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Un’infamia operaia: i «battaglioni rossi» antizapatisti nel Messico del 1915

Vengono qui riproposti (con lievi modifiche e aggiornamenti )due articoli pubblicati sul settimanale anarchico "Umanità Nova", il primo sul numero del 23 aprile 1989, col titolo "I battaglioni rossi antizapatisti, 1915-16"; il secondo, sul numero del 6 maggio 1989, col titolo "Messico 1915: e se il popolo non ci segue". In essi viene trattata una pagina di storia poco nota, e poco gloriosa, della sinistra operaia internazionale: il contributo da essa dato, per conto del governo borghese di Carranza, alla repressione del movimento rivoluzionario messicano di Villa e Zapata.

I "BATTAGLIONI ROSSI" ANTIZAPATISTI 1915-19.

È noto come uno dei maggiori punti di controversia fra Marx e Bakunin, ai tempi della Prima Internazionale, fossero i rispettivi ruoli della classe operaia e dei contadini in una fase rivoluzionaria della società. Per Marx, Engles ed i loro seguaci, la funzione-guida della rivoluzione non può che essere degli operai, perché essi costituirebbero la parte più matura e cosciente del proletariato, in virtù della loro ubicazione urbana e delle particolari condizioni di sfruttamento intensivo cui sono sottoposti. I contadini, con la loro atavica "fame di terra", destavano (e destano) la diffidenza dei marxisti ortodossi, che vedevano in loro una classe poco omogenea, troppo facilmente strumentalizzabile dal clero e dalle forze reazionarie (vedi il caso della Vandea), e soprattutto troppo facile ad accordarsi con qualunque regime, anche col vecchio, a patto di venir promossi al ruolo di piccoli proprietari indipendenti. Insomma, in ogni mugik c’è, in potenza, un kulak: il contadino povero e senza terra non aspirerebbe ad altro che a diventare, egli stesso, un padrone, a imborghesirsi e a divenire, così, fautore di un ordinamento reazionario.

Che tutto ciò non sia affatto vero, che non sia una specie di "legge storica" data ed immutabile secondo le categorie del divenire hegeliano (prese a prestito e semplicemente rovesciate da Marx), lo dimostra – fra l’altro – l’evoluzione politico-sociale del Messico rivoluzionario, dopo la cacciata di Huerta nel 1914. Nella lotta che allora si accese fra "convenzionalisti" (Villa e Zapata) e "costituzionalisti" (Carranza e Obregòn), l’ago della bilancia fu spostato a favore delle forze controrivoluzionarie proprio dalla classe operaia.

Nel 1910, alla vigilia della rivoluzione, il Messico era un Paese nettamente agricolo. Il 62% dei suoi lavoratori erano contadini. Nelle città viveva solamente 1/3 della popolazione, e in essa prevaleva il settore terziario (impiegati, commercianti, professionisti). Gli operai erano 195.000 in tutto lo Stato, dunque una frazione irrisoria. Ma quando si arrivò al confronto decisivo fra gli agrari e la borghesia urbana da una parte (i costituzionalisti di Venustiano Carranza) e il proletariato agricolo dall’altra, la classe operaia si lasciò attrarre nell’orbita politica dei suoi naturali nemici di classe. E sotto le bandiere della controrivoluzione furono costituiti quei "Battaglioni Rossi" (che di rosso avevano solo il nome, come già le "bandiere rosse" di Pascual Orozco, passate addirittura al servizio di Huerta), mandati a combattere contro i contadini di Villa e Zapata che si battevano per la riforma agraria secondo il plan de Ayala.

Fu quella che lo storico Gianfranco Dellacasa non teme di definire una autentica "infamia operaia" (nel volume Messico fra oppressione e rivoluzione, Milano, Marzorati ed., 1976, pp. 149-155). Mandare dei salariati dell’industria a reprimere le sacrosante rivendicazioni contadine, per conto dei borghesi e dei latifondisti; e, per di più, in nome… della rivoluzione! Sorge spontanea una domanda: come si potè giungere a tanto?

Vediamo, innanzitutto, qual era la piattaforma di lotta dei contadini, e specialmente di quelli dell’Armata del Sud, nel Morelos di Emiliano Zapata, che erano i più coscienti del proprio ruolo di classe e rivoluzionario (mentre al Nord, "Pancho" Villa rimase sempre in bilico fra banditismo anarcoide, idealismo di matrice liberale e opportunismo sfacciato; come quando, nel 1916, in odio a Carranza passò nel campo reazionario; o come quando accettò di non dare più fastidi al governo, in cambio di una bella hacienda per trascorrervi, nel lusso, una piacevole vecchiaia; mentre invece finrà assasinato, ma questo è un altro discorso).

Per i poveri peones del Messico meridionale, i più direttamente influenzati dall’anarchismo di un Ricardo Flores Magòn e di un Praxedis Guerrero, gli obiettivi fondamentali erano tre: 1) restaurazione degli ejidos (terreni comuni di villaggio) senza riscatto; 2) esproprio, con riscatto, di un terzo delle haciendas (e, nello Stato di Guerrero, esproprio delle terre incolte anche se oltre il terzo delle haciendas; 3) instaurazione di uno Stato democratico con sistema elettorale a suffragio universale, con organismi elettivi di controllo dal basso; posizione, questa, iniziale, che gradualmente evolvette verso un anti-statalismo rivoluzionario e autogestionario di pura matrice anarchica.

Insomma, i contadini di Zapata volevano andare sino in fondo alla rivoluzione; non accettavano l’idea di deporre le armi in cambio di vaghe promesse da parte dei politicos, perché capivano che la loro forza e la loro capacità di realizzare la riforma agraria stavano appunto nelle armi che impugnavano. Non si erano fidati di Madero più di quanto si fossero fidati di Porfirio Diaz, e avevano avuto ragione; né si fidavano, adesso, di Carranza, più di quanto si fossero fidati, prima, di Huerta: e cioè, nemmeno un poco.

Come fu possibile che gli operai delle industrie si lasciassero strumentalizzare dal governo di Carranza, fino al punto di lasciarsi inquadrare nell’esercito governativo e di marciare contro i peones?

Certamente molti di essi erano in buona fede, e credevano a ciò che veniva detto loro. E cioè che i contadini erano, più o meno, manovrati dal clero: e questo era un argomento che faceva molta presa sugli operai, che erano decisamente anti-clericali. Quando Zapata era entrato a Città del Messico, nel dicembre del 1914, non si era visto sfilare lo stendardo della Vergine di Guadalupe in testa alle sue truppe? Inoltre veniva detto loro che Villa e Zapata sognavano un ritorno del Messico al suo passato agricolo pre-colombiano, alle comunità di villaggio, ed erano perciò nemici della modernizzazione; quindi, erano anche – necessariamente – nemici dell’industria e del loro posto di lavoro. E infine tutto ciò era condito con le abituali calunnie di banditismo, ambizione personale e irresponsabilità politica dei loro capi: tutte accuse che, se potevano avere qualche parvenza di giustificazione nel caso di Francisco Villa, erano invece totalmente gratuite e costruite con deliberata falsificazione della realtà per quanto concerneva l’integerrimo Zapata.

Oggi può apparire stupefacente che gli operai messicani abbiano bevuto simili fandonie e siano andati a uccidere – e a farsi uccidere – dai loro fratelli sfruttati delle campagne; ma sta di fatto che ciò accadde.

Così come accadde quando l’Armata Rossa, costituita in buona parte da operai, attaccò a tradimento e distrusse l’autogestione contadina in Ucraina, e quella dei marinai a Kronstadt (vedi le memorie di Nestor Makhno e le opere di P. Avrich, L. Schapiro o dello stesso W. Chamberlin, che è uno storico di impostazione liberale-borghese, ma abbastanza obiettivo). E ancora, la medesima situazione si ripeté nelle tragiche giornate di Barcellona, nel 1937, quando operai anarchici e del P.O.U.M. furono attaccati e massacrati da operai comunisti che prendevano ordini direttamente dagli ufficiali di Stalin, in nome di una unità anti-fascista che, di fatto, si traduceva in una politica controrivoluzionaria del governo spagnolo repubblicano, ad esempio con il riesproprio dei contadini anarchici e il ritorno dei vecchi padroni (vedi le memorie di Vernon Richards e di Camillo Berneri; l’ottimi studio di Pierre Broué e di Emile Témime, oltre al Omaggio alla Catalogna di Orwell e Quelli di Barcellona di Kaminski).

Quali conclusioni trarre da tutto ciò? Evidentemente, che non è vero che la classe operaia goda, per "virtù infusa" (e da chi, poi? Dallo Spirito Assoluto di Hegel o dalla dialettica "progressiva" di Marx?), di una autocoscienza proletaria e di una saggezza rivoluzionaria superiori a quelle dei lavoratori rurali. Non è vero che i contadini siano sempre e dovunque una massa informe, abbrutita dall’ignoranzae dalla superstizione, e non è vero che solo dagli operai possono venir loro una coscienza di classe e una autentica guida rivoluzionaria.

Anche gli operai, invece, possono venire strumentalizzati dalle forze della conservazione, e possono pertanto venire indotti a rivolgere le armi contro i loro fratelli sfruttati dagli agrari. E i contadini, ancorché analfabeti e attaccati a certe tradizioni dell’epoca pre-industriale, possono pervenire a un grado di chiarezza e di lucidità rivoluzionaria molto superiori a quelle degli operai e degli stessi intellettuali borghesi.

Emiliano Zapata era un indio analfabeta, e non c’erano intellettuali fra i soi uomini. Aveva ricevuto alcuni insegnamenti di politica e di economia da Otilio Montano, vecchio militante, e da Filomeno Mata, un vecchio giornalista rivoluzionario. Ma il plan de Ayala fu opera innanzitutto della istintiva coscienza di classe contadina; di quei peones che sapevano benissimo cosa volevano, anche senza aver letto una riga di Marx o di qualunque altro economista, filosofo o sapientone (ma solo teorico) della rivoluzione.

Con ciò, non si vuol sostenere una improponibile "superiorità" di classe o una maggiore purezza di fede politica dei contadini, rispetto agli operai; si vuol solo negare validità alla teoria opposta. E denunciare come quest’ultima sia gravida di possibili involuzioni reazionarie.

Se non si sanno comprendere certe lezioni, queste potrebbero ripetersi. Ancora oprai e contadini potrebbero prendersi a fucilate a vantaggio dei padroni, magari in un futuro molto vicino; e ciò perché, ancor oggi, non si conoscono abbastanza, e quindi non si capiscono e non si fidano gli uni degli altri.

(Articolo pubblicato su "Umanità Nova" del 23 aprile 1989, e riproposto qui con lievi varianti e aggiormanenti).

MESSICO 1915: E SE IL POPOLO NON CI SEGUE

17 febbraio 1915. La Casa del Obrero Mundial ("Casa dell’Operaio Mondiale") e i rappresentanti del governo costituzionalista del (sedicente) primer jefe, ossia capo supremo della Rivoluzione messicana, don Venustiano Carranza, siglano un patto d’importanza storica. In cambio di una legislazione operaia di tipo democratico-borghese, la casa (cioè il sindacato operaio) si impegna alla costituzione di 6 Battaglioni Rossi, da mandare come appoggio logistico all’esercito regolare nelle operazioni militari in corso.

In che cosa consiste l’importanza storica di questa decisione dei lavoratori messicani dell’industria? Nel fatto che la Casa è un organismo anarco-sindacalista, e che i suoi operai andranno a combattere contro i nemici della rivoluzione, cioè contro… "Pancho" Villa ed Emiliano Zapata! Questo è riuscito ad ottenere quella volpe di don Venustiano, che sta adoperando tutta la sua abilità e sta gettando sulla bilancia tutto il suo (discutibile) prestigio, per frenare gli sviluppi della rivoluzione dopo la caduta e la fuga di Victoriano Huerta (succeduto a Madero, del cui assassinio è il vero responsabile). Il suo obiettivo è quello di stemperare le spinte sociali più avanzate della rivoluzione, rappresentate dai progetti di riforma agraria dei peones di Villa e Zapata, per riportare gli eventi entro l’alveo di una mera rivoluzione politica, cioè di stampo democratico-borghese.

È ben per questo che l’ambasciata degli Stati Uniti d’America, rappresentante di una potenza che ha enormi interessi economici e finanziari in Messico (oltre che politico-strategici), dopo aver commissionato a Huerta l’assassinio di Madero – un po’ come farà, in Cile, con Pinochet nei confronti di Allende – , ora punta tutte le sue carte sul governo di Carranza, rifornendolo di armi e di mezzi finanziari, contro i pericolosi progetti sovversivi dei contadini di Villa e di Zapata…

Tutto ciò ha dell’incredibile, eppure è accaduto.

La Casa del Obrero Mundial era nata in seguito a una serie di riunioni fra gli operai dell’Officina Méndez e un gruppo di intellettuali anarchici. Essa stampava un giornale, Luz ("Luce"), in cui venivano pubblicati articoli di Bakunin, Kropotkin, Elisée Réclus; e aveva aperto una Scuola razionale, che il presidente Madero aveva fatto chiudere. Gli operai non avevano protestato; anzi. Erano stati fra i più tenaci sostenitori di Madero: gli unici, si può dire. E questo benché, nell’estate del 1911, l’esercito – per ordine del governo Madero – avesse liquidato brutalmente l’esperimento comunista degli anarchici della Baja (Bassa) California, che avevano ricostituito gli ejidos, ossia i terreni comunitari dei villaggi, dopo avere espropriato i latifondisti.

Ma gli anarchici della Baja California erano quelli del Partito Liberale Messicano, cioè (nonostante il nome "liberale" possa trarre in inganno) dei magonisti: il loro organo di stampa, Regeneraciòn, sosteneva delle posizioni rivoluzionarie che erano, allora, le più lucide e coerentemente libertarie che vi fossero, allora, in tutto il Messico.

Ben altro era il clima che regnava nella Casa.

I suoi dirigenti erano degli anarchici che si vedevano sfuggire, poco alla volta, la loro presa sulle masse operaie, sempre più conquistate a una concezione riformista e legalitaria. Il loro dilemma era questo: restar fedeli alle loro idee, e lasciare che gli operai passassero alla socialdemocrazia; oppure rimanere agganciati agli operai, adeguandosi ai loro nuovi orientamenti di tipo moderato. Scelsero la seconda altrernativa, in nome di un malinteso uniformismo che doveva simulare una compattezza ideologica e politica ormai inesistente. Essi pensavano che, se le masse non li seguivano, voleva dire che non erano pronte per la rivoluzione sociale, ma solo per quella politica (sostanzialmente democratico-borghese); e, poiché bisogna aver fede nello spontaneismo popolare, la rivoluzione sociale era, per il momento, accantonata.

Lo si era visto molto bene nell’estate del 1911, dopo che Madero fu entrato a Città del Messico in seguito alla fuga precipitosa del vecchio dittatore Porfirio Diaz. In quel momento cruciale, gravido di straordinarie possibilità rivoluzionarie, anziché mettere il piede sull’acceleratore delle rivendicazioni, essi avevano presentato al governo una piattaforma assai moderata: diritto di organizzazione sindacale; diritto di sciopero; libertà di stampa, di associazione, ecc. Non chiesero nemmeno il salario lavorativo di otto ore, né il salario minimo stabilito per legge, collocandosi così in posizione arretrata perfino rispetto agli scioperi del 1906 (che, durante i fatti di Cananea, erano stati repressi nel sangue da Porfirio Diaz, con l’assistenza tecnico-militare degli Stati Uniti d’America).

Nella trattativa fra la Casa del Obrero Mundial e il governo di Francisco Madero, anche i minatori dello Stato di Sonora e gli operai anarchici della Baja California vennero abbandonati al loro destino. Dal canto loro, le forze armate degli Stati Uniti, allarmate dalla presa delle città di Tijuana e Mexicali da parte delle milizie d’ispirazione anarchica di Ricardo Flores Magòn, ammassavano 20.000 uomini alla frontiera, pronti all’intervento diretto; che scatterà, effettivamente, un anno dopo, ma per un altro casus belli: l’attacco di Pancho Villa alla cittadina americana di Columbus, nel New Mexico, in cui sarebbero morte 16 persone (cfr. The American Peoples Encyclopedia, ed. 1968, vol. 19, p. 115).

Nel febbraio 1915 il moderatismo della casa sfociò in aperto spirito contro-rivoluzionario, con la firma dell’accordo col governo Carranza e l’impegno alla costituzione delle truppe operaie in funzione anti-villistae anti-zapatista. È interessante andarsi a rileggere il testo del Manifesto lanciato dalla Casa agli operai messicani, per galvanizzare i costituendi Battaglioni Rossi.

Vi si diceva, fra l’altro: "È necessario essere fermi e convinti e affrontare, una volta per tutte, l’unico nostro nemico comune: la borghesia, sostenuta dal militarismo e dal clero". Come osserva Gianfranco Dellacasa, autore del libro Il Messico tra rivoluzione ed oppressione, Marzorati, 1976), in cui è riportato il documento, la borghesia sostenuta dal militarismo e dal clero era… l’armata rivoluzionaria contadina di Villa e Zapata!

Come è noto, Villa fu sconfitto dal generale carranzista – e futuro presidente del Messico – Alvaro Obregòn (con l’aiuto dei Battaglioni Rossi), in una drammatica serie di battaglie decisive, fra la primavera e l’autunno del 1915: a Celaya, ad Aguascalientes, ad Augua Prieta. Le cariche travolgenti della cavalleria villista vennero fermate, in un autentico bagno di sangue, dalle mitragliatrici e dal filo spinato dell’esercito federale: Obregòn, che era un buon militare (pur avendo perso un braccio in battaglia), stava applicando in Messico le più sofisticate e moderne tecniche della prima guerra mondiale, che allora si combatteva sui campi di battaglia di mezza Europa. A nulla servirono, contro la terribile potenza difensiva del binomio mitragliatrice-filo spinato, la temerità e l’irruenza con cui si gettavano all’assalto, un’ondata dietro l’altra, i peones a cavallo. Sotto il peso della disfatta la loro forza, il mito della loro invincibilità erano crollati. La poderosa Division del Norte di "Pancho" Villa si era praticamente dissolta.

Restava Emiliano Zapata che, dopo avere occupato temporaneamente, per la seconda volta, Città del Messico, si ritirò nel "suo" Morelos ove resistette eroicamente fino al 1919, quando cadde assassinato a tradimento. Il suo movimento non riuscì a superare l’ambito locale, e finì represso dai costituzionalisti, che seppero alternare concrete riforme sociali al pugno di ferro e agli eccidi, secondo la politica sempre fruttuosa della carota e del bastone.

Ma è interessante sapere quale fu la ricompensa che la Casa del Obrero Mundial ebbe da Carranza, per i preziosi servigi da essa resi al suo governo nel momento decisivo dello scontro sociale.

Per prima cosa, i Battaglioni Rossi vennero sciolti d’autorità nel gennaio del 1916, cioè subito dopo la sconfitta decisiva di Villa. Non servivano più, anzi potevano divenire addirittura pericolosi: così ricevettero un calcio nel sedere, e senza neppure un grazie.

Ma il peggio doveva ancora venire. Nell’autunno del 1915 vi erano stati degli scioperi, repressi dall’esercito con morti e feriti e con numerosi arresti, a due mesi dalla costituzione del primo sindacato veramente nazionale, la Confederazione del Lavoro Messicana (C.T.M.). Il 22 maggio 1916 scioperarono i tranvieri e gli operai delle centrali elettriche, e questa volta Carranza mandò i soldati a devastare le sedi del sindacato.

E non basta. Poiché lo sciopero continuava, il 1° agosto emanò un decreto così duramente repressivo- che prevedeva, tra l’altro, la pena di morte per gli scioperanti a oltranza -, che neppure Diaz e il feroce Huerta avevano mai osato fare nulla di simile. Il giorno dopo lo sciopero cessò. Alcuni sindacalisti, tuttavia – ciliegina sulla torta – finirono in galera per parecchi anni.

Questo fu il premio che gli operai anarchici (o che tali si dicevano) ebbero dalla borghesia, per essersi fatti suoi cani da guardia nel momento di più acuta crisi rivoluzionaria.

Vi sono alcune conclusioni di carattere generale che si possono trarre da quella vicenda.

La prima è che educazionismo delle masse e volontarismo rivoluzionario non devono essere presi come termini antitetici e radicalmente alternativi, bensì dialettici. "Seguire il popolo" non può voler dire farsi interpreti volonterosi del suo progressivo imborghesimento. Ciò che distingue gli anarchici dai marxisti è il fatto che i primi non vogliono assumere la guida del popolo o, peggio, la dittatura (magari spacciata per "rivoluzionaria" oltre che, naturalmente, temporanea), sostituendosi ad esso; ma ciò non significa che, per rispettarne lo spontaneismo, bisogna all’occorrenza mettere nel cassetto la rivoluzione sociale. Quando la classe lavoratrice, cloroformizzata dai sindacalisti di mestiere, vive in una fase di riflusso e tende ad introiettare gli schemi politici della borghesia, compito degli anarchici è semmai quello di metterla in guardia contro una involuzione che le sarà fatale; gridarlo dai tetti, se necessario. Venire a patti col governo, con qualunque governo, o magari addirittura entrare a farne farte (come accadde in Spagna nel 1936-37) significa non solo e non tanto, per degli anarchici, tradire i propri ideali, ma più ancora tradire le autentiche istanze popolari, in nome delle quali essi dicono di lottare.

La seconda riflessione è che quando, nel corso di un processo rivoluzionario, un settore del proletariato si lascia attrarre nell’orbita della borghesia, esso finirà fatalmente per divenirne dapprima lo strumento, poi la vittima. Lo si è visto infinite volte nella storia, ad esempio nel caso del tumulto dei Ciompi, a Firenze, nel 1378. Non è possibile un’alleanza strategica fra borghesia e proletariato: il secondo finirà per divenire subalterno alla prima, sempre. Non è mai accaduto il contrario. E ciò per una buona ragione.

Se si permette alla borghesia di conservare le leve del potere in un processo rivoluzionario, i proletari avranno un margine di manovra sempre più ristretto e finiranno per scagliarsi gli uni contro gli altri, o magari contro i sotto-proletari: come fecero, appunto, i Battaglioni Rossi contro i peones, lavoratori le cui condizioni di vita erano certamente assai peggiori di quelle degli operai. A quel punto anche la mentalità borghese e reazionaria comincia a penetrare nel tessuto del proletariato, ch diviene così, anche ideologicamente, subalterno al suo "alleato". Pier Paolo Pasolini ha bene analizzato questo fenomeno, in Italia, negli anni del boom economico del secondo dopoguerra; e ha parlato – a ragione – di "mutazione antropologica": quando i figli dei proletari vogliono assomigliare ai figli dei borghesi, quando perdono la fierezza della loro alterità.

Allorché l’esercito degli Stati Uniti penetrò in Messico, nel 1916 (dopo il raid di Villa su Columbus), Carranza, che fino ad allora era stato l’uomo di Washington, poté rafforzarsi al potere facendo appello al nazionalismo operaio e contadino contro gli invasori yankee (e il pensiero non può non correre alla "grande guerra patriottica" di Stalin contro gl’invasori tedeschi, nel 1941, dopo che il dittatore bolscevico – col patto Molotov-Ribbentrop del 1939 – si era fatto amico e alleato di Hitler, a spese della Polonia, dei Paesi Baltici, della Romania e, indirettamente, delle democrazie occidentali). Ma, dal punto di vista anarchico, il nazionalismo è l’ideale -controrivoluzionario – delle borghesie d’ogni luogo e d’ogni tempo; per gli anarchici, l’ideale proletario è e sarà sempre l’internazionalismo.

Tutti questi insegnamenti ci vengono dalla vicenda messicana del 1915-16 (e anche da quella spagnola del 1935-36). Tragici errori su cui le classi lavoratrici hanno materia per riflettere, nella speranza di non ripeterli.

(Articolo pubblicato su "Umanità Nova" del 6 maggio 1989).

SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

  • GIANFRANCO DELLACASA, Il Messico fra rivoluzione ed oppressione, Milano, Marzorati, 1976;

  • F. RICCIU, La Rivoluzione messicana, Milano, dall’Oglio, 1968;

  • JESUS SILVA HERZOG, Storia della Rivoluzione messicana, Milano, Longanesi & C., 1975 (2 voll.);

  • JOHN REED, Messico insorto, Roma, Editori Riuniti, 1958;

  • EDGCUMB PINCHON, Zapata l’invincibile, Milano, Feltrinelli, 1970;

  • GEORGE WOODCOCK, L’Anarchia. Milano, Feltrinelli, 1966;

  • HUBERT HERRING, Storia dell’America Latina, Milano, Rizzoli, 1974;

  • VICTOR ALBA, Il Messico, Milano, Garzanti, 1968;

  • F. RAFAEL MUNOZ, Andiamo con Pancho Villa, Milano, Longanesi & C., 1970;

  • C. CUMBERLAND, Mexican Revolution. Genesis under Madero, Dallas, Texas University Press, 1952:

  • P. CALVERT, The Mexican Revolution, 1910-1914, Londra, Cambridge University Press, 1968;

  • RUGGIERO ROMANO, La rivoluzione messicana, in Le rivoluzioni socialiste (a cura di R. Romano), Milano, F.lli Fabbri ed., 1973.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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