
Trjapicyn in Siberia orientale
10 Agosto 2006
Un’infamia operaia: i «battaglioni rossi» antizapatisti nel Messico del 1915
12 Agosto 2006Questo articolo è stato pubblicato sul numero 16 del 12 maggio 1991 (anno 71) del settimanale anarchico "Umanità Nova", giornale fonato da Errico Malatesta. Viene ora riproposto, con alcuni aggiornamenti, per illuminare una pagina non molto conosciuta, in Italia, della storia brasiliana: quella dei "cangaceiros", i banditi-guerriglieri che stanno a metà strada fra delinquenza comune e ribellismo libertario. Nel 1953 il regista Lima Barreto ha dedicato alla loro epopea un classico, in bianco e nero, della cinematografia brasiliana: "O Cangaceiro" (titolo della versione italiana: "Il bandito"; da non confondersi con un mediocre film italiano del 1969 intitolato, anch’esso, "O Cangaceiro", sorta di spaghetti-western in salsa sudamericana).
Tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento il Nord-est del Brasile fu teatro di un fenomeno sociale caratteristico, il banditismo dei cangaceiros in rivolta contro le autorità dello Stato, la polizia, i proprietari terrieri. Non tutti i banditi ebbero una spiccata coloritura sociale, solo alcuni di essi rubavano ai ricchi per dare ai poveri; molti si limitarono a terrorizzare le popolazioni, sfogando contro chiunque una crueltà appena credibile. Tuttavia il fenomeno storico dei cangaceiros deve essere studiato per quello che fu e non per quello che si potrebbe desiderare, magari inconsciamente, fosse stato. Se i capi-banda del Nordeste brasiliano avessero avuto una coscienza politica o sociale sviluppata, sarebbero sati dei rivoluzionari e non dei cangaceiros.
"Il termine di cangaceiro si estende a qualsiasi specie di criminale, dal politico perseguitato, oppure dal "vaccaro" che ha vendicato l’onore della famiglia uccidendo l’amante della sorella, fino al criminale comune, forse nato sul litorale, venuto a cercare rifugio nelle macchie della caatinga [savana spinosa caratteristica delle zone più aride, n. d. r.]. Vi sono banditi leali e delinquenti, che non esitano a saccheggiare villaggi, a incendiare fattorie, a rapire donne." (da: Roger Bastide, Il Brasile, cit. in bibliografia, p.78).
Tuttavia, dalle loro imprese sanguinarie emerge una denuncia implacabile contro la prepotenza delle autorità statali, la corruzione della polizia, lo sfruttamento bestiale da parte dei grandi proprietari terrieri (gli stessi che, ancor oggi, non si fanno alcuno scrupolo di ordine l’assassinio di sindacalisti, missionari o militanti politici di sinistra). Il banditismo brasiliano è, quindi, la cartina al tornasole di una società disgregata, dominata dal privilegio assurdo di pochi, immiserita dalla somma di tutti i fattori negativi di qualunque apparato statale, spogliati qui di ogni sia pur esile velo di rispettabilità e di consenso popolare. Un terreno troppo povero perché potesse germogliarvi una coscienza di classe fra gli sfruttati, anche se – come vedremo – qualche legame fra banditismo e rivoluzione sociale finì per stabilirsi, nonostante tutto, sia pure in forme embrionali.
Il Nordeste brasiliano è una terra arida chiamata Sertão, a tratti semidesertica, il cui paesaggio rurale è dominato dal latifondo; una terra che ha risentito profondamente dell’influsso etnico e culturale dell’Africa, mediante gli schiavi neri (che in Brasile ottennero l’affrancamento definitivo solo nel 1888). Le autorità governative lontane e inefficienti, quando non apertamente indifferenti e corrotte; il potere effettivo nelle mani dei "colonnelli" locali, ossia dei notabili e dei proprietari terrieri. Dalla massa sfruttata dei contadini miserabili trassero origine due possibili forme di riscatto sociale, quella spirituale e quella armata: la prima impersonata da una serie di messia religiosi (come il famoso Antonio Maciel, detto il Conselheiro, ossia "Il Consigliere", di Canudos, che ha ispirato – fra l’altro – un importante romanzo storico di Mario Vargas Llosa, La guerra della fine del mondo); la seconda dai cangaceiros, appunto.
Questi ultimi godevano spesso di una popolarità neanche tanto dissimulata fra la povera gente; la loro ferocia suscitava paura ed esecrazione, ma il coraggio e l’audacia con cui sfidavano le autorità tradizionali ispiravano anche simpatia ed ammirazione. Questo alone di popolarità che li circondava era talmente noto – ed è ancor oggi tramandato da molte ballate e canzoni popolari – che perfino i poliziotti amavano vestirsi alla maniera dei cangaceiros, quasi per godere di un po’ della loro gloria riflessa (caso probabilmente unico di imitazione culturale fra elementi sociali mortalmente antagonisti): grandi cappelli a tricorno con le alte tese rialzate a forma di mezzaluna, incurvate alle estremità verso il basso; un fazzoletto rosso al collo; cartuccere in quantità portate a bandolera; il fucile a tracolla e un enorme pugnale bene in mostra; e, per dare al quadro l’ultima pennellata, quella inconfondibile aria da bravacci pronti a tutto.
Alcuni cangaceiros come Antonio Silvino (1875-1944) sono passati alla storia per la generosità del loro carattere e delle loro imprese; altri, come Lampião (1898?-1938), si ricordano per la loro audacia, ma anche per la loro spietatezza e imprevedibilità.
Il caso di Lampião è particolarmente interessante. Il suo vero nome era Virgulino Ferreira da Silva ed era nato – si dice – da una famiglia di onesti agricoltori ed allevatori. Aveva studiato e si era fatto una buona cultura. Una ingiustizia di cui fu vittima la sua famiglia, accusata a torto di furto, lo trasformò in un irriducibile bandito.
La sua banda era formata, inizialmente, dai suoi fratelli e da altri ventisette uomini, e agiva nella zona della Sierra Vermelha contro la potente famiglia dei Nogueiras, responsabile della cacciata dei suoi cari. In seguito, la sua guerra privata per l’onore familiare degenerò in un banditismo feroce e indiscriminato, che fece del suo nome il simbolo stesso del male, mentre la sua banda si ingrossava fino a raggiungere quasi le dimensioni di un esercito; e le operazioni militari contro di lui, quelle di una autentica guerra.
Alcuni dati (riportati dallo storico Optato Gueiros): fino al 1928, più di 600 dei cangaceiros di Lampião furono catturati e uccisi; dal 1928 al 1939, la stessa sorte toccò ad altri 200 e più. La banda assassinò oltre 1.000 persone, incendiò qualcosa come 500 proprietà, uccise più di 5.000 capi di bestiame. Inoltre violentò oltre 200 donne, benchè Lampião imponesse ai suoi una disciplina severissima di tipo militare, tanto da punire con la castrazione quelli che si macchiavano di stupro. Per finire, la sua banda partecipò a più di 200 combattimenti con le forze regolari, nello Stato di Pernambuco e in altri sei del Nordeste.
La repressione della banda costò la vita a non meno di 200 militari, senza contare quelli morti di stenti e di malattie. I tre fratelli di Lampião vennero tutti uccisi ed egli stesso, dopo essere stato ferito per ben sei volte, trovò la morte mentre fuggiva nel greto asciutto di un torrente. La sua testa decapitata fu portata in trionfo nei villaggi, insieme a quelle dei suoi luogotenenti, in un bidone di kerosene. Simbolo eloquente di una "giustizia" dello Stato non meno barbarica e feroce del banditismo che essa intendeva combattere.
Su questa figura di terribile bandito, passata poi alla tradizione popolare orale e ingigantita sino a oltrepassare i confini della leggenda, si può comunque concordare con uno storico moderno che così sintetizza il giudizio del comune sentire fra le classi popolari del nordeste brasiliano: "Per la sua gente egli fu, ed è, un eroe, ma un eroe ambiguo.[…] Lampião, comunque, benchè fosse un eroe, non era un eroe buono" (E. J. Hobsbawm, I banditi, cit. in bibliografia, p. 55). Se cossì non fosse stato, il "potere magico" di cui era circonfuso – come, del resto, gli altri più famosi cangaceiros e anche molti capi-banditi di tipo sociale di altre parti del mondo – non lo avrebbe abbandonato, quel giorno del 1938, mentr’egli fuggiva su per il greto asciutto di quel torrente.
È di estremo interesse prendere in esame i rapporti che intercorsero fra questo bandito e le autorità politiche da un lato, e fra lui e i capi politici e religiosi sorti fra il popolo, dall’altro. Il comportamento di Lampião è, infatti, emblematico di quello di tutti o quasi tutti i cangaceiros, capaci – per la natura stessa del loro ruolo di classe – di passare al servizio dei latifondisti e del governo, così come di tornare a lottare senza quartiere contro di essi.
Tale ambiguità di fondo è bene esemplificata dalla vicenda, epica e quasi leggendaria, della colonna Prestes.
Nel 1924 una colonna di ribelli guidata dal leader comunista Prestes – ex ufficiale dell’esercito che avrebbe poi fondato il Partito Comunista Brasiliano – aveva iniziato la sua "marcia della speranza" (che ricorda in parte, sia detto per inciso, la "lunga marcia" dei comunisti cinesi guidati da Mao Tze Tung da Juikin, nel Fukien, a Tsinpen, nello Yenan, fra il 1934 e il 1935). Per due anni essa girovagò da un capo all’altro dell’immenso Paese, percorrendone quasi tutti gli Stati -il Brasile è una Repubblica federale -, con enorme spavento del governo di Rio de Janeiro e delle classi possidenti dell’interno.
A un certo punto, essa penetrò nel misero Nordeste, la cui popolazione era troppo abbrutita dallo sfruttamento e dall’ignoranza per unirsi ai ribelli; tuttavia, non si lasciò nemmeno strumentalizzare contro di essi – come avevano fatto, ad esempio, i contadini del meridione d’Italia nel 1857, all’epoca dello sbarco di Carlo Pisacane a Sapri (vedi l’articolo di F. Lamendola Un precursore del comunismo anarchico: Carlo Pisacane, su Umanità Nova del 26 febbraio 1988); o come fecero gli operai messicani, indotti dal governo di Carranza a combattere contro Villa e Zapata "in nome della rivoluzione"! (vedi F. Lamendola, I battaglioni rossi anti-zapatisti (1915-19), su Umanità Nova del 23 aprile 1989; e Messico 1915: se il popolo non ci segue, su Umanità Nova del 6 maggio 1989).
Il governo federale, tuttavia, temeva i possibili sviluppi rivoluzionari di quella situazione e, impotente a neutralizzare la colonna Prestes con le proprie forze, chiese aiuto al messia di Juazeiro, padre Cicero (erede di tutta una tradizione di profetismo messianico e millenaristico a sfondo sociale, il cui esempio più famoso era stato quello del Conselheiro, per reprimere il cui movimento era stata necessaria una campagna di guerra in grande stile, con l’impiego di migliaia di soldati e perfino di artiglieria).
Padre Cicero, comunque, temeva più di ogni altra cosa l’arrivo delle truppe federali, le quali terrorizzavano la popolazione non meno dei banditi; e, pur di evitare l’ingresso dell’esercito brasiliano nel Nordeste e, in particolare, nel "suo" Stato di Cearà, accettò di far da tramite fra il governo e Lampião, in funzione anticomunista. Quei cervelli fini di Rio de Janeiro, in altre parole, avevano fatto la bella pensata di servirsi dei cangaceiros contro i guerriglieri comunisti, sfruttando il movimento religioso di Juazeiro quale "ponte" per stabilire un’alleanza coi banditi; più o meno come i possidenti siciliani si sarebbero serviti del bandito Salvatore Giuliano per farne uno strumento della sanguinaria repressione anti-comunista, culminata nel massacro di Portella delle Ginestre del 1° maggio 1947.
È degno di nota il fatto che padre Cicero era stato contattato anche perché fra lui e Lampião esisteva una antica e profonda conoscenza personale, anzi una vera e propria stima reciproca.
Il bandito, infatti, prima di rompere i ponti alle proprie spalle e intraprendere la carriera del fuorilegge, si era rivolto proprio al "messia" di Juazeiro, chiedendogli la sua bendedizione. Padre Cicero aveva dapprima tentato di distoglierlo dal proposito di darsi alla vita del cangaceiro; poi, essendo quegli rimasto irremovibile nella sua decisione, gli aveva consegnato un documento scritto in cui lo nominava "capitano", e luogotenenti i suoi due fratelli. Questo episodio – se è vero – parebbe dimostrare, primo, che padre Cicero si sentiva depositario di un’autorità morale e religiosa perfino superiore a quella politica dello Stato, anzi, in qualche modo distinta da essa e radicalmente altra; secondo, che "nominando" Lampião capitano avrà forse cercato di limitare e attenuare la sua carica di violenza eversiva, per convogliarla entro finalità e obiettivi socialmente più accettabili (un po’ come la Chiesa, nel Medioevo europeo, connotava l’investitura dei cavalieri di una coloritura spirituale tale da trasformare, per quanto possibile, dei nobili disperati senza terra e pronti a ogni violenza, in paladini dei deboli e delle "giuste" cause, non essendo la società feudale in grado di trovar loro una collocazione qualsiasi).
Il famoso cangaceiro si presentò dunque a Juazeiro e vi ricevette un’accoglienza trionfale da parte di un funzionario governativo, insieme al grado di capitano dell’esercito e a un considerevole quantitativo di armi e munizioni per i suoi uomini. In cambio, avrebbe dovuto mettersi in marcia per inseguire, bloccare e annientare la colonna Prestes; dopo di che, una amnistia promulgata dal governo avrebbe chiuso definitivamente ogni sua pendenza con la legge. Il cinismo senza limiti di questa operazione non deve stupire più che tanto: come ha scritto, in altro contesto, lo storico inglese Thompson, "per un sistema sociale, le cui basi economiche sono venute meno da lungo tempo, usare dei mezzi politici onesti non è più possibile".
Il gioco sembrava ormai fatto. Ma Lampião non era uno sciocco, e ci mise poco a rendersi conto (a differenza di Salvatore Giuliano) che il governo intendeva semplicemente usarlo come un burattino per poi rimangiarsi, quand’egli avesse portato a termine il "lavoro sporco" di eliminare Prestes, la promessa di amnistia. Perciò sospese la caccia alla colonna dei ribelli e tornò ad agire come un bandito indipendente, reso però più forte e temibile proprio dalle armi ricevute dal governo. Il machiavellismo, qualche volta, si ritorce contro coloro che lo utilizzano con eccessiva disinvoltura…
Lampião, dopo quell’episodio, continuò a macchiarsi di delitti orribili – ancor oggi le ballate popolari tramandano il racconto delle torture disumane che infliggeva, anche per motivi lievissimi, alle sue vittime e ai suoi stessi seguaci); ma non cadde mai più nel tranello di passare al soldo dei governativi. Come ha osservato in proposito acutamente un altro storico britannico, Eric Hobsbawm, "con le bande armate si sapeva come trattare, mentre il governo appariva a un tempo più perfido e più infido".
Le popolazioni rurali soffrirono enormemente per le spoliazioni e le violenze fisiche sia dei cangaceiros, sia della polizia; e quest’ultima era spesso ancor più temuta dei primi. Si viveva in un clima di ricatto reciproco. Quasi tutti i "colonnelli" dell’interno dovettero umiliarsi a venire a patti con i banditi, per limitare i danni ai loro latifondi e alle loro proprietà; ma i contadini, che non avevano alcuno che li proteggesse, erano costretti a subire prepotenze inaudite sia da parte dei cangaceiros che delle "forze dell’ordine".
Intervistato in proposito, un fazendeiro ebbe a dire testualmente: "Io preferisco mille volte avere a che fare con i briganti che con la polizia". Ma se i poliziotti si comportano in questo modo assurdo, gli venne domandato, perché non denunciarli alle autorità? "Fossimo pazzi! – fu la risposta – Attaccar briga con la polizia è come attaccar briga col governo. Quelli che lo fanno, rischiano la vita…" (Leonardo Mota, Al tempo di Lampião, vedi nota bibliografica).
Il banditismo sociale del Nord-est brasiliano non fu un fenomeno storico isolato ed eccezionale. Esso, al contrario, è tipico di quelle società rurali che, nel XIX secolo e nella prima metà del XX, vennero ulteriormente immiserite dall’ascesa della borghesia commerciale alleata al capitale straniero, e dal predominio dell’economia agricola basata sulla monocoltura (nel caso del Nordeste, la canna da zucchero). Fenomeni analoghi si svilupparono in moltissime altre società coloniali o sub-coloniali, dal Messico all’Indonesia.
Alcuni elementi comuni possono essere riconosciuti perfino col banditismo dell’Italia meridionale l’indomani dell’Unità, sia pur, ovviamente, con differenti caratteri specifici. E, se risaliamo indietro nel corso della storia, scopriremo che i predecessori di Lampião furono Stenka Razin’ e Robin Hood, i Bacaudae della Gallia tardo-romana e i banditi annidati nel delta del Nilo, nei primi secoli dell’éra cristiana (formati sia da ex contadini poveri della valle del Nilo, sia dal sottoproletariato di una grande metropoli commerciale come Alessandria d’Egitto).
Nessuno di questi movimenti, o quasi nessuno, sfociò in fenomeni di coerente rivoluzione sociale, e ciò per le ragioni cui abbiamo già fatto cenno. E, tuttavia, essi misero in evidenza il fatto che esisteva un potenziale rivoluzionario naturalmente diffuso tra le masse diseredate; un potenziale di cui le teste pensanti dell’anarchismo, a cominciare da Bakunin, ebbero chiara percezione (pur, talvolta, sopravvalutandolo per ingenuità politica); mentre la stessa cosa non si può certo dire di Marx e dei suoi seguaci.
Un potenziale che abbisognava, evidentemente, di una coscienza di classe, ma il cui contributo alla lotta sociale e al riscatto delle masse sfruttate avrebbe potuto essere importante, se non decisivo, sia contro il capitalismo che contro lo Stato, poiché nasceva appunto come reazione popolare e spontanea, ai mali dello Stato e a quelli del capitalismo.
NOTA BIBLIOGRAFICA.
– ERIC J. HOBSBAWM, I ribelli, Torino, Einaudi, 1966;
ERIC J. HOBSBAWN, I bandit. Il banditismo sociale nell’età moderna, Torino, Einaudi, 1971;
ERIC J. HOBSBAWM, I rivoluzionari, Torino, Einaudi, 1975;
OPTATO GUEIROS, Lampião, Salvador (Bahìa), Brasile, Livraria Progresso Ed., 1956;
LEONARDO MOTA, No tempo de Lampião, Rio de Janeiro, Oficina Industrial Grafica, 1930;
M. I. P. DE QUEIROZ, Os Cangaceiros: les bandits d’honneur brésiliens, Paris, 1968;
NERTAN MACEDO, Capitão Virgulino Ferreira da Silva: Lampião, Rio de Janeiro, 1968;
ROGER BASTIDE, Il Brasile, Milano, Garzanti, 1964, spec. p. 78 sgg.
Alcune notizie su Luiz Carlos Prestes e sulla situazione sociale e politica del Brasile nei primi decenni del Novecento si possono trovare in:
- HUBERT HERRING, Storia dell’America Latina, Milano, Rizzoli ed., 1974, spec.
p. 1.197 sgg.
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