giornali, ai gestori dei servizi, ai presidi delle scuole, agli impiegati pubblici e privati, agli operai, ai coltivatori diretti, e senza dimenticare gli studenti. Non godiamo di grande considerazione nel mondo, perché non ce la meritiamo.

È una cosa che balza all’occhio, a chi viene da fuori: solo noi non ce accorgiamo, come colui che, abitando in una vecchia casa di cui non apre mai porte e finestre, non si rende conto di quanto l’aria sia pesante e viziata, quasi irrespirabile, per chi venga dall’esterno.

Si comincia dal paesaggio, la nostra più grande ricchezza, massacrato da decenni di impudente speculazione edilizia, ma anche di pessima amministrazione locale e di inciviltà degli abitanti (vedi l’emergenza rifiuti); e si consideri la ridicola mitezza della legge contro quanti insozzano l’ambiente o lo mettono gravemente a rischio.

Le sanzioni sono talmente irrisorie che a molti industriali conviene pagare la mula, se beccati in flagranza di reato, piuttosto che mettere i depuratori nelle loro fabbriche: tanto, c’è il torrente lì vicino che si presta magnificamente allo scarico dei liquami inquinanti.

Allo stesso modo, perché il privato cittadino dovrebbe darsi la pena di portare in discarica la vecchia vasca da bagno, il wc o l’automobile da rottamare, quando c’è il boschetto dietro casa dove si può scaricare tutto impunemente, tanto nessuno ha mai visto un vigile a memoria d’uomo, o una guardia forestale, o un finanziere?

Quanto ai piromani, il più delle volte pagati dalla mafia, dalla camorra o da altre organizzazioni criminali, possono stare certi della quasi assoluta impunità, e continuare coscienziosamente a incendiare quel poco di boschi che ci rimangono, ogni estate che Dio manda, per fare spazio ai pascoli o ai terreni edificabili, che renderanno tanti bei quattrini ai palazzinari; altrettanto certi, questi ultimi, che gli amministratori locali faranno come le proverbiali tre scimmiette: non vedranno, non sentiranno e non apriranno bocca (se non, ovviamente, per esigere la loro quota d’interessi).

E via di questo passo.

Il cittadino che evade le tasse, da noi, è un furbo, non un delinquente: le sue imprese sono degne di ammirazione; e, se poi riesce ad essere un evasore totale, ossia del tutto sconosciuto al fisco, poco ci manca che venga considerato un eroe, nonché un genio. Basti pensare che un Italiano su due dichiara al fisco non più di 1.250 euro d’imponibile mensile: ma è sufficiente girare per le strade e ammirare le automobili, le ville, le vetrine dei negozi, per rendersi conto immediatamente che questa è una favola buona per i bambini sotto i tre anni.

Altro che Paradisi fiscali! Il capitalista nostrano non ha bisogno di nascondere i capitali all’estero: condoni a parte, è l’Italia stessa ad essere un vero e proprio Paradiso fiscale. Con la P maiuscola, come e più delle isole Cayman, o del Lussemburgo.

Stiamo generalizzando? Forse.

È evidente che vi sono molti Italiani che non rispondono a questo cliché: persone serie, laboriose, frugali, oneste, di parola. Però, diciamo la verità: sono abbastanza numerosi da dare il tono generale alla nostra società? Gli stranieri la pensano diversamente; e non possiamo autoassolverci ogni volta, dicendo che esiste nel mondo un pregiudizio anti-italiano. Il vittimismo è l’ultima difesa dei pusillanimi e di quanti hanno la coscienza sporca.

Qualche cosa avremo pur fatto, per meritarci lo stereotipo dell’Italiano disonesto, malfido e cialtrone; a cominciare dal nostro attuale governo che, invece di strillare di improbabili complotti internazionali ai suoi danni, farebbe meglio a non varare delle leggi smaccatamente «ad personam», ma nell’interesse comune. Se tutto il mondo ride di esso, e di noi che ce lo siamo scelto, qualche motivo ci sarà, purtroppo.

L’abbiamo detto e ridetto più volte: non ci siamo mai ripresi dalla disfatta morale dell’8 settembre 1943: da quella che lo storico Ernesto Galli Della Loggia ha giustamente definito «la morte della Patria». Siamo ancora quelli del vile e irresponsabile: «Tutti a casa!», dal re fino all’ultimo soldato e pubblico amministratore. Siamo ancora quelli, perché non abbiamo mai avuto il coraggio, morale e intellettuale, di affondare il bisturi nella piaga purulenta, e fare onestamente i conti con la nostra storia recente. In compenso, ci siamo inventati il mito degli «Italiani brava gente»: e ce lo siamo raccontato così bene, che non solo abbiamo finito per crederci, ma siamo perfettamente convinti che lo credano anche gli altri, in ogni parte del mondo.

Curzio Malaparte, ne «La pelle», ha raccontato con sobria, ironica efficacia (qualcuno potrebbe anche dire: cinica), quel clima di disfatta morale, ma anche d’inverosimile incoscienza e, al tempo stesso, di sfrontata impudenza:

«Era stato per noi un magnifico giorno, quello dell’8 settembre 1943. […] Era stato veramente un bellissimo spettacolo, uno spettacolo divertente. Tutti noi, ufficiali e soldati, facevamo a gara a chi buttava più "eroicamente" le armi e le bandiere nel fango. […] Finita la festa, ci ordinammo in colonna, e così, senz’armi, senza bandiere, ci avviammo verso i nuovi campi di battaglia, per andare a vincere con gli alleati quella stessa guerra che avevamo già persa con i tedeschi. Marciavamo a testa alta, fieri di aver insegnato ai popoli di Europa che non c’è ormai altro nodo di vincer le guerre che buttar le proprie armi e le proprie bandiere, eroicamente, nel fango, "ai piedi del primo venuto".»

Non ci siamo mai più ripresi da quella disfatta, che, prima di essere politica e militare, è stata soprattutto morale; siamo ancora e sempre gli stessi: furbi più che astuti, astuti più che intelligenti; e, sempre, di una intelligenza a corto respiro, che sa vedere solo i vantaggi immediati e non è disposta ad affrontare sacrifici in vista di beni a lungo termine.

Certo, forse il vero problema degli Italiani è ancora più semplice: vale a dire, che siamo un popolo con tanti difetti, perché non siamo un popolo: non lo siamo mai stati, e il tentativo di realizzarlo si è infranto, appunto in quell’8 settembre di sessantasei anni fa, quando la radio diede l’inverosimile annuncio della resa, e il Paese precipitò nel caos più umiliante.

Ma quali sono le qualità che rendono un popolo serio e affidabile, che rendono una società degna di rispetto, all’intero e all’esterno dei propri confini?

Dovremmo chiederlo ai nostri avi, agli antichi Romani: la risposta sta essenzialmente nel concetto di «mos maiorum» (ne abbiamo già parlato in un precedente articolo, intitolato «Il divorzio fra "mos maiorum" e "humanitas" è all’origine della nostra crisi attuale», sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice; ma, in quel contesto, ci eravamo occupati degli aspetti generali del problema, e non di quelli specifici della società italiana odierna).

Scrive Angelo Diotti in «Lingua magistra» (Milano, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 2008, p. 43):

«Mos maiorum (letteralmente: "il costume" o "la tradizione degli antenati" è un’espressione che indica l’insieme dei valori e ideali riconosciuti dai Romani come fondamento della loro società e identità civile. I costumi degli avi erano l’esempio da seguire e da tramandare di padre in figlio, a difesa della prosperità dell’intera collettività.

Elemento cardine del mos maiorum era l’idea di stato, inteso non come un’istituzione creata per assicurare il benessere dei singoli cittadini, ma come un patrimonio ideale e materiale che apparteneva a tutto il popolo: la res publica appunto. Per un cittadino romano, quindi, il bene comune era assolutamente preminente rispetto all’interesse individuale e sua massima aspirazione era poter contribuire personalmente ala grandezza dello stato. […]La virtù fondamentale del civis era la PIETAS (devozione, rispetto) nei confronti della patria, degli dei e della famiglia.

Le altre virtù civili ritenute degne di essere tramandate erano quelle che i cittadini romani vedevano incarnate nelle biografie dei grandi personaggi storici. Esse erano in particolare:

  • la FRUGALITAS (modestia e semplicità di vita, soprattutto come atteggiamento dell’animo);

  • la FORTITUDO (incorruttibilità, forza morale, coraggio valoroso);

  • la PROBITAS o INTEGRITAS (onestà, nei rapporti privati e pubblici);

  • la GRAVITAS (maestà, autorevolezza, serietà, intesa come senso dell’onore e della dignità tipico del magistrato e del civis ideale);

  • la FIDES (lealtà, rispetto della parola data).»

Riassumendo. Una società i cui cittadini non sentano profondamente l’esigenza del bene comune, non è una vera società, ma un coacervo di egoismi sempre in lotta reciproca, di interessi perennemente protesi a sopraffarsi vicendevolmente.

Ma, per raggiungere l’obiettivo di instillare nel cuore e nella mente dei propri figli questo valore fondamentale, una società deve puntare tutte le sue carte sull’educazione, intesa non solo come scuola, ma anche e soprattutto come buon esempio degli adulti verso i bambini e verso i giovani: a cominciare, ovviamente, dai genitori, che sono i primi educatori in assoluto.

I valori fondamentali, da trasmettere alle giovani generazioni, sono, ancora e sempre, quelli dell’antico «mos maiorum»; cambia il contesto sociale, economico, tecnologico, ma i valori di base per il buon funzionamento della società rimangono sempre gli stessi. Sarebbe un grave errore pensare che una società tecnologica possa farne a meno, come se si potesse delegare alle macchine l’orientamento spirituale degli individui.

Oggi, però – non possiamo nascondercelo, e specialmente nella nostra Italia – tutto questo è molto difficile: secoli di malcostume civile ci hanno reso degli autentici analfabeti della res publica; e il benessere materiale degli ultimi decenni, non è altro che una semplice mano di vernice stesa sopra la vecchia ruggine.

Non possediamo più la "pietas", perché non proviamo rispetto, né, tanto meno, devozione, verso la patria, la divinità o la famiglia.

Non possediamo più la "frugalitas", perché siamo diventati sfrenati consumisti; né la "fortitudo", perché il benessere materiale ci ha fiaccati spiritualmente; né la "probitas", perché vediamo negli altri e nello Stato solo degli ostacoli da superare o dei polli da spennare; e meno che mai la "gravitas", perché ci ridurremmo a fare qualunque capriola, come i pagliacci del circo, pur di apparire, magari in televisione. Quanto alla "fides"…Chi è che dà ancora un significato alla parola data, all’impegno assunto, sia esso professionale, morale o di qualunque altro genere? Chi è che si scandalizza ancora, se la parola data viene tradita (beninteso, da lui stesso); chi si formalizza ancora per simili bagattelle?

Eppure, dobbiamo ripartire proprio da queste cose: dobbiamo ripartire fin dal piccolo, dall’esempio quotidiano che diamo ai bambini, se vogliamo essere credibili allorché, poi, pretendiamo dai cittadini adulti, un senso dello Stato che non hanno, che non possono avere, perché nessuno glielo ha trasmesso, tranne che a parole.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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