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«Come stai?»

Stamattina siamo passati a trovare un’amica che non vedevamo da un po’ di tempo, essendo stata trasferita per ragioni di lavoro. Abbiamo scambiato qualche battuta di circostanza, del genere:, «Come ti trovi nel nuovo ambiente?». A un tratto, guardandomi fisso, mi ha posto senza preamboli una domanda semplice e franca, che mi ha colpito perché ricorre raramente nelle conversazioni, anche fra persone che da un certo tempo si sono perse di vista e che pure non ignorano, o almeno hanno motivo di immaginare, che non tutto nella vita dell’altro sia stato rose e fiori. Mi ha chiesto: «Come stai?». Due sole parole, senza congiunzione e senza pronome, che vanno dritte al cuore delle cose: Come stai? Non: «E tu, come ti trovi?», «Che cosa stai facendo di bello?» o, magari: «E tu, come ti vanno le cose?»; ma, semplicemente, Come stai?

In quelle due parole vi sono interessamento, affetto, sollecitudine, preoccupazione per il bene dell’altro, per lo star bene dell’altro, fisico, psicologico e spirituale. Nella "chiacchiera" quotidiana, come la chiamava Heidegger, ovvero nella totale inautenticità della non-parola, riflesso dei non-pensieri e dei non-sentimenti oggi dilaganti (vedi il nostro precedente articolo È necessario spezzare l’assedio della bruttezza e della stupidità), queste due brevissime parole ristabiliscono l’esigenza di abbandonare il ruolo posticcio di non-persone per tornare ad essere persone vere, che parlano di cose vere e di danno pensiero per ciò che è importante. E che cos’è veramente importante, nelle relazioni fra esseri umani, se non il fatto di star bene con se sessi, di trovare la pace interiore, e di darsi – se possibile – reciprocamente una mano, per raggiungere questo obiettivo? Certo, si può parlare anche del tempo o dei vestiti, delle ferie al mare o dell’ultima influenza; non è un delitto, anche se non ci avvicina di un millimetro all’essenza della dimensione personale. Ma solo queste due parolette riescono a dire così tanto in così poco, solo queste due parolette sanno andare dritte dritte all’essenziale.

Ci è capitato, ad esempio, di incrociare per la strada una persona che non vedevamo da mesi o anni e che, sena fermarsi, ci ha buttato lì la domanda e anche la risposta: «Tutto bene, vero?», e proseguire per la sua strada senza neppure accennare a fermarsi. Sarebbe divertente, in questi casi, levarsi la soddisfazione di rispondere, altrettanto al volo: «No!»; no, e basta: e costringere tacitamente quella persona a fermarsi, solo per il piacere di mettere di traverso alle ruote ben oliate della sua fretta e del suo perbenismo un grosso ramo, di quelli che se non ti fermi a spostarli non ce la fai a proseguire. Perché se la buona educazione formale avrebbe voluto che tu rispondessi , il fatto sostanziale di vedere nell’altro un fine e non un mezzo o un manichino avrebbe voluto che quello non rispondesse di sì al posto tuo. Si è comportato come se avesse voluto dire: «Dimmi che va tutto bene, perché chiedendoti come va ho solo espletato un obbligo esteriore di tipo sociale e non ho tempo né voglia di fermarmi. E se le cose ti vanno male, tanto peggio per te; ma non venirmelo a dire: ciò mi costringerebbe a fermarmi e ad ascoltarti, cosa che non ho voglia di fare e che non m’interessa minimamente».

Eh, questa benedetta ipocrisia borghese. Quel tipo avrebbe potuto passar via senza salutarci, oppure salutarci e basta. Ma no: si sentiva obbligato a chiederci, dopo così tanto tempo, come stavamo; ma non aveva nessuna intenzione di perdere un solo secondo del suo prezioso tempo per informarsene veramente. «E poi, sono forse suo fratello che devo interessarmi di come sta o di come non sta? Via, non sarebbe nemmeno un comportamento da persone discrete; e indiscreto sarebbe anche sentirsi rispondere dall’altro che non gli va poi tanto bene. Dunque, per evitare che gliene venga la tentazione, risponderò io per lui: dirò bene al posto suo. Semplice, no?». Francamente, fra l’indifferenza totale e il falso interessamento, è difficile dire cosa più sgradevole; forse il secondo, perché conserva lo strato untuoso dell’ipocrisia e non possiede neppure la maschia brutalità della franchezza.

Come abbiamo sostenuto in un precedente articolo (Prendersi cura degli essenti è la via maestra che conduce all’Essere), la forma spirituale del prendersi cura" fa del bene non solo a chi ne è il beneficiario, ma anche a colui che la esercita, perché lo avvicina alla dimensione autentica della realtà e, in ultima analisi, al suo vero io. Così pure, se altrove abbiamo sostenuto che proprio la donna, oggi, è particolarmente minacciata dal pericolo di una crescente inautenticità (nei due articoli È la donna, oggi, l’anello debole della catena e Il demone nascosto dell’infelicità femminile), dobbiamo onestamente riconoscere che ciò è dovuto alle circostanze storiche molto particolari che hanno modellato la società odierna e non toglie il fatto che, tradizionalmente, la donna sappia mostrarsi capace di sollecitudine quanto e più dell’uomo. Anzi la sollecitudine è proprio una caratteristica della sua natura, che le deriva dal mistero ineffabile – di cui è depositaria – della maternità. Ben lo sapeva un conoscitore della natura umana quale Dante Alighieri, allorché faceva pronunziare a Pia dei Tolomei queste dolcissime e memorabili parole, rivolte al sommo poeta (Purgatorio, V, 130-133):

Deh, quando tu sarai tornato al mondo

E riposato della lunga via (…)

Ricorditi di me che son la Pia…"

Quanta sollecitudine, quanta affettuosa partecipazione in quelle brevi parole. Dopo che tu ti sarai riposato da questo viaggio faticosissimo: "dopo" evidenzia il fatto che il mio io viene dopo il tuo tu; prima il tuo bene, poi il mio; prima le tue necessità, poi le mie. Meraviglioso: detto così bene, e con così poche parole. E poi quel congiuntivo desiderativo: «ricorditi»; ossia: che tu ti possa ricordare; e quanta femminile dolcezza, quanta bontà e modestia e pudore in quel «deh» che apre il suo breve ma intensissimo discorso. «Deh»: ossia: ti prego; di grazia; per favore. Secondo Giacomo Devoto (Avviamento alla etimologia italiana. Dizionario etimologico, Firenze, Le Monnier, 1989) la parola deh potrebbe derivare dal latino dee, caso vocativo di deus, dio. Qui indica esortazione, desiderio, preghiera e sottolinea la gentilezza d’animo e la squisita sensibilità di Pia dei Tolomei.

Quando noi domandiamo a qualcuno se stia bene, quando ci interessiamo di come egli stia veramente e lo facciamo non in maniera formale, per semplice galateo o per un automatismo sociale, ma per autentica sollecitudine e per una forma di compartecipazione, dietro le apparenze di un gesto o di una frase apparentemente comune e quasi banale, in realtà abbiamo creato le premesse per un rapporto autentico fra l’io e il tu, che nasce dalla simpatia e dalla capacità di ascolto. Abbiamo compiuto una operazione che dovrebbe essere abituale e spontanea, ma che – immersi come siamo nella società dell’ego ipertrofico e della chiacchiera insulsa, sta diventando quasi eccezionale: quella di porre l’altro. Io pongo l’altro ogni qualvolta sono capace di fare un passo indietro con mio ego e di valorizzare il tu, di metterlo al centro e di incoraggiarlo a realizzare ciò che è meglio per lui. Decisamente in controtendenza rispetto ai modelli negativi veicolati di continuo dai media, dove l’importante è far fuori gli altri per giungere soli alla meta (vedi Grande Fratello, Isola dei famosi, La fattoria e via dicendo), porre l’altro significa vedere in lui un fine, un valore in se stesso, non un rivale da eliminare o un utile strumento per i miei disegni, fosse anche soltanto un pubblico per pormi come valore autoreferenziale.

Noi non posiamo porre noi stessi; possiamo porre solo l’altro, e l’altro può porre noi. Questo insegna la saggezza della vita, ed è più o meno quel che diceva Gesù Cristo quando affermava che l’unico modo di essere grandi è quello di farsi piccoli. E raccontava anche una parabola (Luca, XIV, 8, 11) che rendeva il concetto in maniera semplice ed estremamente chiara ed efficace, adatta alla mentalità concreta e alla vivida immaginazione dei suoi interlocutori:

"Quando sei invitato a nozze, non occupare i primi posti, perché potrebbe esserci un invitato più importante di te: in questo caso lo sposo sarà costretto a venire da te e dirti: «Cedigli il posto». Allora tu, pieno di vergogna, dovrai prendere l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato a nozze, va’ a sederti all’ultimo posto. Quando arriverà lo sposo, ti dirà: «Vieni, amico! Prendi un posto migliore». E questo sarà per te motivo di onore di fronte a tutti gli invitati. Ricordate: chi si esalta sarà abbassato, chi invece si abbassa sarà innalzato."

Chiedere a qualcuno come stia, significa anche riportare i rapporti umani alla bellezza della essenzialità, alla bellezza dell’essere di contro alla superficialità e alla banalità dell’avere. Significa fargli capire che non ci interessano i suoi vestiti o i suoi passatempi, che non ci interessano le cose accessorie e frivole della sua vita, ma ci sta a cuore il nucleo più importante e prezioso della sua anima: la sua pace, il suo equilibrio, la sua serenità. Significa saltare i fronzoli inutili e andar dritti alla radice delle cose; pertanto significa rendere omaggio alla serietà e alla sacralità della parola, di contro alla tendenza ad usarla in modo sempre più inflazionistico, moltiplicandola senza scopo – o, forse, al solo scopo (magari inconscio) di aggirare scrupolosamente ciò che conta, di sorvolare sull’essenziale.

Perché l’essenziale spaventa. Molti di noi sono spaventati dall’idea di guardarsi dentro; forse non piacerebbe loro quel che potrebbero vedervi. Di conseguenza, non sono affatto abituati a pensare che sia una bella cosa interessarsi a ciò che è essenziale per l’altro. Se poi, per caso, un tale pensiero li sfiorasse, potrebbero sempre ricacciarlo indietro con la scusa della discrezione. La discrezione! Davvero magra come scusa, visto che mai merce più rara fu veduta da quando l’avvento della cosiddetta società di massa ha violentato ogni forma di intimità, di riservatezza, di pudore. È di ieri la notizia che la giuria dell’ultima edizione di Miss Italia, per poter emettere un giudizio coscienzioso, ha preteso di valutare l’avvenenza delle concorrenti facendole allineare di schiena (ma forse non era la schiena la parte anatomica cui era maggiormente interessata). Richiesta, bisogna dire, che è stata sollecitamente esaudita – anche se non nelle riprese televisive, per un residuo di decenza o piuttosto per un rigurgito di ipocrisia. E questa sarebbe la società che si preoccupa della discrezione? Ed è quindi per discrezione che non domandiamo all’altro un po’ più spesso: «Stai bene?». Ah, encomiabile forma di delicatezza, davanti alla quale non possiamo fare altro che inchinarci ammirati.

In realtà, la scarsa attenzione per il benessere dell’altro non è che un riflesso della nostra smania di emergere, di essere al centro dell’attenzione, di rubare la scena all’altro. Come sosteneva il saggio medico-guaritore Francesco Racanelli (vedi il nostro articolo La comprensione spirituale, sorgente perenne di salute psico-fisica. Note in margine ai pensieri di F. Racanelli), noi non possiamo aspettarci, e tanto meno pretendere, dagli altri quelle operazioni spirituali che non siamo in gradi di realizzare in noi stessi. Dunque siamo egoici e distratti con gli altri perché non siamo in grado di uscire dal bozzolo del nostro narcisismo e della nostra autoreferenzialità; e diamo continuamente il cattivo esempio agli altri, incominciando dai nostri figli e, in genere, dai bambini, sicché il circolo vizioso dell’egoismo e dell’indifferenza per l’altro e per il suo benessere si alimenta senza tregua. E ci comportiamo così perché abbiamo poca autostima, e cerchiamo di imporre all’altro che ci tributi quell’attenzione che noi, da parte nostra, ci guardiamo bene dal riconoscergli. Vorremmo essere posti, ma non porre: cosa palesemente impossibile. È come dire che vorremmo essere amati, ma non dare a nessuno il nostro amore.

Eppure un modo ci sarebbe per uscire da questo vicolo cieco, per riconquistare un po’ di autostima e per smetterla con le nostri infantili, moleste smanie di riconoscimento da parte degli altri. Dovremmo incominciare a fare qualche passo indietro, a sederci (come insegnava Gesù Cristo) negli ultimi posti, e a chiedere al prossimo, almeno qualche volta, ma con sincera partecipazione e autentica benevolenza: «Stai bene?»

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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