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La storiografia come problema filosofico (1)

"L’avvento della scienza moderna coincide con la soppressione di tribù non occidentali da parte di invasori occidentali. Le tribù perdono anche la loro indipendenza intellettuale e sono costrette ad adottare il cristianesimo. I membri più intelligenti ottengono un premio extra: vengono introdotti ai misteri del razionalismo occidentale e al suo culmine: la scienza occidentale. (…) Oggi (…) la scienza regna ancora sovrana. (…) Eppure la scienza non ha un’autorità maggiore di quanta ne abbia una qualsiasi altra ormna di vita. I suoi obiettivi non sono certamente più importanti delle finalità che guidano la vita in una cominità religiosa o in una tribù uscita da un mito."

PAUL KARL FEYERABEND

Contro il metodo.

  1. La crisi del pensiero contemporaneo.

  2. La comprensione del passato.

  3. Il problema dell’obiettività storica.

  4. Il valore dell’intuizione. Razionalità, causa e caso nella storia.

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  1. [LA CRISI DEL PENSIERO CONTEMPORANEO.**

Volendo sintetizzare in una espressione sufficientemente rappresentativa la posizione generalmente assunta dalla gran maggioranza degli storici contemporanei circa le possibilità di ricostruzione e comprensione dei fatti del passato, potremmo definirla di "cauto ottimismo". Ottimismo condizionato, vigile e alieno da risoluzioni precipitose; ma pur sempre ottimismo. Il dubbio radicale, la ventata sovvertitrice che si è abbattuta con inaudita violenza sul pensiero filosofico, estetico e morale, non è ancora arrivata a turbare l’olimpica serenità dei depositari più accreditati del sapere storico. La fiducia di poter penetrare nei regni nebbiosi del passato, e di comprendere lo spirito e il significato delle azioni umane, non è stata sostanzialmente intaccata; e tutto sommato l’atteggiamento di pacato ottimismo razionalista di un Gibbon o di un Robertson non sembra apparire sconveniente per uno storico dei nostri giorni – cioè, di tre secoli dopo.

Se passiamo a interrogarci sulle ragioni che hanno reso possibile una resistenza così efficace alla crisi generale del pensiero contemporaneo, non tarderemo a individuarle nel concetto di scientificità della storiografia, con cui si è creduto di offrire a quest’ultima uno scudo insuperabile contro qualsiasi assalto del "male del secolo", il dubbio sistematico e radicale. Riconosciuta e accettata la scientificità della storiografia, si è accomunata quest’ultima agli altri campi dell’indagine scientifica i quali, per ovvie ragioni, non hanno registrato che qualche smorzato contraccolpo della grande crisi del pensiero cui stiamo tuttora assistendo. Il concetto di una possibilità di conoscenza storica su basi scientifiche è, naturalmente, tutt’altro che nuovo, risale forse a Erodoto o quantomeno a Tucidide; e tuttavia esso ha ricevuto ai nostri giorno un impulso inversamente proporzionale all’avanzata dello scetticismo razionalista – con il che si è inteso mettere al sicuro la storiografia, oltre il terreno sconvolto delle altre discipline non-scientifiche. Non sarà quindi inutile, al fine di una più ampia considerazione del problema, tratteggiare i caratteri salienti di tale crisi del pensiero contemporaneo, senza pretesa di fornirne un quadro storico sistematicamente ordinato.

Si suole affermare che all’origine di tale crisi stiano il successivo tramonto della fede religiosa e del suo sostituto contemporaneo, la fiducia nel progresso tecnologico e scientifico: il che è abbastanza ovvio. Se poi ci si interroga su come una tale, duplice rivoluzione nel campo del pensiero esistenziale abbia potuto verificarsi, si giunge rapidamente alla conclusione che la rivoluzione industriale moderna ne è all’origine. Dopo avere scalzato i vecchi dèi e le vecchie certezze, essa non ha quasi avuto il tempo di proporne dei nuovi, che già il suo stesso precipitoso sviluppo li ha travolti e dispersi, lasciando l’uomo moderno non più mistico, ma sfiduciato; non critico, ma radicalmente scettico: sazio e nauseato dopo avere appena accostato il calice alle labbra.

E tuttavia, considerando che in piena età scientifica e tecnologica stiamo oggi vivendo, che soggiaciamo quotidianamente alla sua logica e ai suoi miti, ai suoi modelli di vita e di pensiero – ora offerti con la seduzione, ora imposti con la violenza – appare chiaro che una distaccata e organica valutazione dell’attuale condizione esistenziale ci rimane irrimediabilmente preclusa. Tutti criticano ma pochi pensano, quasi nessuno agisce, se agire è scegliere consapevolmente dei fini e dei mezzi atti a conseguirli. L’azione stessa, se non spesso anche il pensiero, sembrano divenuti impossibili: con una camaleontica capacità di trasformazione e di adattamento, l’attuale apparato tecno-scientifico riesce a volgere a proprio vantaggio ciò che maggiormente suona a sua condanna, confonde le menti già in via di paralisi da super-benessere e da alienazione edonistica. Come la Fenice che risorge dalle proprie ceneri, esso resiste imperterrito alla denunce apparentemente più virulente, alle deprecazioni più calorose e commosse; le trasforma in propri strumenti di difesa e di potenziamento grazie a un apparato di irreggimentazione dei costumi e del pensiero dalle dimensioni colossali, ma capace al tempo stesso della penetrazione psicologica più insidiosa e capillare.

È in questo contesto che si spiega come una certa psicologia di massa di tipo "positivistico" abbia potuto sopravvivere, ad onta di tutti i disastri e le vergogne cui l’indiscriminato progresso tecnologico a base utilitaristica ha condotto non solo la nostra civiltà, ma l’umanità intera. E ciò in parte spiega come la speculazione scientifica abbia potuto in larga misura sottrarsi al naufragio delle certezze del pensiero contemporaneo, superando abbastanza agevolmente una crisi di carattere esistenziale che sembra investire ogni aspetto della personalità umana.

Di fronte a un sapere scientifico i cui confini sono in continua e vertiginosa espansione; le cui applicazioni tecnologiche, dietro la maschera di una falsa e generica deprecazione, informano ogni più piccolo aspetto della nostra esistenza e sono sostanzialmente fonte di ammirazione e stimolo all’emulazione dei loro modelli più discutibili, si presenta lo spettacolo dello sfacelo dei tradizionali campi della speculazione "umanistica".

La filosofia ne è uscita distrutta: riconosciuta ingiustificata la sua antica pretesa ad una funzione superiore di coordinamento nei confronti dei singoli campi della ricerca, e anzi negato il suo stesso diritto all’esistenza in quanto disciplina autonoma, essa ha visto ridotta la propria funzione entro i limuti alquanto più modesti di semplice "occasione" di riflessione sugli eterni problemi dello spirito, cui più non ambisce dare delle risposte universali e definitive.

Le arti plastiche, figurative e musicali stanno attraversando, per unanime ammissione, una crisi della quale non è ancora possibile stabilire la portata, né intravvedere la fine. Nel disorientamento generale, anche i più convinti sostenitori della validità di tutte le più avanzate esperienze estetiche, non possono negare che l’arte sia giunta a una svolta – una svolta che non ha riscontro in tutti i lunghi secoli della storia passata.

Quanto alla letteratura, alla poesia e al teatro, essi attraversano una crisi meno appariscente e clamorosa, ma forse più logorante e definitiva; anche qui il concetto tradizionale di letteratura, offerto da tutta l’esperienza passata, sta subendo una evoluzione che lo allontana sempre più irreversibilmente dai modelli precedenti. A questo punto, la discussione intorno alla legittimità artistica della poesia e della letteratura odierne diviene sostanzialmente accademica: ciò che importa rilevare è che, si tratti o meno di arte (il che potranno più equamente giudicare i posteri), in ogni caso l’arte tradizionalmente intesa, tutto ciò che in materia può offrire il passato, è una forma di espressione spirituale di cui non solo stiamo assistendo al tramonto (che tutto lascia supporre non temporaneo), ma di cui stiamo perdendo addirittura il concetto e la stessa possibilità di comprensione.

Fino a che punto l’uomo dell’età tecnologica potrà ancora intendere in maniera intelligibile le forme d’espressione artistica di un passato, che fino alle soglie della rivoluzione industriale aveva pur sempre mantenuto una continuità di princìpi fondamentali, di contenuti e di forme?

Ciò che avviene oggi nella scuola è un chiaro sintomo della direzione presa dagli interessi culturali della società tecno-scientifica. Sempre più si pone l’accento sulla "inutilità" delle cosiddette discipline umanistiche, si tende all’esclusione dall’insegnamento delle lingue antiche (le "lingue morte"), e si pone in evidenza la discrepanza esistente fra gli interessi della vitae del lavoro quotidiani – per non dire, semplicemente, del mercato – e gli indirizzi di politica scolastica non ancora disposti a sacrificare interamente il tronco disseccato di una gloriosa, ma "superata" e polverosa cultura classica. Si fa notare come la nostra società non abbia più alcun bisogno di colti umanisti ("futuri disoccupati"), ma piuttosto di operai e di tecnici specializzati, direttori d’azienda, esperti finanzieri, e politicanti retrocessi al ruolo di obbedienti burocrati delle logiche di mercato; e che, a tal fine, meglio sarebbe ridurre ulteriormente o magari sopprimere l’insegnamento del greco, del latino, della letterarura italiana, della filosofia, della storia dell’arte, per aumentare e adeguare sempre più alle nuove esigenze quello della chimica, della fisica, delle matematiche ma, soprattutto, delle lingue straniere moderne e dell’informatica.

Il XX secolo è stato il mondo del ferro e della plastica, delle automobili e dei supermercati; il XXI si annuncia come quello della realtà virtuale: virtuali gli scambi culturali, virtuali le operazioni finanziarie, virtuali gli stessi "giochi di guerra" (che tuttavia producono, rispettivamente, forme di non-sapere, disastri economico-sociali e distruzioni pianificate estremamente reali). Un mondo ove non c’è più posto per chi non contribuisce con tutto sé stesso all’asfittico circuito di consumo e produzione illimitati, per chi non sa adattarsi alle nuove esigenze della società tecnologica.

La storiografia ha cercato la salvezza giocando sull’eterna ambiguità della sua natura, parte "artistica" e parte "scientifica": minimizzando il primo aspetto e insistendo sul secondo, si è giunti senz’altro a parlare di "scienza storica" e ad avvicinarla, anche se non ad equipararla, alla psicologia, alla sociologia, e in parte perfino alla scienze naturali. È quindi necessario un esame approfondito sulla natura della storiografia e sugli aspetti di essa che l’avvicinano alle discipline scientifiche, come di quelli che l’allontanano e l’accostano invece a quelle artistiche.

È comunemente accettata la distinzione tra "storia", o complesso degli avvenimenti umani delle età passate, e "storiografia", o studio critico e narrazione sistematica di essi; il che non impedisce che con il termine "storia" più spesso s’intendano entrambi i significati, ovvero soltanto il secondo di essi. La distinzione tuttavia è importante: essa implica un atteggiamento di umiltà da parte dello studioso nei confronti della materia che si accinge a trattare, un implicito riconoscimento della profonda, essenziale differenza che passa tra "cosa vissuta" e "cosa ricostruita". Tuttavia l’inconscia inferenza, che nel parlare non solo dell’uomo comune, ma anche dello studioso, collega direttamente i due concetti, è indice di una disposizione istintiva alla loro identificazione reciproca, sostanzialmente negatrice della distinzione e indipendenza delle loro nature. Non soltanto l’uomo comune è portato a connettere istintivamente il concetto di storia con quello di storiografia, ma spesso degli storici anche di fama hanno potuto, partendo proprio da una tale semplificazione inconscia, addentrarsi nel campo della ricostruzione storica. E tuttavia l’effettiva distanza che separa i due concetti è grande, abissale; potremmo paragonarla a quella che separa l’animale preistorico nella sua concreta esistenza, dagli scarsi resti fossili che avaramente il tempo ha conservato fino al sopraggiungere del moderno paleontologo. Il quale se, basandosi su quei poveri e frammentari resti (che non gli permetteranno mai di ricostruire, poniamo, la struttura degli organi interni o il colore della pelle dei dinosauri, né serviranno a fornirgli dati sufficientemente precisi sulla diffusione numerica di quegli animali), ardisse identificarli senz’altro con le effettive forme e condizioni di vita delle antiche ère geologiche, prenderebbe certamente un grosso abbaglio.

Nel campo della ricostruzione storiografica, d’altra parte, se da un lato il materiale a nostra disposizione è infinitamente più abbondante, in quanto si tratta spesso di testimonianze tramandateci volontariamente da esseri intelligenti, la ricostruzione diviene in effetti molto più complessa, proprio per le caratteristiche assai differenti degli esseri umani, dotati di autocoscienza e volontà, rispetto a quelle delle forme animali e vegetali.

In effetti, la maggioranza degli storici ammette che una delle maggiori difficoltà – se non la maggiore – della ricostruzione storica, consiste proprio nell’impossibilità di una penetrazione profonda e completa dei pensieri, degli stati d’animo, delle caratteristiche psicologiche di individui e società. Ma è poi possibile comprendere le azioni umane, slegate dai loro moventi intimi e profondi? È possibile ordinare sistematicamente i fatti e le epoche in una visione organica, intelligibile, ignorando il contesto emotivo, il substrato psicologico in cui si produssero?

Il problema che ci si pone è, naturalmente, quello del valore che dobbiamo attribuire a tali componenti spirituali, non-materiali della storia; e, in base ad esso, affrontare con una nuova consapevolezza il campo della ricostruzione storiografica.

  1. [LA COMPRENSIONE DEL PASSATO.**

Le correnti di pensiero che tendono a privilegiare i fattori materiali – economici innanzitutto – della vita umana, non hanno incontrato alcuna difficoltà a svalutare l’importanza dei moventi spirituali, restituendo in tal modo fiducia nell’oggettività e "scientificità" della storiografia. Diversa è la prospettiva per chi si ponga da un punto di vista meno legato all’importanza prioritaria dei fattori materiali nella storia. E tuttavia, considerato il fatto che riconoscere una simile, rigida attestazione concettuale su posizioni antitetiche non offre garanzie di autentica comprensione globale di realtà complesse, dovremo negare legittimità metodologica a ogni dogma di diverse scuole o ideologie, e riconsiderare tutto il problema risalendo alle sorgenti e cercando il punto in cui la presunzione e l’ignoranza umane hanno incominciato a contendersi e fare a brani l’unica verità, carpendone ciascuna scuola un lembo stracciato e agitandolo come una bandiera.

"…e benché io protestassi e resistessi – scive Boezio nella Consolatio Philosophiae, I, 3 – quasi fossi una loro preda, mi lacerarono la veste che avevo tessuto con le mie mani, e, stracciatine dei brandelli, se ne andarono, convinti, ciascuno, d’avermi portata intera con sé. E poiché in costoro si scorgeva una qualche impronta del mio vestito, l’umana leggerezza, scambiandoli per miei discepoli, spinse sulla strada sbagliata parecchi di loro, con grande pregiudizio della moltitudine ignara."

Infatti, se è ben vero (come sostenne Simmaco nella petizione per l’altare della Vittoria) "una sola strada non basta per giungere alla verità", tuttavia l’irrigidirsi dogmaticamente su posizioni unilaterali e intolleranti, il disprezzo per le opinioni diverse dalle proprie, la polemica di parte divenuta miope e faziosa, sono indubbiamente tra le caratteristiche più appariscenti della crisi culturale contemporanea.

Abbiamo visto che la valutazione degli aspetti spirituali della personalità umana nel divenire della storia è d’importanza decisiva ai fini di una conclusione circa la possibilità di effettiva comprensione della storia da parte dei posteri. Sarà dunque necessario considerare con la massima attenzione il problema, cosa che ci porterà inevitabilmente assai lontano, fino agli incerti confini tra psicologia e sociologia, tra sociologia e storiografia.

Molti storici partono dall’assunto che il campo "minimo" intelligibile dell’indagine storica siano intere civiltà, o almeno società e nazioni. Partendo da questo punto di vista, non sarà difficile minimizzare gli aspetti "spirituali" del carattere umano nel contesto del divenire storico. Ma se prendiamo le mosse da una diversa concezione, saremo portati a riconoscere l’ineliminabilità del fattore umano individuale dalla realtà storica, nella quale non è difficile riconoscere ad ogni passo le tracce concrete del pensiero e dell’azione individuali. Naturalmente ammettiamo – come ha fatto, ad esempio, il Toynbee, in polemica con lo Spengler – che civiltà e società non sono giganteschi e mostruosi organismi super-individuali, dotati, come lo è l’individuo, di una vita organica caratterizzata dalla nascita, dalla crescita, dalla maturità, decadenza e morte. Ma esse non sono neppure, come voleva il Toynbee, semplicemente il "terreno comune" d’azione di un certo numero d’individui: perché dall’azione combinata di più individui scaturisce sempre una forza che è diversa dalla loro semplice somma aritmetica, una forza originata dall’intersecarsi delle singole individualità, che la influenzano e al tempo stesso ne vengono modificate. Da questo punto di vista, definire una società il semplice terreno comune sul quale operano i campi d’attività di singoli individui, rivela una concezione alquanto statica della natura di una società. Se tale definizione fosse senz’altro accettabile, essa implicherebbe la piena equiparazione di psicologia e sociologia, di sociologia e storia. Ma gli urti, le tensioni e le resistenze imposti a questo "terreno comune" dall’azione convergente delle diverse individualità genera un processo di continua, incessante modificazione tra individuo e società, tale che l’uno e l’altra ne vengono profondamente modificati.

In questa prospettiva parrebbe più equilibrata una posizione intermedia tra quella di Spengler e quella di Toynbee: le civiltà non sono né giganti super-individuali dalle caratteristiche organiche, né la semplice somma di un certo numero d’individui: posseggono taluni aspetti di entrambe le concezioni, poiché rivelano una capacità di recupero e di adattamento impensabile per il singolo individuo, né d’altra parte sembrano totalmente sfuggire alle leggi universali della vita organica.

Le società, dunque, non sono super-individui, e tuttavia il loro rapporto con le singole azioni individuali è così stretto e profondo, che per esso subuiscono continue e decisive alterazioni. Non sembrano dunque esservi ragioni per negare che, come si ammette generalmente che i fattori spirituali sono della più grande importanza nel contesto della vita individuale, devono esserlo anche in quello delle società, e quindi della storia. Nessuno potrebbe negare o misconoscere l’importanza dei fattori materiali, anzi la nostra convinzione è che essi costituiscano il presupposto per l’esplicazione delle manifestazioni spirituali, sia nell’individuo che nella storia. Ma, una volta ammesso ciò, non sembra giustificato negare che, stabilite quelle condizioni fondamentali ad opera dei fattori materiali (clima, ambiente, struttura economica, ecc.) resti aperto alla vita dello spirito un campo d’azione sufficientemente vasto per influenzare in profondità l’esistenza del singolo individuo e anche quello di un’intera società.

Il vero peccatum originalis di tutte le storiografie d’spirazione materialistica è, a ben guardare, la loro subordinazione della concreta indagine storica ai fini di una sua interpretazione in chiave pratica immediata. Siamo ben disposti ad ammettere che Platone non avrebbe potuto che nascere nell’Atene del V secpolo a. C., che la sua speculazione filosofica era presupposta dall’instaurazione di un’economia "capitalistica" e di una spregiudicata politica imperialista, che l’esistenza della schiavitù e delle sperequazioni economiche, sociali, etniche e politiche nel mondo ellenico furono la necessaria e inevitabile contropartita della fioritura culturale, artistica, filosofica dell’età di Pericle. Ma una storiografia che si fermi a indivduare le determinazioni storicistiche di una data società e a denunciarne gli aspetti moralmente ingiusti e condannabili – o meglio, che la nostra sensibilità moderna giudica tali – non è storiografia: è ideologia politica o denuncia morale.

Perciò, se un esame preliminare delle condizioni economiche delle singole società è necessario alla comprensione della loro storia, quest’ultima non si esaurisce in esso: restano ancora da considerare le vie seguite dallo spirito nel reagire a tali determinazioni, e in ciò consiste quel che è lecito chiamare "libertà" nella storia. Non certo una libertà assoluta: e tuttavia tale, da consentire le più alte e ricche costruzioni dello spirito umano, attraverso un complicato processo di azioni e reazioni fra individuo e individuo(Socrate e Alcibiade), individiuo e società (Socrate e Atene), società e società (Atene e Sparta); l’essere umano è, al tempo stesso, artefice e strumento della propria storia.

Qui si vede la debolezza fondamentale di ogni determinismo radicale, così nel campo storiografico come in quello filosofico: eso, in raltà, non fa che sfondare una porta già aperta. Nessuna persona ragionevole potrebbe negare che le influenze materiali abbiano una funzione decisiva nel determinare le forme dell’esistenza umana, sia nell’azione che nel pensiero (e, accanto a quelle "esterne" di natura economica, la storiografia marxista sembra aver dimenticato che ve ne sono anche di "interne", biologiche e genetiche, ancor più ineluttabilmente limitanti e decisive per la libertà dell’individuo. Ma cos’altro si può ragionevolmente intendere per "libertà" dell’individuo, se non lo spazio residuo lasciato libero dall’insieme di queste forze condizionanti? Per angusto e illusorio che sia, esso è tutto quanto possiamo giustificatamente attribuire alla sfera della libera volizione individuale. Volizione individuale che, a sua volta, subisce e influenza altre volizioni individuali ed è infine capace, in determinate circostanze, di agire sulla stessa struttura materiale e spirituale dell’organismo sociale. La libertà assoluta non esiste e il determinismo assoluto è un’astrazione – o, il che è lo stesso, una verità banale: gli estermi si elidono e ciò che resta è il concreto dispiegarsi dello spirito nel mondo della storia. Una storiografia che sottovaluti il ruolo di questo apporto individuale, si lascia sfuggire ciò che di più interessante e originale ha saputo manifesare lo spirito umano nel corso del divenire storico.

Siamo così giunti a riconoscere la piena importanza dei fattori spirituali, sia individuali che collettivi, nella storia. Con ciò torniamo al problema della possibilità di comprendere, con i mezzi storiografici di una data età, l’essenza spirituale di un periodo precedente, i profondi movimenti interiori delle azioni umane a livello individuale, come a livello di intere società. A prima vista, la difficile questione non sembra offrire appigli o lati facilmente accessibili alla nostra indagine. Possiamo incominciare, tuttavia, distinguendo le difficoltà di ricostruzione della storia antica, o comunque di quella che non ha lasciato testimonianze abbondanti, e la storia di epoche a noi più vicine e meglio documentate, che presentano allo storico problemi meno ardui. Ma una distinzione teorica è difficile, per non dire impossibile. Né è possibile parlare di "scienza storica" per la storiografia rivolta allo studio dell’età moderna, e negare tale carattere scientifico a quella che ha per oggetto la storia antica o medioevale. Non solo valgono a questo proposito le obiezioni, da più parti avanzate, contro ogni pretesa di schematizzazione cronologica del passato (dove finisce l’età antica? E c’è una sola età antica, sia per l’Occidente che per l’Oriente?). Si può facilmente constatare, ad esempio, come per taluni aspetti della storia antica (o, più raramente, per quella medioevale) siamo nel complesso meglio documentati che non per certi aspetti della storia moderna e contemporanea. Lo storico dell’età augustea che può disporre di Tacito e Svetonio, Velleio Patercolo e Dione Cassio, è in condizioni di vantaggio rispetto allo storico della Cina contemporanea (specie dello storico occidentale), impossibilitato a viaggiare liberamente in quel paesee a consultare gli archivi governativi. E lo stesso può dirsi degli storici delle due guerre mondiali, i cui documenti ufficiali sono in gran parte andati distrutti o giacciono al sicuro, nel segreto inviolabile dei ministeri competenti.

E ancora: fino a che punto si può parlare di storiografia per gli avvenimenti a noi più vicini? È ragionevole definire "storia" la seconda guerra mondiale, e "cronaca" tutti gli avvenimenti mondiali posteriori al 1945? Oppure bisogna porre il limite più innanzi, alla guerra del Vietnam, per esempio (conclusa nel 1975)? Quante generazioni devono passare, prima che si possa scrivere la storia?La distanza di tempo, in ogni caso, sembra offrire delle garanzie d’indagine serena e obiettiva tanto maggiori, quanto più essa aumenta e si allontana dal mondo vivo e convulso, in cui i fatti studiati si produssero. Al tempo stesso, è innegabile che quando la distanza di tempo oltrepassa un certo limite, essa ci impedisce di discernere chiaramente gli oggetti della nostra ricerca, le cui voci ci giungono smorzate e sempre più fioche, mentre le azioni appaiono – per un effetto di prospettiva – fisse e pietrificate in una immobilità ben lontana dalla loro passata esistenza reale. Per una storiografia che non voglia ridursi ad aneddotica sistematica (alla maniera di Svetonio, o, in tempi più recenti, di Muratori), il che cosa? è sempre meno importante del come?

Chi nutre interesse per la continuità della storia, per il vivo dispiegarsi di forze attraverso le concrete situazioni di determinate epoche, rifugge dagli statici schematismi e non si appaga di una falsa prospettiva che immobilizza – anche a causa della distanza – ciò che si è esplicato nel movimento di azione e reazione di forze contrastanti.

Partendo da una riflessione sul valore dei fattori spirituali nella storia umana, siamo così giunti alla conclusione che tale valore è decisivo per la comprensione di un evento o di un’epoca; e tuttavia abbiamo visto come tale fattore della storia sfugga, per sua natura, all’investigazione dello studioso – specialmente dello studioso di un’età separata da grandi distanze temporali. Proviamo ora a seguire una diversa strada, partendo dall’esame del concreto lavoro della ricostruzione storiografica, dei mezzi di ricerca di cui lo studioso si serve; e vediamo se sia possibile approdare a qualche ulteriore conclusione. Vogliamo affrontare innanzitutto la decisiva questione se la storiografia, per i metodi che adopera e per le finalità che si prefigge, possa essere paragonata alle scienze naturali o magari a quelle fisico-matematiche; e quindi se rivesta – e se sì, in qual misura – quel carattere obiettivo di conoscenza che sembra contraddistinguere le altre scienze.

Abiamo visto che la maggioranza degli storici moderni inclina a rispondere affermativamente, sia pure con varie riserve e diverse sfumature, a questo interrogativo. Certo, ben pochi pensano di poter difendere una simile posizione con gli stessi argomenti e lo stesso caldo entusiasmo del razionalismo illumìnista del XVIII secolo, e soprattutto del positivismo del XIX. Ci separa da allora un lasso di tempo durante il quale anche le scienze hanno fallito alcuni appuntamenti, e hanno rivelato di non essere infallibili. Tuttavia

"Oggi, tanto gli scienziati che gli storici nutrono la speranza (…) di passare via via da un’ipotesi circoscritta a un’altra, isolando i fatti per mezzo delle interpretazioni, e saggiando le interpretazioni per mezzo dei fatti; e mi pare che nel far ciò essi seguano metodi che non presentano diversità sostanziali." (E. H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Torino, 1976, pp. 67-68).

Noteremo di sfuggita che l’adozione di un simile criterio di lavoro sembra presentare, per lo storico, alcune difficiltà: pare infatti ch’esso teorizzi l’impiego d’un metodo soggettivo e talvolta, al limite, arbitrario (quale è l’interpretazione), per enucleare dal contesto del processo storico delle unità minime di studio (i fatti), alla luce dei quali si dovrebbe verificare la fondatezza dei criteri di lavoro adottati in partenza. Non vi è un circolo vizioso in tutto ciò? Tuttavia è interessante rilevare che il Carr, quando passa ad esaminare le varie obiezioni sollevate contro la pretesa di scientificotà della storiografia, ne enumeri cinque, e precisamente:

"1) che la storia ha a che fare esclusivamente con l’individuale, e la scienza con il generale; 2) che dalla storia non si traggono insegnamenti di sorta; 3) che la storia è incapace di fare previsioni; 4) che la storia è necessariamente soggettiva, dal momento che l’uomo osserva sé stesso e 5) che la storia, a differenza della scienza, implica problemi religiosi e morali." (E. H. Carr, op. cit., p. 68).

Sfortunatamente, a noi sembra che questo elenco ignori la questione veramente fondamentale del dibattito sulla "scientificità" della storiografia. La storia non è "necessariamente soggettiva dal momenrto che l’uomo osserva sé stesso": in campo storiografico, la categoria "uomo" è un’astrazione. Se osservasse realmente sé stesso, come pensava Vico, allora sarebbe provato esattamente il contrario, in quanto sarebbe possibile raggiungere un grado di certezza, anche se soggettiva, tale da consentire senz’altro una efficace ricostruzione e interpretazione del passato. Ma parlare di "comportamento" dell’uomo è un diritto della filosofia (almeno, di quella non nominalista) e forse della sociologia, non della storia, per la quale ogni singolo fatto esige una considerazione autonoma e indipendente.

Che cosa conosce, in realtà, lo storico, delle azioni e dei pensieri degli uomini del passato? Poco più che l’aspetto meramente esteriore- quando è fortunato. La storiografia, dunque, è soggettiva non già perché l’uomo vi osserva sé stesso, ma perché osserva "altri", che non può conoscere oggettivamente, ed è costretta ad interpretarli con gli occhi, del tutto soggettivi, dello storico.

È vero: noi possiamo valutare le azioni di una determinata personalità storica, e in base ad esse esprimere un giudizio sul comportamento del loro autore. Possiamo anche, in taluni casi, disporre delle memorie personali dell’individuo in questione, nonché dei giudizi e delle ipotesi dei suoi contemporanei. Ma tutto questo è sufficiente per affermare che noi veramente conosciamo l’oggetto dei nostri studi? Se lo scopo della storiografia fosse puramente annalistico (Muratori) o moralistico (Plutarco) o politico (Machiavelli, Marx) la semplice conoscenza degli accadimenti esteriori, purchè completa, sarebbe sufficiente. Ma allora in che risiederebbe la dignità autonoma dell’indagine storica? Chi accetta tale punto di vista, più o merno consapevolmente percorre a ritroso una strada che lo conduce all’apologetica o alla libellistica, all’evasione fantastica o all’azione politica – un approdo piuttosto inaspettato per chi aveva alzato fiduciosamente le vele al vento della scientificità della storia. Tuttavia non stupisce come proprio questa categoria di storici, ignorando la contraddizione implicita nella loro posizione, abbiano bollato con i termini di "passionalità soggettiva" e di "arbitrarietà" le opere di quegli storici, che nello sforzo di interpretare il muto ed inerte materiale storico hanno compiuto talvolta un comprensibile, anzi inevitabile, "azzardo" nei regni sfumati e mal definiti delle ipotesi e delle interpretazioni personali.

Naturalmente, esistono dei limiti per quel che riguarda la legittimità dell’interpretazione personale; limiti oltre i quali si sconfina nel romanzo storico o nel libello partigiano. Ma è necessario rendersi conto, per prima cosa, se una certa percentuale di soggettività e, diciamolo pure, di arbitrarietà (non d’invenzione pura e semplice, che è altra cosa), sia o no implicita in qualsiasi lavoro storiografico.

Alcuni storici sono rimasti schiacciati sotto il peso di questa scoperta, e – abbandonata ogni pretesa di penetrare l’essenza della storia – si sono contentati di limitare il loro interesse agli aspetti "formali" di essa. La loro posizione teorica è stata ammirevolmente definita da un grande storico contemporaneo:

"Si tratta delle forme della vita e del pensiero che abbiamo tentato di rappresentare. In quanto al contenuto essenziale di queste forme mi permetto la domanda: sarà mai compito dell’indagine storica l’avvicinarvisi?" ( Johann Huizinga, L”autunno del Medio Evo, Firenze, 1975, p. XXXV, prefaz. alla 1^ ediz. olandese, Leida, 1919).

È una posizione legittima, e la rispettiamo pur senza condividerla. Anzitutto le forme della vita e del pensiero che Huizinga ha magistralmente rappresentato (o "tentato di rappresentare") nell’ Autunno del Medio Evo implicano una continua, incessante inferenza ai propri contenuti. In secondo luogo, egli avrebbe potuto meglio precisare che tali forme, nel suo studio, riguardano gli aspetti collettivi della società franco-borgognona tardo-medioevale: a livello individuale, coerentemente con le sue premesse, non viene tentata alcuna analisi o interpretazione.

Secondo noi, però, il punto veramente centrale riguarda la legittimità dell’interpretazione personale, in virtù della quale è possibile penetrare – beninteso senza alcuna pretesa di obiettività assoluta – proprio in quel regno misterioso e tuttavia fondamentale per la comprensione della storia, che è quello dei contenuti di determinate forme. Non esistono criteri di obiettività storiografica, tali da premunire in partenza contro i possibili abusi del soggettivismo arbitrario o i travisamenti della passionalità politica. Minimi nella grande opera storiografica, massimi nel romanzo a sfondo storico, essi sono una costante ineliminabile della ricostruzione storica, insita nella sua stessa natura. Soltanto a lavoro finito sarà possibile giudicare se la loro percentuale consente di qualificare un’opera storica come veramente degna di questo nome.

Una simile affermazione farà sobbalzare i sostenitori della "scienza storica". Vogliamo perciò riportare, a semplice titolo di esempio, il giudizio espresso su un personaggio storico – l’imperatore romano Teodosio il Grande – da alcuni storici moderni universalmente apprezzati.

"La saggezza delle su eleggi e il successo delle sue armi resero la sua amministrazione rispettabile sia agli occhi dei sudditi, sia dei nemici. (…) Il tempo della prosperità era per lui quello della moderazione, e la sua clemenza fu massima dopo il pericolo e la vittoria della guerra civile. Tuttavia (…)il virtuoso animo di Teodosio spesso si rilassava per indolenza e talvolta era infiammato dall’ra. Nel perseguire uno scopo importante il suo energico coraggio era capace dei più strenui sforzi, ma appena aveva eseguito il proprio piano o aveva superato il pericolo, l’eroe si abbandonava a un inglorioso riposo, e dimentico che il tempo di un principe è dovuto al suo popolo, si dava tutto al godimento degli innocenti ma frivoli piaceri di una corte fastosa. (…) Fu costante studio della sua vita reprimere o moderare gli straordinari eccessi di colera, e il successo dei suoi sforzi accresceva il merito della sua clemenza. Ma una virtù che deve essere faticosamente conquistata con la vittoria, è esposta al pericolo della sconfitta, e il regno di questo principe saggio e misericordioso fu macchiato da un atto di crudeltà che avrebbe macchiato gli annali di Nerone o di Domiziano."

Edward Gibbon, Decadenza e caduta dell’Impero Romano,

cap. XXVII, ed. Roma, 1973, vol. 3, pp. 93-95.

"Teodosio I è stato soprannominato il grande dai posteri, ma ci si può domandare fino a qual punto meriti il titolo…il successo della sua politica ecclesiastica fu largamente dovuto al caso fortunato che la chiesa aveva già raggiunto al principio del suo regno una sostanziale unità e che le sue opinioni teologiche coincidevano con quelle che avevano già trionfato. Il suo sentimento religioso fanatico e bigotto si diresse così soltanto contro piccoli gruppi di settari e contro i pagani. (…) Nel campo finanziario Teodosio ritornò, dopo la parsimonia di Valentiniano e Valente, alla prodigalità eccessiva di Costantino e dei suoi figli. Nel grave problema militare che dovette affrontare al principio del suo regno si può sospettare che abbia mostrato insufficiente risolutezza e abbia adottato senza troppo riflettere la linea più facile [cioè l’arruolamentoin massa di grandi contingenti di barbari nell’esercito romano].

A. H. M. Jones, Il tardo Impero Romano (284-602 d.C.),

Milano, 1973, vol. 1, p. 219.

"La grandezza di Teodosio ebbe, per la Chiesa e per il suo primo insigne apologista, il vescovo Ambrogio, un unico fondamento, il merito di aver realizzato l’unione della potenza cattolica all’Impero. (…) Quest’opera, di fatto, compiè Teodosio, ma essa era estranea ai fini dell’Impero, o la sua realizzazione terminò col porre lo stato di fronte a nuove, non meno inestricabili difficoltà. Per correr dietro alla chimera della unità religiosa, Teodosio si era lasciato sfuggire i veri problemi, si era lasciato distogliere dalla considerazione dei profondi mali, di cui lo stato soffriva. (…) La politica economica, finanziaria, sociale dei Valentiniani e di Teodosio rifugge da tutte queste preoccupazioni o, se dà luogo a provvedimenti che vi si riferiscono, non segue un piano organico, un indirizzo costante, ma si adatta ai bisogni contingenti e immediati. (…) La sua politica economica è profondamente malata d’empirismo. (…) Contribuendo a ingrossare i contingenti barbarici nell’esercito, Teodosio non faceva che scegliere il male minore fra quanti la situazione generale gli impose. (…) L’ultimo errore egli lo commetteva innalzando al trono due fanciulli inetti e imbelli e ripetendo l’errore di Costantino: quello di non stabilire alcuna gerarchia fra di loro, ossia col dividere, senza badarvi, di fatto, l’Impero."

Corrado Barbagallo, Storia universale,

Torino, 1932, Roma, vol. II, pp. 844-847.

"In seguito ai nuovi accordi, Teodosio era giunto a sgretolare completamente l’autorità imperiale di fronte alle popolazioni barbariche. (…) Le concessioni fatte da Teodosio ai Goti esorbitavano da quanto per il passato si era concesso a popolazioni barbariche."

Attilio Levi, L’Impero Romano,

Milano, 1967, vol. III, p. 1.127.

"Teodosio (…) potè, a poco a poco, reprimere le depredazioni dei Goti, sistemarli in Dalmazia, e assumere un corpo di essi, comandato da Alarico, al suo servizio. Fu questo un atto di prudente ed abile sovrano, ed egli meritò forse il soprannome di grande che i suoi contemporanei gli diedero tenendo però in maggior conto le sue benemerenze verso la Chiesa che verso lo Stato."

Tenney Frank, Storia diRoma,

Firenze, 1974, vol. 2, p. 336.

Dal confronto di questi passi di autori diversi appare chiaro che non soltanto la politica imperiale di Teodosio è valutata in maniera quanto mai varia, ma che anche su episodi specifici del suo governo, come l’arruolamento dei Goti nell’esercito al principio del suo governo, esiste la più antitetica divergenza di vedute. Si potrà obiettare che il punto essenziale, per l’obiettività della storiografia, non è tanto il giudizio personale del singolo studioso, quanto piuttosto la sua esposizione dei fatti: nel caso presente, il succeso di Teodosio nella guerra gotica dopo la battaglia di Adrianopoli. Ebbene: neppure su questo punto possiamo esprimerci con sicurezza. La natura delle fonti non ci permette di chiarire sufficientemente in quale misura le vittorie riportate da Teodosio sulle singole bande gotiche furono decisive, e se in sostanza l’arruolamento dei barbari nell’esercito fu un espediente imposto da disperata necessità, oppure la politica accorta e generosa di un sovrano vittorioso.

Quanto abbiamo esemplificato per Teodosio può applicarsi a un numero infinito di personalità, avvenimenti e processi storici più o meno lunghi, più o meno importanti. È stato fatto notare, giustamente, che qualsiasi narrazione storica, anche la più "imparziale" e "obiettiva", presuppone già, per forza di cose, tutta una serie di scelte e prese di posizione da parte dello storico, a cominciare dall’utilizzazione del materiale e dalla rilevanza comparativa data ai singoli aspetti. In questo, il lettore non-specialista è costretto a rimettersi interamente alla discrezione dello storico di professione. Un giudizio troppo passionale o gratuito può venire individuato facilmente da qualsiasi lettore: ma come stabilire l’importanza comparativa dei fatti? In questo, non vi è che la discrezione dello storico a decidere. L’imperatore Giuliano è più o meno "importante" di Costantino, o di Teodosio? La rivolta contadina in Germania del 1525 non meriterebbe maggiore spazio nei manuali di storia, di quello che generalmente le viene concesso? È un fatto che la critica storica non permane statica, ma perviene a continue revisioni di giudizi e di valutazioni per l’addietro formulati (e ogni epoca ritiene di esser giunta al giudizio più esatto, e quindi "definitivo"). Tiberio e Claudio, un tempo considerati degni d’attenzione solo in quanto esempi classici di tiranni – perfido e doppio il primo, sciocco e debole l’altro – vengono ora riguardati ben diversamente. Ci si è resi conto della sostanziale tendenziosità delle fonti antiche di parte senatoria, interessate a presentarli alla posterità sotto una luce negativa; Tiberio, anzi, da alcuni storici delle ultime generazioni è stato giudicato come uno dei più grandi imperatori che Roma abbia avuto.

Le azioni umane sono meno difficilmente valutabili dei sentimenti, e ciò spiega come, ad esempio, nella letteratura – soprattutto contemporanea – nomi lungamente ignorati balzino improvvisamente alla ribalta, ed altri – già celebratissimi – cadano quasi nell’oblìo. Ma, sia pure in misura minore, ciò si è dimostrato vero anche per gli oggetti di studio della storiografia. Nel caso citato dell’imperatore Teodosio, nel complesso assistiamo a un considerevole ridimensionamento operato dalla moderna storiografia, mentre non solo ai suoi tempi, ma ancora in anni a noi vicini la maggioranza degli storici tendevano a presentarlo come uno dei più significativi ed abili sovrani della storia romana.

Ma lo storico non è solo studioso della storia, è egli stesso strumento riflesso della storia – e in parte perfino modificatore di essa, se è fortunato. Che dire, dunque, dell’alterna fortuna toccata all’opera di un Robertson, storico scozzese della fine del ‘700, celebratissimo ai suoi tempi, e ora sminuito e quasi messo in disparte dalla critica attuale? Tuttavia, l’aspetto più irrazionale e soggettivo della critica storica è che essa non avanza necessariamente verso una progressiva obiettivazione degli oggetti del suo studio. Per sapere se le critiche odierne mosse a Teodosio nel campo della politica militare, religiosa o finanziaria siano giustificate, non possediamo tutti i dati necessari; né sembra che potremo mai disporne. E personalmente, chiunque potrà dissenire dalla stroncatura operata da una larga parte della ritica contemporanea sull’opera storiografica del Robertson. L’opinione di chi scrive è anzi che la fama di cui godette in vita fu tutt’altro che immeritata.

Abbiamo citato solo alcune situazioni, nelle quali maggiormente appare il fattore soggettivo e talvolta arbitrario, insito in qualsiasi ricostruzione storiografica. Ma ve ne sono molte altre, ed è necessario esaminarle con attenzione.

Tutti gli studiosi di storia concordano nell’indicare come un grave errore di prospettiva il voler giudicare, più o meno consciamente, persone, situazioni, fatti e processi storici alla luce della mentalità, delle acquisizioni e dei pregiudizi del proprio tempo. Pensiamo non vi sia quasi nessuno disposto a sostenere il contrario. Ma quanti si sono posta la domanda se ciò, nella pratica, sia umanamente conseguibile? Non giudicare la storia con gli occhi del proprio tempo significa ritenere di poterla giudicare con quelli del periodo passato preso in esame, o almeno tentare di farlo. Ma ciò è veramente possibile? Non solo lo storico, come uomo e come pensatore, è necessariamente imbevuto di preconcetti e prevenzioni, che sono dovuti in parte al suo carattere, in parte al suo tempo; non solo egli ben difficilmente riuscirà, anche col più grande e sincero sforzo, a spogliarsene; ma come potrà penetrare nel costume, nella mentalità, nei pregiudizi e nei preconcetti di un lontano periodo della storia e di una diversa società? Quelli anteriori di poche generazioni potrà intuirli o immaginarli; e forse non andrà troppo lontano dal vero. Egli dispone di testimonianze abbastanza recenti e tutto – per così dire – sotto la superficie, gli parla ancora di quel vicino passato, solo ch’egli sappia affinare lo sguardo. Ma come potrà evitare che le sue idee, il suo modo di pensare, di agire, di vivere – che rientrano inequivocabilmente in un contesto sociale – gli falsino la prospettiva quasi a sua insaputa? E, peggio ancora, come potrà ricostruire tutti codesti fattori immateriali della vita, qualora la sua ricerca si rivolga ad una società lontana nel tempo? L’uomo dell’elettricità, del telefono, dei satelliti artificiali e dell’informatica, quante probabilità possiede di "rivivere", non diciamo i contenuti della civiltà egizia faraonica o di quella ebraica pre-cristiana, ma anche soltanto di quella europea del feudalesimo, o del Rinascimento, o della Riforma?

Quando ci capita fra le mani un libro di storia, ad esempio quello del Burckhardt, intitolato L’età di Costantino il Grande, la prima cosa che dovremmo chiederci è: di che cosa tratta veramente quest’opera? Dell’età di Costantino il Grande, o non piuttosto di quell’età filtrata attraverso l’ottica del XIX secolo? O, addirittura, semplicemente del XIX secolo e di ciò ch’esso s’immagina essere stata l’età di Costantino il Grande? Anzi, un certo angolo prospettico particolarissimo del XIX secolo (ma è lecito parlare di XIX secolo come un tutto omogeneo) che guarda un certo angolo particolarissimo dell’età di Costantino il Grande, o quel che crede essere stato tale. Infatti le idee che noi ci formiamo intorno a una data età della storia soggiaciono a una duplice pregiudiziale: l’una involontaria, dovuta al tempo che senza discriminazione distrugge o conserva una certa quantità di documenti e testimonianze; l’altra volontaria, dovuta agli uomini che intenzionalmente hanno fatto parlare solo un determinato aspetto del loro tempo (quando non se lo sono inventato addirittura) e ne hanno messi a tacere tutti gli altri. Ad esse, poi, si aggiunge una terza pregiudiziale: la nostra, che inconsciamente ci porta ad abbracciare quell’aspetto del passato che coincide con i nostri pregiudizi e soddisfa i nostri sentimenti; onde tendiamo a scartare o a trascurare gli aspetti che da essi differiscono, e ad avvalorare e ingigantire quelli che ad essi rispondono.

Non diversanìmente si comporta lo stratega che, nell’imminenza della battaglia, quando sta ormai per dare inizio alla manovra lungamente studiata a tavolino, e riceve dei rapporti eseguiti dalla ricognizione che lo mettono in guardia contro una mossa inattesa dell’avversario, per incapacità di adeguarsi alla nuova situazione sottovaluta le informazioni dell’ultima ora e attribuisce maggior credito a quelle – magari scarse e incerte – che sembrano confermare la sua antica concezione. Di simili casi se ne possono contare a centinaia nella storia militare. Voler far coincidere la realtà coi propri desideri: non è questa, forse, una tendenza costante dell’animo umano?

"Gli uomini (dice un’antica sentenza greca) sono tormentati dalle opinioni che hanno delle cose, non dalle cose stesse." (Michel de Montaigne), Saggi, cap. 14, XIV, Milano, 1970 vol. 1, p. 60).

Perché dunque lo storico dovrebbe sfuggire a una universale disposizione della natura umana? Benchè tutte le teorie storiografiche insegnino che ogni conclusione deve essere sostenuta dai fatti, esistono molti sistemi – e quasi tutti inconsci – per scantonare l’ostacolo. Anzitutto, è possibile operare una scelta parziale dei "fatti", che, in sé stessi, non dicono nulla (nella misura in cui non sono direttamente vissuti: ma allora non se ne può fare storia), e farli parlare nella maniera che desideriamo. Tacere certe verità, sostenerne alcune altre altre in certe situazioni e con certe mète, è una delle tecniche della distorsione dell’informazione ben note al giornalismo e alla pubblicistica di parte. Senza mentire materialmente, esistono mille e mille sfumature di travisamento della realtà, volontarie e no. Lo storico non soltanto è un riflesso (anche quando voglia, con tutte le sue forze, opporvisi) della mentalità del proprio tempo; è anche – molto più semplicemente – un uomo che mente, desidera e rifugge con la sua pura istintività primordiale. Si ha un bel dire che lo studioso deve spogliarsi dei propri affanni, delle proprie passioni, di tutto ciò che possa offuscare una visuale libera e distaccata dell’oggetto dei suoi studi: nella realtà non potrà mai riuscirvi del tutto.

Gli esseri umani si formano delle convinzioni sulla base delle proprie esperienze e delle proprie reazioni, non sulla base dell’osservazione spassionata della realtà circostante: anche e soprattutto i filosofi. Una delle forme di distorsione mentale più indisponente è quel tipo di malinteso psicologismo per cui le speculazioni e le azioni degli uomini vengono "spiegate" risalendo alla loro matrice caratteriale. Bertrand Russell, per esempio, ha scritto che

"Schopenhauer era incapace, per carattere, di essere felice, e quindi dichiarava che la felcità non poteva essere raggiunta. Verso la fine della sua esistenza meditabonda, la sua opera ottenne dei riconoscimenti e le sue condizioni finanziarie divennero un po’ più facili, il che lo portò subito ad essrre un po’ più allegro nonostante le sue teorie." (Bertrand Russell, La saggezza dell’Occidente, Milano, 1978, vol. 2, pp. 120-21).

Come se in ciò vi fosse una stranezza, o una contraddizione! Esiste forse un complesso d’idee, un modo di affrontare un problema, una filosofia dell’uomo che non siano stati concepiti sotto l’impulso diretto e immediato del carattere individuale? Il pessimismo costituzionale di Schopenhauer è alla radice della sua filosofia, come la frustrazione e la malattia lo sono nel caso di Leopardi, o di Nietzsche; come il controllo delle passioni nel caso di Spinoza o di Hume, o l’angoscia esistenziale in quello di Kierkegaard. Ma queste situazioni contingenti non hanno fatto che fungere da "occasioni" per consentire ai rispettivi pensatori la costruzione dei loro sistemi filosofici. Perciò, affermare che la sfortunata vicenda umana di Leopardi originò la sua visione del mondo, è vero ed è falso al tempo stesso, ma soprattutto è meschino. Tutte le grandi costruzioni del pensiero prendono le mosse dalla terra e dalla carne, dal groviglio delle passioni e dei sentimenti – ma poi si elevano al di sopra delle circostanze contingenti che le hanno viste nascere, e pervengono alla dimensione della universalità.

Il caso dello storico è analogo. Quella vena di sconsolato, amaro pessimismo che attraversa come un fremito le pagine – apparentemente così distaccate – della Storia d’Italia del Guicciardini, sarebbe stata avvertibile se la vicenda personale di quello storico non avesse conosciuto i rovesci e gli insuccessi della fortuna? La risposta è no: ma si tratta di quel genere di domande che non ha molto senso porsi, perché la risposta non ha in nessun caso un valore assoluto. Ciò che tuttavia distingue lo storico dal romanziere o dal poeta, è che l’oggetto del suo studio essendo una concreta, benchè lontana, realtà umana (e non il libero ondeggiare di creazioni della fantasia) l’obiettività della ricostruzione evidentemente ne risulterebbe alterata se questi ultimi prevalessero.

Quanto al filosofo, se egli ritiene l’oggetto delle proprie meditazioni più prossimo a quello delle matematiche – come sembra fare il Russell – necessariamente l’intrusione di elementi personali dovrà apparirgli come un deprecabile rigurgito di irrazionalismo soggettivo; se invece più vicino a quello del Logos non ridotto alla sola logica formale, ma aperto a una dimensione super-razionale (e non irrazionale), come noi crediamo, la cosa gli apparirà del tutto naturale. Ma tornando allo storico, da queste conclusioni si può vedere come la pretesa di una scientificità della ricostruzione storica ne esca duramente provata. Quale storico, infatti, è stato mai capace di spogliarsi dei propri sentimenti, prima di accingersi allo studio di un’età passata?

Non si tratta solo (ciò sarebbe poca cosa) della possibilità di "simpatie" o "antipatie" istintive nei confronti di uomini e fatti, di comprensione o intolleranza verso oggetti lontani nel tempo. Ma è soprattutto il carattere profondo dello studioso che impone in partenza un certo ristretto, soggettivo, arbitrario – se si vuole – punto di osservazione. E, di conseguenza, tutta una serie di atteggiamenti mentali, spesso di natura inconscia o semi-conscia, che non è in suo potere di controllare o reprimere. Sono tutti problemi che non si pongono, evidentemente, o che si pongono in misura minima, nelle varie forme di ricerca fisico-matematica; ma, nella storiografia, appaiono inevitabili già a prima vista. E allora? Allora non resta che accettarli, senza recalcitrare inutilmente, senza deprecare vanamente: e riconoscere, con sguardo lucido e disincantato, la vera natura della storiografia. Che non è "inferiore" alle scienze naturali o a quelle matematiche, a cagione del fatto che non consente l’applicazione di metodi di lavoro strettamente "scientifici". È semplicemente diversa, richiede ed esige un diverso metodo d’approccio in riconoscimento della sua natura autonoma.

Tuttavia, molti studiosi continuano a sostenere la pretesa di una storiografia sostanzialmente "scientifica" e, nel far ciò, si aggrappano al "documento", perno del grande mito dell’obiettività; e sembra loro che, attenendosi strettamente ad esso e utilizzandolo imparzialmente, senza preconcetti, evitandole conclusioni precipitose, la loro "scienza" abbia trovato finalmente la bussola capace di guidarli indenni attraverso le tempeste del soggettivismo arbitrario. Non vogliamo certamente negare che un atteggiamento di sincerità e buona fede costituisca la necessaria premessa a qualsiasi ricostruzione storiografica. Ma guai a lasciarsi sedurre dalle chimere del "documento" puro, visto come un’àncora di salvezza contro le opposte e arbitrarie interpretazioni: insomma, il documento che parla da solo.

Nessun documento "parla da solo"; non ha vita propria, ed è lo storico a farlo parlare. Marc Bloch paventava i risultati negativi sia delle interpretazioni storiche senza documenti, sia dei documenti privi d’interpretazione. A suo giudizio, il pericolo di "uno scisma tra la messa in opera e la preparazione" è sempre presente. Esso, infatti,

"colpisce duramente i grandi tentativi d’interpretazione. Questi non solo vengono meno, in tal modo, al primo dovere della veracità pazientemente ricercata; ma privati inoltre di quel perpetuo rinnovamento, di quella sorpresa sempre rinascente, che solo la lotta con il documento può procurare, non riescono a sfuggire a un’oscillazione incessante tra pochi temi stereotipi imposti dalla routine. Il lavoro tecnico ne soffre però altrettanto. Non più guidato dall’alto, rischia di appigliarsi indefinitamente a problemi insignificanti o mal posti. Non v’è peggior sciupìo di quello dell’erudizione, quando gira a vuoto, né superbia peggio giustificata dell’orgoglio dello strumento che si consideri fine a sé stesso."

Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico,

Milano, 1975, pp. 85-6.

Ma quando poi il Bloch passa ad esaminare i criteri per una corretta interpretazione del documento, ci si accorge rapidamente che i soli timori ch’egli nutriva erano quelli relativi alla possibilità di falsificazioni volontarie o involontarie, e tutta la vasta gamma intermedia che corre fra codesti due estremi. Il vero problema, invece, a noi sembra un altro: il materiale documentario a nostra disposizione è stato infatti precedentemente selezionato, e le fonti che non ci sono giunte non avranno mai il modo di controbilanciare il concerto uniforme di quelle della parte avversa.

Per fare un esempio, la Firenze borghese del 1378 ha avuto i suoi cronisti che si sono scagliati contro i Ciompi, tramandandone le azioni alla posterità sotto una luce nefanda; ma i vinti, come sempre accade, non hanno potuto quasi lasciare il ricordo dei loro argomenti e delle loro ragioni.

"Il tumulto dei Ciompi (…) è descritto in modo variamente accurato in molte cronache o memorie. Queste cronache sono state pubblicate in tempi diversi e sucessivamente raccolte e ripubblicate in un’unica edizione, tra il 1916 e il 1934, da Gino Scaramella, sotto il titolo di Il tumulto dei Ciompi, cronache e memorie. Delle cronache e memorie di questa raccolta soltanto una è scritta da una persona le cui simpatie erano dalla parte del popolo lavoatore, dalla parte dei Ciompi."

Victor Rutenburg, Popolo e movimenti popolari

nell’Italia del ‘300 e ‘400, Bologna, 1971, p.373.

E i documenti ufficiali? Tutti espressione del vincitore: atti, registri, ecc., anche se talvolta depongono inconsapevolmente — per la nostra sensibilità moderna – contro i loro autori. La voce del vinto ordinariamente viene soffocata e ridotta al silenzio per sempre. Chi ha narrato la guerra contadina tedesca del 1525 dalla parte dei contadini? Chi la conquista delle Americhe dalla parte degli indigeni? Quando la disfatta è totale, solo miseri frammenti di scarsa utilità sopravvivono a testimoniare il dramma dei vinti. È vero che in tempi moderni ciò è stato molto meno frequente che in passato. I comunardi parigini hanno potuto narrare la loro epopea: nel maggio 1871 essa veniva soffocata in un bagno di sangue; e già in novembre, a Neuchatel, veniva pubblicata La troisième defaite du proletariat française di Benoit Malon. Tuttavia, gli archivi parigini e i documenti ufficiali erano irrimediabilmente preclusi agli storici della Comune.

Da una parte, dunque, il documento non parla se lo storico non lo fa parlare, cioè lo interpreta alla luce dell’esperienza accumulata in base ad alri documenti; dall’altro, il documento è cieco, ed è compito dello storico inserirlo in un contesto organico e unitario. Il pericolo della vuota erudizione – come ammoniva il Bloch – è sempre presente. Come difendersi da esso? Dobbiamo qui introdurre la complessa questione della storia filosofica, che a tante polemiche ha dato luogo in passato, evitando tuttavia di ripercorrerne tutta la storia.

È ovvio che una filosofia della storia, consapevole o, più spesso, empirica e inconscia, sta sempre alle spalle di qualsiasi ricostruzione storiografica. Ogni qual volta lo storico faccia uso di termini come "causa", "caso", "fortuna", "libertà", "destino", egli – più o meno consapevolmente – entra nel campo controverso di una visione filosofica della storia. Talvolta la sua posizione in proposito appare contraddittoria, come nel caso di Tacito. Talaltra, l’uso di una tale terminologia rivela soprattutto la confusione mentale dello storico, come sembra accadere a Procopio di Cesarea. Altre volte, infine, esso non è che una stonatura, un’intrusione di concetti non ben meditati, magari sulla scia di una pedissequa imitazione dei modelli classici – come è possibile trovarne traccia, a nostro giudizio, in W. H. Prescott.

"E’ uno dei tanti esempi [la battaglia di Otumba fra Spagnoli e Messicani] di come la Fortuna intervenga a determinare le sorti di un’operazione bellica. La stella di Cortés era in ascesa. Se fosse stato altrimenti, non uno Spagnolo sarebbe sopravvissuto, quel giorno, per raccontare la storia della battaglia di Otumba." (William Hickling Prescott, La conquista del Messico", libro V, cap. IV: Roma, 1977, p. 348).

Il concetto di "stella in ascesa" che rende favorevoli gli eventi è talmente gratuito e grossolano che dispiace alquanto, nel contesto di un’opera storica di indubbio valore. Una concezione altrettanto vaga e nebulosa si può riscontrare nell’opera dello storico bizantino Procopio (VI secolo d. C.):

"A questo punto del mio racconto m’è venuto di pensare in che modo la Fortuna si faccia beffe delle cose umane: non si comporta con gli uomini alla stessa guisa né li guarda con gli stessi occhi, ma cambia coi tempi e coi luoghi e gioca con loro uno strano gioco, alterando, a seconda del momento, del luogo e dei modi, la condizione di quei poveracci. Ecco che Bessa, che prima aveva perduto Roma, aveva poco dopo recuperato ai Romani Petra nella Lazica, e per converso Dagisteo, che aveva abbandonato Petra ai nemici, riprese in breve tempo, per l’imperatore [Giustiniano], il possesso di Roma. Ma così è accaduto da che mondo è mondo e così accadrà sempre, finchè sarà la stessa Fortuna a reggere gli uomini." (La guerra gotica, libro IV, cap. 33, Roma, 1974, pp. 417-18).

Ora la questione è, a nostro modo di vedere, se sia possibile utilizzare un qualsiasi documento in assenza di una visione globale, di una concezione filosofica della storia. "Il compito dello storico è, in definitiva, la ricerca", si suol dire negli ambienti accademici. Ma la questione, posta in tali termini, appare eccessivamente semplificata. Se fosse soltanto questo, non vi sarebbe alcuna differenza fra lo storico e l’erudito; ed un mediocre, ma paziente e metodico raccoglitore di fatti, potrebbe usurpare il titilo di storico, che ha sempre significato qualcosa di assai più elevato. Non vi è raccolta di fatti che non presupponga – almeno quando è consapevole e intelligente – una visione filosofica del contesto in cui essi vanno organizzati, e delle modalità necessarie a farlo; diversamente, tutta l’impalcatura della storiografia poggerebbe sul vuoto, e la ricostruzione attraverserebbe senza occhi per vedere, né orecchi per udire, tutto il corso tumultuoso del passato.

Abbiamo fin qui contestato la pretesa di una "scienza storica"; vogliamo adesso spingerci ancora più in là, e negare addirittura la possibilità di una disciplina storica sufficiente a sé stessa. Potrebbe sembrare una contraddizione, dopo aver rivendicato l’autonomia della storia dalle scienze. In effetti, strettamente parlando, nessuna disciplina (né scientifica, né d’altro generere) può, a nostro avviso, considerarsi realmente autonoma; nel senso che non esistono discipline capaci di sussitere indipendentemente dalle altre, ma tutte si presuppongono e tutte, in definitiva, confluiscono, perché una è la realtà, e ogni tentativo unilaterale di raggiungerla è destinato al fallimento. La storiografia, in particolare, appare più strettamente interdipendente rispetto ad altri campi della ricerca, dal momento che la storia, riconosciuta vana la sua pretesa ad una "obiettività" di tipo scientifico, presuppone un sostegno capace di sorreggerne la materia, destinata altrimenti ad afflosciarsi in una serie infinita di psicologie individuali. Occorre un filo conduttore, che faccia da tramite fra lo storico e la mutevole materia dei suoi suoi studi; un filo rosso che gli consenta di non smarririsi attraverso una cieca elencazione di accidenti frammentari e isolati. Il che non significa imporre un senso alla storia, né forzarla a nostro arbitrio in una determinata direzione; ma piuttosto conservarsi la possibilità di una misura di confronto nelle svariate e mutevoli situazioni del divenire storico; una chiave d’interpretazione, personale sì, ma non necessariamente arbitraria, per mezzo della quale considerare i singoli fatti nella prospettiva di un contesto infinitamente più vario e complesso.

L’oggetto della storiografia sono i pensierie le azioni umane e sarebbe assurdo accingersi a tentarne una ricostruzione senza disporre di una concezione del mondo – più o meno organica, più o meno approfondita – e di una propria filosofia intorno alla natura dell’uomo. Una simile affermazione farà sobbalzare molti storici, convinti di esercitare un "mestiere" per il quale si richiedono essenzialmente perizia tecnica, metodi d’indagine ben precisi e criteri organizzativi stabiliti una volta per tutte, e inoltre che chi non li possiede o chi non ritiene di considerarli sufficienti all’opera di ricostruzione del passato, vada immediatamente escluso dalla cerchia dei veri depositari della "scienza storica". Per molti di costoro la storiografia sembra consistere in un complesso di pratiche, il cui valore e le cui modalità sono stati stabiliti inequivocabilmente e definitivamente, un regno per soli iniziati cui è precluso l’accesso tanto al profano, come all’eretico. "Chi non accetta le nostre regole – essi dicono più o meno esplicitamente – non può appartenere alla nostra cerchia, non può dirsi uno storico, ma è soltanto un impostore." Ma la storiografia non è affatto una "pratica" dai rituali così rigidamente definiti, com’essi vorrebbero far credere. È qualcosa di più semplice, ma anche di più complesso. Di più semplice, perché i "ferri del mestiere" non richiedono, oltre poche regole fondamentali, una tecnica dallo schema rigido e fisso, e l’insieme degli esoricismi codificato da taluni storici non può vantare alcun diritto di validità universale. Di più complesso, perché sarebbe – in fondo – ben poca cosa, se i suoi orizzonti si esaurissero nel miope e meccanico impiego di quei tali strumenti, che qualunque zelante eruduto potrebbe maneggiare.

Alcuni storici, più che mai convinti della "scientificità" della loro disciplina, ritengono evidentemente che non solo essa richieda un metodo d’indagine inderogabilmente stabilito, ma altresì che lo stile letterario che più le si addice deve . di necessità – essere grave, involuto, magari un po’ oscuro, caratterizzato da un periodare astruso ed ermetico. Secondo costoro la semplicità, l’eleganza e la piacevolezza dello stile sono egualmente sconvenienti e sviliscono la gravità della materia. Convinti di non scrivere per il lettore, ma per la scienza, sovrabbondano di periodi interminabili esprimenti numerosi e diversi concetti, talchè il lettore, che sia giunto quasi alla fine di una frase, si vede costretto a tornare indietro per riagguantare il filo perduto del discorso. Un tipo di ginnastica mentale che, se può essere di qualche utilità per rafforzare l’attenzione e la memoria, irrita però il lettore e lo indispettisce, poiché si sente ad ogni passo ignorato e disprezzato dal dotto depositario del sapere storico.

Abbiamo parlato della necessità di una "filosofia della storia" per ogni storico che si accinga al proprio lavoro; intendiamo ora chiarire meglio questo concetto. Il tempo delle filosofie della storia, intese come organiche costruzioni intellettuali vòlte a individuare un "significato" nella storia, che in definitiva starebbe al di fuori di essa, sembra oggi definitivamente tramontato. Non c’è più nessuno, pensiamo, disposto a ripigliare la vana e immane fatica di Hegel, di Spenglere di Toynbee. Ma se è finita l’epoca delle "filosofie della storia" intese come edifici grandiosi e perfetti, con pretese di validità universale ed eterna, non ne consegue che lo storico possa accingersi al proprio lavoro del tutto sprovvisto di una propria filosofia. La stessa "rivoluzione" che nel corso del XX secolo ha cambiato sostanzialmente le caratteristiche e le finalità della filosofia, non si vede perché non dovrebbe portare un contributo positivo (esaurita la pars destruens) anche alla filosofia della storia. Dopo l’età del positivismo, del decadentismo e dell’esistenzialismo – in cui peraltro stiamo tuttora vivendo – non c’è più un filosofo che oserebbe concepire la propria speculazione alla maniera di Kant o di Hegel. I sistemi metafisici e le sottili disquisizioni dialettiche, più utili nell’uso delle parole che in quello dei concetti, hanno ceduto il posto alla libera riflessione "asistematica", che concepisce la libertà anzitutto come ammissione della legittimità di tutti gli approcci speculativi, ognuno dei quali rispettoso degli altri e consapevole della propria finitezza e contingenza.

Entro questi confini, più modesti ma anche più ragionevoli e suscettibili di fecondi risultati, dovrebbe essere ricondotta anche la filosofia della storia. Uno storico che si accinga a studiare un qualsiasi periodo del passato, sprovvisto di convinzioni personali sulla natura dell’uomo, della società, del divenire e della storia stessa, assomiglia a un soldato che si avvii al fronte di combattimento disarmato. Le sue osservazioni saranno, di necessità, slegate e sconnesse; le sue interpretazioni, incerte o banali; e tutti i suoi sforzi di sistemazione organica della materia peccheranno inevitabilmente di empirismo dilettantesco. I problemi non avranno una precisa collocazione nel contesto della ricostruziome, verranno affrontati in maniera estemporanea e le soluzioni adottate saranno sempre le meno impegnative e le più scontate. Lo storico non deve forzare i fatti e cercar di spingerli a forza entro il quadro delle proprie convinzioni precostituite, ma non deve neppur limitarsi a registrarli passivamente ogni volta che gli cadono in grembo. Deve interpretarli. E, se dispone di una propria filosofia sulla natura di essi, sarà infinitamente agevolato nel proprio lavoro.

"Tutte le tesi storiche sono, appunto, tesi – generalizzazioni che servono soltanto a ordinare razionalmente i fatti documentati." Così scriveva Mario Manlio Rossi, il filosofo pragmatista tendente all’attualismo, e amico di Giovanni Papini; che, nel presentare la sua monumentale opera storica al pubblico, confessava modestamente: "Non sono uno storico. E le mie opinioni di filosofo sulla natura della storia sono eterodosse." (Mario M. Rossi, Storia d’Inghilterra, 4 voll.,Firenze, 1947-1966, vol. I., pp. V, XIII).

La nostra opinione è che ogni storico dovrebbe essere innanzitutto un filosofo: in questo senso abbiamo negato la radicale autonomia della disciplina storiografica. Essa, di per sé, non ha occhi per vedere, né orecchi per udire: o scade al livello di mera erudizione, di ricerca antiquaria (e allora una filosofia della storia non le occorre); oppure deve necessariamente appoggiarsi a una concezione superiore, che la sollevi al di sopra della frammentarietà del contingente. Immersa nel corso incessante del divenire, ha bisogno d’una boccata d’aria pura che le eviti il rischio di ristagnare nei bassi fondali dell’aneddotica o della libellistica.

Così come sono tramontate le filosofie "sistematiche" della storia, del pari sembrano appartenere a un altro tempo i grandi tentativi di sintesi storica. In ossequio alla "scientificità" della storiografia, sono state abbandonate le storie di ampio respiro per limitare sempre più gli oggetti dell’indagine storica, sia nel tempo che nello spazio. Quando le storie sono di carattere ampio, esse sono il frutto della collaborazione di più autori. A sostegno di questo modo di procedere si citano le difficoltà materiali, per il singolo storico, di padroneggiare un campo d’indagine eccessivamente vasto; le inevitabili lacune cui andrebbe incontro; il pericolo di monotone generalizzazioni e di ripetizioni stereotipe. Ma, forse, le vere ragioni del nuovo indirizzo sono, almeno in parte, diverse.

Se la storiografia vuole imitare – a torto o a ragione- il metodo delle scienze, deve far prtoprio il grande idolo di queste ultime: la specializzazione. Così come il fisico non può certo pretendere di far sentire la sua voce nel campo della biologia, anzi il microbiologo deve fare un passo indietro quando si parla di fisiologia generale, così il medievalista deve rientrare nei ranghi allorchè si tratta di storia contemporanea; l’egittologo, poi, si occupi della Sfinge e delle Piramidi e lasci stare la Rivoluzione francese o la politica di Napoleone.

Oltre al grande mito della specializzazione, un’altra ragione, ancor meno nobile, contribuisce al tramonto definitivo delle storie di ampio respiro scritte da un unico autore. Una delle caratteristiche fondamentali del "mondo moderno" (nel senso che attribuiva Julius Evola a questa espressione) è certamente quella della velocità – già esaltata per ragioni estetiche dalle avanguardie, a cominicare dal futurismo; e ora, sotto l’urgenza di cogenti modalità dell’apparato tecno-scientifico, equiparata all’altra grande categoria dell’utile (in senso economico e produttivo). Nella fretta universale che risulta dal binomio velocità-utilitarismo, si direbbe che pubblico e intellettuali abbiano ingaggiato una furiosa guerra per anticiparsi a vicenda, gli uni nel consumare il prodotto culturale, gli altri nel fornirgli sempre nuovi bisogni (artificiali). Tuttoi con l’ororologio sempre alla mano, e con pochissimo tempo da perdere. La cultura è divenuta consumo, come qualunque altro settore produttivo.

In queste condizioni, non c’è più posto per le vaste opere storiografiche scritte da un unico autore. Quando l’autore è uno solo, una è la concezione che sta alla base dell’opera, uno il metodo, una la riflessione. Ma per tutto questo, il lettore-consumatore della modernità non ha più tempo. Ciò che egli chiede è un prodotto di consumo leggero, agile, maneggevole; un prodotto ch’egli possa "accendere" e "spegnere" a piacere, come il televisore o il computer. Per queste esigenze le storie collettive sono la risposta appropriata. Esse constano di singole parti o capitoli, ciascuno dei quali scritto da un singolo autore, e ciascuno dei quali può – di solito – essere letto e compreso indipendentemente dagli altri. L’opera storiografica si è sovente adattata alle esigenze del mercato e si è trasformata in un prodotto di consumo. Il pubblico, a sua volta, ha smesso di cercare qualcosa che vada al di là degli orizzonti dell’utile immediato. E così le storie di Gibbon e di Hume, di Mommsen e Gregorovius si coprono di polvere sugli scaffali delle biblioteche, mentre rapide monografie di pronto impiego, infarcite d’incredibili dosi di volgarità e ignoranza, vannno a ruba nelle libererie.

Naturalmente, molte storie collettive sono tutt’altro che cattive, ma il danno che, spesso, ne ricevono la vastità di vedute e lo stimolo alla riflessione personale da parte del pubblico, è notevole.

"E’ inutile nasconderlo: queste imprese collettive sono utilissime in ciascuna delle parti affidate a uno specialista perfettamente informato, ma l’insieme non possiede lo stesso respiro, lo stesso pensiero, l’eguale tendenza, e non forma un tutto come l’opera di un autore singolo, In breve, non si è riusciti a conciliare perfettamente l’erudizione e la sintesi." (Georges Lefebvre, La storiografia moderna, Milano, 1973, pp. 286-87).

Ammissione importante, giacchè viene da un fiero sostenitore del valore dell’erudizione e dell’abbandono della filosofia della storia. Ma è su quel termine, "specialista", che vorremmo ora soffermarci. In effetti il termine "storico", per indicare lo studioso dei problemi di storia, incomincia ad apparire obsoleto. Dal momento che molti studiosi, per i motivi ora accennati, non affrontano più la storia, ma preferiscono circoscrivere quanto possibile il loro campo di ricerca, il termine "specialista" sembra essere molto più appropriato.

In una società dove il produttivismo esasperato investe ogni campo dell’esistenza, e dove tutto il circuito produttivo si fonda su una specializzazione sempre crescente, la storiografia non poteva sfuggire a una siffatta logica. Lo storico tende a identificarsi sempre più con lo specialista, in una figura, cioè, pericolosamente vicina a quella del tecnico, che non si assume la responsabilità di andare oltre la mera raccolta dei fatti — in una parola, con l’erudito. Nel singolo, limitato campo della propria ricerca egli consuma tutte le sue capacità, fino ad accumulare una tale erudizione, da fargli considerare alla stregua di un’indebita ingerenza ogni "violazione" della sua specialità da parte di uno studioso più completo, ma meno preparato in quel suo campo specifico. Certo, c’è bisogno anche degli eruditi; la loro opera è utilissima, anzi indispensabile: ma non chiamiamoli storici! Con la mentalità della specializzazione a oltranza, molti di essi hanno creduto di poter fare a brani l’oggetto della storiografia, ciascuno portandosene via un pezzetto e difendendolo con le unghie e coi denti contro ogni antagonista. La loro miopia culturale è direttamente proporzionale alla ingiustificata superbia che ostentano verso i "non addetti ai lavori". Spartito in colonie e e protettorati il campo della ricerca storiografica, ogni "sconfinamento" è giudicato come una violazione delle rispettive sfere d’influenza, cioè poco meno che una dichiarazione di guerra.

È vero: ogni opera di ampio respiro presuppone — come ha osservato qualcuno — una considerevole dose di ignoranza. Ma non è molto più deleteria l’ignoranza di chi si appaga del proprio angolino di sapere, e chiude gli occhi davanti a tutto il resto? È stato detto che il mestiere di storico non consiste nella conoscenza di tutta la storia, ma degli strumenti necessari per ricostruirne questo o quell’aspetto; ed è vero. Tuttavia, la conoscenza degli strumenti presuppone la conoscenza del fatto che il tipo di fonti varia da un’epoca all’altra, e varia la prospettiva in cui i documenti, le parole e le immagini venivano concepiti e utilizzati. Le cattedrali del Medio Evo, per fare solo un esempio, contenevano tutto un sistema di messaggi scolpiti nella pietra, o insiti nelle strutture architettoniche, che l’uomo medioevale poteva comprendere perché ne possedeva il codice, ma che oggi tendono a occultarsi allo sguardo dell’uomo "moderno". Quindi lo storico non può prescindere da una discreta conoscenza della storia umana nella sua globalità — salvo poi specializzarsi, in pratica, in un determinato campo d’indagine.

Non si creda, peraltro, che la super-specializzazione vada esente da quel pericolo di fraintendimento, dovuto alla mancata conoscenza dei codici comunicativi (spesso impliciti) di altre epoche e altre culture. Nemmeno la ricerca "sul campo" può eliminare il rischio di gravi fraintendimenti, come ben ha imparato, a sue spese, l’antropologia. Può succedere che degli studiosi vivano a lungo fra popoli di cultura tradizionale, e non ne comprendano aspetti essenziali. Tipico il caso di quei missionari protestanti che, dopo un soggiorno di vari anni presso gli Yàmana della Terra del Fuoco, avevano riportato la convinzione che quel popolo fosse privo del concetto di un dio supremo, autore e custode delle cose esistenti: convinzione rivelatasi poi completamente erronea. E se questo può accadere nello studio attuale di una diversa civiltà, si pensi a quali equivoci va incontro lo studioso di lontane età della storia. Insomma, lo storico deve essere consapevole che non potrà mai penetrare l’essenza profonda dei lontani oggetti del suo studio; ma questa riflessione, non che uno spirito di scoraggiamento e di rinuncia, può servire a stimolarlo a una ricerca disinteressata e serena, sgombrando il campo dalle false sicurezze e dalle assurde presunzioni di chi, sentendosi "scienziato", persegue una impossibile obiettività.

Per queste ragioni ci sembra che la storiografia si presenti essa stessa come un campo di ricerca più fecondo della storia stessa. Avevamo citato, più sopra, il caso di uno studio come L’età di Costantino il Grande di Burckhardt; concludendo che il suo autore non avrà potuto penetrarne il "senso" profondo. Per fare un esempio: come interpretare le sanguinose lotte fra le diverse sette cristiane, che si accusavano l’un’altra di eresia, quando non possiamo sapere fino a che punto le sottile diatribe teologiche non fossero che un travestimento di profondi e concreti malesseri sociali? Eppure, un libro come quello di Burckhardt è esso stesso un vero capitolo di storia: la storia di un certo pensiero storico del XIX secolo, che nell’Occidente europeo si pone il problema d’interrogare la lontana società romana del IV secolo dopo Cristo. Il suo approccio alla materia è tipico e inconfondibile di quel dato momento storico e di quella società: al punto che lo storico un po’ esperto (proprio come lo studioso di storia dell’arte) potrà riconoscere dalla lettura di poche pagine, quand’anche ne ignori l’autore, se ha di fronte l’opera di uno storico del 1700, del 1800, del primo o del secondo Novecento, e così via.

Sul piano delle certezze, in conclusione, occorre fare una netta distinzione fra storia e storiografia. Quando ci si pone la domanda: "Potremo mai sapere cosa fu realmente l’età di Costantino il Grande?", l’unica risposta ragionevole sembra essere: "No: ma possiamo tentarne delle interpretazioni, sapendo che saranno comunque condizionate dal nostro particolare punto di vista." Ciò non significa rinunciare del tutto a penetrare l’essenza della storia (che è la posizione, rispettabilissima, di Huizinga), ma accettare la sua realtà di disciplina non scientifica, dunque sempre elusiva e sfuggente. D’altra parte, se consideriamo l’opera storiografica di un determinato autore come un capitolo del divenire storico, potremo finalmente lasciare il campo delle ipotesi ed entrare sul solido terreno dell’esperienza diretta. Non ci sarà mai dato sapere se l’idea che ci siamo fatta della decadenza e caduta dell’Impero Romano si avvicini sufficientemente alla realtà. Ma è in nostro potere il fatto di sapere, con un discreto grado di certezza, quali furono in proposito le idee delle età successive. In questo senso, le Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence di Montesquieu, o la History of the Decline and Fall of the Roman Empire di Gibbon, costituiscono delle testimonianze di prima mano sulla natura e le prospettive della storiografia illuminista. Come tentativi di comprensione effettiva e chiarificatrice di fatti lontani, quelle opere, probabilmente, non raggiunsero lo scopo; ma inestimabile è il loro valore come testimonianze del pensiero storico del XVIII secolo in Europa occidentale.

A livello filosofico generale, la conclusione di tutto questo ragionamento è che forse non capiremo mai chi fu Annibale, ma quel che di Annibale pensarono i posteri; non sapremo forse mai che cosa è la storia, ma potremo analizzare cosa sia la storiografia. Può apparire paradossale, invece è l’unico punto fermo che ci abbia lasciato la cultra moderna: la storia non è, a ben guardare, la conoscenza dei fatti umani passati, bensì quello che su di essi gli storici hanno pensato e scritto. Non il passato, ma l’insieme degli studi sul passato. E forse, senza troppo scomodare l’esse est percipi di Berkeley o il noumeno di Kant, questa salutare lezione di umiltà si può estendere anche agli altri campi del cosiddetto sapere (pena, il cadere nel pretenzioso non-sapere di cui parlava Jaspers). Così, l’oggetto della biologia non sono le forme e le leggi della materia vivente, ma l’insieme delle nostre conoscenze in proposito; l’oggetto della psicologia non sono i meccanismi della psiche umana, ma quel che noi sappiamo, o crediamo di sapere, in proposito; e così via. Non le cose, ma le nostre opinioni — temporane e e mutevoli — su di esse. Andare al di là, significa chiedere troppo alle nostre capacità di comprensione, specialmente se ci affidiamo alla guida esclusiva del pensiero logico-matematico – che, infatti, non ci dice nulla sulla realtà delle cose, ma solo sulla loro coerenza logica: tanto che possiamo immaginare una serie innumerevole di universi paralleli, ciascuno con le sue diverse dimensioni spazio-temporali e con la sua logica intrinseca. Tutti, quindi, perfettamente plausibili e possibili ma, ahimé, tutti esclusivamente ipotetici.

Forse, per penetrare oltre l’apparenza delle cose, è necessario — come insegnano secoli e millenni di saggezza orientale — un salto su di un diverso piano di consapevolezza, che presuppone un altro tipo di rapporto col reale e un altro tipo di strumenti conoscitivi. Ma qui la storia deve fermarsi, perché — da un punto di vista strettamente logico-aristotelico (basato cioè su una ipertrofia del princìpio di non contraddizione, che semplifica eccessivamente la complessità del reale) gli uomini, come osservava malinconicamente Francesco Guicciardini, "sono al buio delle cose".

  1. [IL PROBLEMA DELL’OBIETTIVITA’ STORICA.**

Vogliamo adesso affrontare uno dei problemi più importanti e discussi in sede storiografica: quello dell’obiettività dello storico. Su di esso fiumi d’inchiostro sono stati versati — senza che, in definitiva, si sia giunti a una definizione soddisfacente dei termini in cui porlo. Eppure esso sembra avere tutte le caratteristiche di un falso problema, intorno al quale solo la mancanza di buona fede sembra possa impedire che si giunga a una conclusione universalmente accettabile.

A prima vista si potrebbe pensare che la rigida applicazione di metodi il più possibile scientifici, la "nuda esposizione dei fatti" auspicata da un Ranke, l’esclusione di ogni indebita inferenza personale dello storico dovrebbe offrire le maggiori garanzie di obiettività alla storiografia. Ma è lecito domandarsi se sia mai possibile seguire tali criteri nella pratica; e, anche potendolo, se ciò che ne risulterebbe sarebbe ancor degno del nome di storiografia. Una "nuda esposizione dei fatti" si ridurrebbe a un muto caleidoscopio, senza nessi né legami intelligibili. Abbiamo del resto già veduto che i fatti non parlano da soli, non dicono nulla se non quando vengono interrogati: e possono esserlo solo soggettivamente. Osserva in proposito il Carr:

"Si suol dire che i fatti parlano da soli: ma ciò è, ovviamente, falso. I fatti parlano soltanto quando lo storico li fa parlare: è lui a decidere quali fatti debbano essere presi in considerazione, in quale ordine e in quale contesto. Un personaggio di Pirandello, mi pare, dice che un fatto è come un sacco: non sta in piedi se non gli si mette qualcosa dentro." ( E. H. Carr, Op. cit., p. 15).

Lo storico, dunque, deve utilizzare i fatti; ogni ricerca storica presuppone una serie continua di scelte, una selezione tra gl’innumerevoli fatti di cui ci è giunta testimonianza. Naturalmente la sua selezione, essendo inevitabilmente di natura empirica, non va esente dal pericolo di arbitrarietà; e questo è il primo colpo alla pretesa di una "obiettività" pseudo-scientifica nella storiografia. In secondo luogo, una storiografia che voglia essere tale deve, di necessità, proporsi la ricerca delle "cause" o, per usare un termine più blando, delle ragioni profonde dei diversi fatti, e ciò non è evidentemente possibile qualora ci si voglia limitare a narrare le cose "così come sono andate", e basta.

In una simile contraddizione si dibatteva il pensiero storico di Croce, a un dato momento della sua riflessione:

"La storia ha un solo scopo: narrare dei fatti; e quando si dice narrare dei fatti, s’intende anche che i fatti debbono essere esattamente raccolti e mostrati quali sono realmente accaduti, ossia ricondotti alle loro cause e non già esposti come possono esteriormente apparire all’occhio inesperto. Questo è sempre stato l’ideale della buona storiografia di tutti i tempi." (Benedetto Croce, Il concetto della storia nelle sue relazioni col concetto dell’arte, Roma, 1986, pp. 32-33).

Ove si avverte subito che il filosofo di Pescasseroli maneggia inavvertitamente due concetti ben diversi e, anzi, addirittura contrastanti: quello di "narrare dei fatti" e quello di "ricondurli alle loro cause"; concetti la cui linea di separazione è data proprio dalla vexata quaestio della possibilità di una storiografia obiettiva. Ricercare le cause degli avvenimenti storici è di necessità opera d’interpretazione dei fatti: ecco che l’esposizione del "nudo fatto" non basta piùù. Con quale criterio discernere le vere cause degli avvenimenti storici, e separarle dalle cause fittizie o apparenti? Questione, appunto, d’interpretazione: e non v’è interpretazione che non sia personale, soggettiva; quindi, vano sarebbe attendersi una concordia da parte degli studiosi nelle loro varie interpretazioni di una medesima causa o di un medesimo fatto. Ciò dimostra la non scientificità della storia: differenti scienziati, infatti, partendo da analoghi presupposti metodologici, devono pervenire ad analoghe conclusioni. Nel campo della geometria euclidea, per fare un esempio, il teorema di Pitagora è sempre vero: dato un qualsiasi triangolo rettangolo, il quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti. Nel campo della storiografia, al contrario, pur disponendo (ammesso e non concesso che ciò avvenga) degli stessi dati di partenza, per esempio dei documenti relativi alla situazione politica, economica, sociale e culturale dell’Europa nel giugno-luglio 1914, l’indivduazione delle cause dello scoppio della prima guerra mondiale non coinciderà mai del tutto fra due diversi storici. Di più: non vi è accordo di massima neppure sulla irrimediabilità di quanto accadde dopo la fine di luglio (da conflitto locale austro-serbo a guerra mondiale), poiché alcuni storici giudicano che solo un concorso di cicostanze fortuite condusse le diplomazie europee ad imboccare la via della guerra generalizzata, che altre volte era stata evitata e che avrebbe potuto esserlo anche allora.

Naturalmente, un atteggiamento di onestà intellettuale è la conditio sine qua non richiesta allo storico che si accinge al proprio lavoro, particolarmente nella interpretazione dei fatti e nella ricerca delle loro cause. E tuttavia, sembra lecita una domanda: fino a che punto si può parlare di imparzialità, quando lo storico abbia abbracciato a priori una determinata visione della storia, che di necessità lo porta a interpretare in funzione di essa ogni singolo evento? L’adesione a una ideologia piuttosto che a un’altra – politica, sociale, filosofica – non nuocerà irrimediabilmente alla serenità e all’equanimità della sua ricerca?

Vogliamo chiare bene questo punto. Non si pone la questione se uno storico, come uomo e anche come studioso, non abbia diritto a delle convinzioni politiche, sociali, filosofiche personali (questione alla quale non si può rispondere se non in modo affermativo); ma quella se egli abbia il diritto di interpretare sistematicamente i fatti della propria indagine alla luce di una teoria precostituita, per sua natura univoca e quindi, tendenzialmente, parziale e perfino sviante. È una questione difficile, alla quale non è possibile dare una risposta esauriente e definitiva. In generale sembra indubbio che la passionalità politica, traboccando – nello storico – dal piano delle convinzioni a quello della ricerca, si trasforma in parzialità, con pregiudizio innegabile per l’equanimità della fase interpretativa. E tuttavia, è mai possibile tracciare una chiara linea di separazione tra l’uomo e lo studioso, ed evitare che le pur legittime convinzioni personali influenzino la visione dei fatti e l’imparzialità dei giudizi?

La nostra opinione è che tale linea di separazione, benchè spesso tenue e confusa, esista; ma procedere nel mestiere di storico senza perderla mai di vista richiede delle doti non comuni di pacatezza e autocontrollo. In teoria non è impossibile all’ homo politicus affrontare la storia da un suo punto di vista, e tuttavia senza lasciarsi condizionare da rigidi preconcetti, anzi conservando un senso di sostanziale rispettosità per la materia considerata. La quale è, di per sé stessa, "neutra", non dimostra nulla se non nella visuale particolare di chi la osserva; nella storia non esistono verità auto-evidenti. Quanto allo storico, in lui la serenità dello studioso dovrebbe sempre prevalere sulla passionalità dell’uomo. Ma siamo, come ognun vede, nel campo delle petizioni di principio e delle buone intenzioni. Aderire a una determinata ideologia, vuol dire anche inforcare le lenti di un determinato colore: dopo di che, il mondo apparirà di quel colore piuttosto che di un altro, a piacer nostro. Il margine che separa lo studioso "impegnato" dal fanatico bigotto e intollerante diverrà, allora, pericolosamente ridotto e incerto. Ora, rimane sempre valida la famosa distinzione operata dal Valiani fra "ortodossia preconcetta" e "tendenziosità politica":

"Di massima, lo storico deve rifuggire dall’una come dall’altra; ma se la prima ha generalmente l’effetto di renderlo meno perspicace, la seconda può anche avere, come l’esempio di molti storici celebri dimostra, l’effetto opposto. Può averlo nella misura in cui lo storico non considera le proprie tendenze politiche come la preordinata attuazione nella storia di un disegno o di una legge di cui egli è a conoscenza, ma semplicemente come una fede che non può non sentire, ma che sa di dover controllare." (Leo Valiani, Questioni di storia del socialismo, Torino, 1975, p. 302).

Tuttavia, a costo di attirarci l’accusa di qualunquismo, vogliamo ribadire il concetto che la migliore premessa allo studio della storia (e non solo della storia) sembra essere una visione ampia, articolata, elastica, non settaria né dogmatica, in campo politico e sociale così come in quello filosofico. In questo senso abbiamo parlato della necesità, per lo storico, di una sua filosofia della storia; e non certo in quello, ben diverso, anzi addirittura opposto, dell’adozione di criteri interpretativi rigidi e unilaterali, derivanti da una meccanica applicazione di presupposti filosofici che non nascano dallo sforzo sofferto di comprendere, ma dalla esigenza pratica e sbrigativa di aver la risposta pronta, sempre a portata di mano.

La migliore disposizione di spirito per un’equanime ricerca storica sembra dunque consistere in un difficile equilibrio fra l’empirismo con cui ogni singolo problema esige di essere affrontato, e la vasta ma equanime concezione dello storico che inserisce i fatti nel contesto di una visuale ampia e articolata. Ogni "fatto" della storia è un capitolo indipendente che richiede una considerazione autonoma e imparziale; ma è anche espressione di un continuum, di un complesso di circostanze che lo studioso non può ignorare, e nel cui contesto deve anzi collocare il singolo fatto. Qualora l’attenzione dello storico sia esclusivamente rivolta all’aspetto soggettivo, contingente, irripetibile del singolo evento, la storiografia scade nella psicologia o nella "tipologia formale"; qualora essa si lasci dominare da un interesse generalizante e universalistico implicito nell’individualità degli eventi, la storia si tramuta in sociologia e in filosofia. Lo studioso, quindi, deve saper bilanciare la duplice natura della storiografia, sospesa fra la necessità di analisi autonoma dei singoli fatti, e quella della loro connessione reciproca.

Queste osservazioni ci riportano al problema, già sfiorato, della concezione filosofica che lo storico non può non avere nei confronti di concetti basilari quali "uomo", "società", "divenire". Guardare la storia con gli occhi del filosofo offre il vantaggio di una visuale più ampia ed organica; ma presenta, naturalmente, anche il pericolo di una "forzatura" imposta alla materia stessa.

L’opera concreta di quei filosofi che si sono applicati anche alla storiografia offre, in tal senso, alcuni esempi istruttivi. David Hume (autore di una monumentale e celebrata Storia d’Inghilterra dall’invasione di Giulio Cesare all’ascesa di Enrico VII, pubblicata fra il 1754 e il 1762) , per esempio,

"(…) credeva in qualcosa chiamato ‘uomo’, che reagisce nella stessa maniera alle stesse condizioni, e di conseguenza sosteneva che uno studio del passato avrebbe potuto rivelare dei princìpi d’azione validi in tutte le età." ( G. Sampson, The Concise Cambridge History of English Literature, Cambridge, 1949, p. 543; la traduzione è nostra).

Questo punto di vista è forse un po’ troppo riduttivo rispetto al concetto di evoluzione psichica e sembra peccare di eccessivo schematismo: non è affatto certo che i membri di diverse civiltà reagiscano in modo eguale a stimoli simili; anzi non è certo nemmeno che così facciano i membri di un medesimo gruppo umano. Ma, quel che più conta da un punto di vista storico, è che "le stesse condizioni" non si ripresentano mai una seconda volta. In ogni analogia esteriore fra due fatti storici c’è sempre una profonda differenza dovuta alla diversità di tempo e di luogo. Pertanto il comportamento umano, non che obbedire docilmente a una meccanica costante di reazioni, varia continuamente perché vario è sempre il contesto. Non ci si può mai bagnare due volte nella medesima acqua, diceva Eraclito. Questo è comunque un esempio di come gli occhi del filosofo possano, talvolta, falsare la vista allo storico. Ma sono inconvenienti più facilmente rilevabili a livello teorico; nella concretezza della ricostruzione storiografica tendono a sfumare e a scomparire, senza aver quasi potuto manifestare le proprie potenziali contraddizioni.

La questione dell’evoluzione psichica dell’essere umano ci ha riportati al problema relativo alla possibilità di comprendere, da parte della storiografia, età, fatti e individui lontani nel tempo. La sociologia e la psicologia partono dal presupposto che le costanti comportamentali osservate in un certo numero di casi possano applicarsi universalmente entro i confini spazio-temporali della nostra civiltà; ma non osano avventurarsi fuori di essi. Quali probabilità possiede, quindi, lo storico di afferrare il "senso" di azioni umane, esplicatesi in un contesto spazio-temporale completamente diverso da quello odierno? Il significato delle azioni di Cesare o di Traiano non è destinato inevitabilmente a eludere ogni tentativo di comprensione dello storico dell’età nucleare? Per esempio, è noto che in un dies nefas mai e poi mai un condottiero romano si sarebbe risolto ad attaccare battaglia: dunque l’aruspicina aveva, in guerra, un peso altrettanto decisivo della tattica e della strategia militare Così pure, la scoperta del nome segreto delle divinità protettrici di un determinato luogo portava inevitabilmente, nell’orizzonte "magico" dei popoli antichi, alla caduta di quel paese o di quella città nelle mani del nemico, anche se le difese materiali apparivano tuttora ben salde (tra parentesi, è questa, forse, la chiave di lettura per comprendere episodi come quello della caduta di Gerico al suono delle trombe del popolo ebreo). Ma, senza andare così lontano nel tempo, possiamo ricordare quale significato profondo avessero i riti della fertilità (i fuochi di San Giovanni, per esempio, per garantire prosperità al raccolto) nel mondo contadino – e questo fino a pochi decenni or sono. Davvero l’homo tecnologicus, che ha reciso l’intimo legame con la terra e con il mondo della trascendenza, potrebbe comprendere il senso di quei riti, di quelle usanze, di quel sistema di credenze e di valori?

È venuto il momento di ampliare la risposta che abbiam dato, a suo tempo, a tali interrogativi.

Il filosofo e lo psicologo, probabilmente, concorderanno sul fatto che le passioni elementari dell’essere umano – amore e odio, piacere e paura, interesse e indifferenza – sono una base emotiva costante dell’animo, e sotto questo rispetto non sarebbero riscontrabili sostanziali differenze fra il commerciante fenicio dell’ultimo millennio precristiano, e il chimico o il tecnico informatico dei nostri giorni. Ma tutti i concetti "storici", tanto politici e sociali come economici e religiosi, morali ed estetici, hanno subìto delle modificazioni più o meno profonde, talvolta nell’arco di pochissime generazioni. Per fare solo qualche esempio, i concetti di "legalità", "giustizia", "libertà", (per non parlare di quelli di "divinità", "verità", "bellezza") sono passati attraverso tali e tanti cambiamenti, che i loro attuali significati sono ben lontani da quelli comunemente accettati nell’Egitto faraonico delle prime dinastie, nella Grecia di Pericle o nell’Impero di Carlo Magno. Le difficoltà aumentano se si considerano le variazioni, talvolta notevoli, cui sono sempre stati soggetti tali valori nell’ambito delle diverse classi sociali di una medesima società, nonché nei diversi ambienti fisico-geografici anche all’interno di uno stesso organismo politico e culturale (i valori dominanti in città non sono gli stessi generalmente accettati in campagna; quelli di pianura non coincidono con quelli della montagna; e così via). È dunque lecito, per lo storico contemporaneo, parlare di "ambizione di Cesare", "avidità di Crasso", "ingiustizia" della terza guerra punica? Questi concetti non presuppongono forse un complesso di valori che, per la distanza temporale e le modificazioni sopravvenute, non siamo più in grado di afferrare nel significato che avevano nei rispettivi contesti originari?

Ma non basta. Il concetto stesso di "individualità" è, filosoficamente parlando, un’astrazione. Non un Cesare, un Crasso, ecc. dovremmo considerare, ma tanti quanti sono stati gli atti della loro vita e le sensazioni del loro animo. È questa una verità essenziale della quale ciascuno, vivendo fra i propri simili (nonché osservando sé stesso) potrà fare esperienza infinite volte al giorno. Dovrebbe conseguirne che parlae di "ambizione di Cesare" è una proposizione inintelligibile, in quanto composta di un sostantivo, "ambizione", che nella Roma del I secolo a. C. indicava un concetto oggi incomprensibile; e un nome proprio, "Cesare", che indfica una unità coscienziale puramente esteriore e fittizia, ma in effetti costituita da una pluralità infinita di differenti e mutevoli determinazioni. (Per inciso, esistono intere filosofie, come quella del buddhismo Theravada, secondo le quali l’essere umano non possiede un io, ma un gruppo di operazioni mentali sempre cangianti).

Tutte queste difficoltà dovrebbero imporre una maggiore prudenza ai sostenitori della "scienza storica". Così pure sembra inevitabile che lo storico, quando si trovi nell’impossibilità di penetrare oggettivamente le situazioni del passato, debba supplire alle proprie manchevolezze con uno sforzo di carattere intuitivo che gli permetta, in virtù di una "compartecipazione emotiva", di riallacciare il colloquio interrotto con i lontani oggetti della propria ricerca. La storiografia positivista ha sempre combattuto questo tipo di accostamento alla storia, considerandolo eretico e irrazionale.

"Positivismo e neopositivismo hanno lungamente e duramente (…) contro tutte quelle posizioni che hanno affermato la eterogeneità della comprensione storica rispetto alla spiegazione scientifica e del metodo storico rispetto al metodo scientifico. E la polemica non si è tanto indirizzata contro l’affermazione del carattere individuale e irripetibile degli ‘oggetti’ della comprensione storica, quanto contro l’affermazione che i processi storici siano ‘conoscibili’ mediante un atto di intuizione (o immedesimazione, o comprensione intrinseca, o comunicazione, o ricreazione di esperienze altrui, o possibilità di ‘rivivere’ gli eventi)." (Paolo Rossi, Storia e filosofia, Torino, 1975, p. 174).

Il positivismo, però, non ha saputo offrire nulla di meglio, nel campo della ricostruzione storica, della ‘intuizione’ tanto criticata, e benchè volentieri possiamo convenire che essa non offre alcuna garanzia di obiettività, tuttavia è giocoforza percorrere anche quella strada, oppure rinunziare del tutto al tentativo di ricostruzione del passato. Ciò è particolarmente giusto per chi ha piena coscienza del valore dei fatti spirituali nella storia, che sono per loro natura irraggiungibili da parte di una ricostruzione a posteriori puramente "scientifica". Da un punto di vista filosofico non esistono, a rigor di termini, "cause materiali" nella storia, ma sempre e soltanto "cause spirituali". Una simile affermazione farà sobbalzare gli storici d’ispirazione materialista ed economicista, quindi i marxisti in primo luogo. Eppure non vi è causa materiale che non sia riconducibile, in ultima analisi, a un movente spirituale. Ciò è valido non solo per i singoli individui, ma per le intere società.

Vogliamo esemplificarlo e preghiamo il lettore di accettare il termine "causa", da più parti e non senza ragioni criticato, in assenza di una definizione migliore del concetto che essa sottende: "l’antecedente invariabile di un dato fenomeno" (vocabolario Zingarelli), con buona pace di Hume che, appunto, denominava ciò che noi chiamiamo "causa" un semplice fatto di successione cronologica e di abitudine psicologica da parte dell’osservatore.

Gli storici sogliono dire che la corsa agli armamenti, la concorrenza industriale e finanziaria, lo sfrenato militarismo e le aspirazioni delle nazionalità "oppresse" (o presunte tali) furono tra le cause della prima guerra mondiale. Ora, se consideriamo isolatamente, uno ad uno, questi diversi fattori, vedremo che alcuni di essi – militarismo e irredentismo – appaiono subito di carattere "spirituale", gli altri – corsa agli armamenti, concorrenza industriale e finanziaria – solo esteriormente sono di natura "materiale". Ogni sfrenata ambizione economica rivela in effetti una indubbia origine psicologica – la stessa accumulazione del capitale è un comportamento che nasce da meccanismi "spirituali" (irrazionali, fra parentesi, in ultima istanza) – e, quanto alla politica degli armamenti, essa affonda le proprie radici motivazionali in una disposizione psicologica che è un intreccio di paura e aggressività – l’aggressività che nasce dalla paura. I seguaci delle filosofie della storia materialiste obietteranno che, se anche ogni "causa" materiale è riconducibile, in ultima analisi, a un movente spirituale, ai fini della comprensionee della ricostruzione storica è solo il primo aspetto quello che conta: non perché i capitalisti vogliano accumulare danaro, ma come lo fanno.

Risponderemo ponendo una distinzione tra fatti sociali e fatti individuali. Nel primo caso l’obiezione è pertinente: che i membri della famiglia Krupp fossero divorati dal dèmone dell’ambizione e dell’istinto di potenza, è un fatto che può interessare molto di più lo psicologo che lo storico. Ciò che interessaa quest’uiltimo è rilevare le conseguenze pratiche che quell’ambizione e quell’istinto di potenza hanno avuto nel corpo della società tedesca ed europea. Questo perché, generalmente, si ammette che i membri della famiglia Krupp non sono stati, individualmente, autori di storia: lo sono sati solo in forma anonima, in quanto la famiglia Krupp, collettivamente, ha svolto una politica economica che è stata rilevante nei confronti della società e del governo della Germania – e, indirettamente, dell’Europae del mondo. Tuttavia i membri di quella famiglia, da un punto di vista storico e non psicologico, hanno agito in certo qual senso come un sol blocco indifferenziato, con metodi e finalità costanti ed uniformi: e se anche l’influenza che hanno esercitato sul loro paese e sul loro tempo è stata grandissima, tuttavia i loro scopi e la loro ideologia rientravano in una logica molto più vasta delle loro personalità individuali: la logica dell’industria pesante nella seconda rivoluzione industriale e nel contesto della società a regime capitalista d’Europa e d’America. Non la storiografia, ma la psicologia e la sociologia sono interessate ai loro moventi spirituali. Per il resto, le loro azioni e le loro scelte rispondevano a una logica predeterminata, in quanto essi erano espressione di un interesse unilaterale (né avrebbe potuto essere diversamente, pena l’autolesionismo volontario). In questo senso, ben poche differenze comportamentali a livello qualitativo sarebbero riscontrabili fra i Krupp e qualsiasi altro gruppo dirigente di industria bellica.

Diverso è il caso di quelle individualità storiche, che per essere espressione d’interessi molteplici non sono soggette ad alcuna logica "predeterminata": tale il casoi di sovrani, pontefici, uomini politici, pensatori, scienziati. Ad ogni istante della loro carriera, le scelte di Friedrich, Alfred, Bertha, Gustav e infine di suo figlio Alfred Krupp erano "predeterminate", nel senso che ammettevano, sostanzialmente, una sola risposta nell’ambito della loro logica: qualsiasi altra saebbe equivalsa a un auto-danneggiamento. Le scelte di Giulio Cesare, Giustiniano, Carlo Magno, Leone X non erano, invece, rigidamente predeterminate: condizionate sì, ma a ciascuno di loro restavano libere, almeno teoricamente, diverse strade da seguire. È per questo che le azioni di tali personaggi rivestono una così grande importanza agli occhi dello storico (oltre al fatto, naturalmente, che influirono sull’esistenza di milioni di uomini). Ed è per questo che un’analisi del carattere, delle aspirazioni, delle passioni e dei pensieri di questi personaggi non esula affatto dal campo della stopriografia; mentre esulerebbe, in verità, l’analisi del carattere di Bertha o di Alfred Krupp.

  1. [IL VALORE DELL’INTUIZIONE. RAZIONALITA’, CAUSA E CASO NELLA STORIA.**

Ci vediamo dunque ricondotti alla questione dell’importanza dei fattori spirituali nella storia, e a quella del valore dell’intuizione nella ricostruzione storiografica.

Per afferrare il senso delle scelte e delle decisioni prese da un qualsiasi personaggio storico, esistono due strade: valutare le sue azioni e da quelle risalire ai moventi; oppure tentar di individuare i moventi e, in base ad essi, "spiegare" le azioni con cui hanno cercato di tradurli in pratica. Per seguire la prima strada è necessaria, e sufficiente, una solida documentazione: ma, anche avendola, non saremo ancora riusciti a penetrare l’intimo significato di quelle determinate azioni. Dobbiamo risalire ai moventi, cercar di comprendere perché essi fecero quelle scelte, e non altre. Se siamo fortunati, potremo disporre delle osservazioni dei contemporanei o addirittura dei protagonisti, come nel caso di Giulio Cesare, di Marco Aurelio, di Giuliano, di Carlo V d’Asburgo. Ma sarebbe una grave ingenuità accettare indiscriminatamente le versioni dei contemporanei; e una ancor maggiore accettare quelle dei diretti interessati. I primi avevano il vantaggio dell’osservazione, per così dire, diretta dei personaggi in questione; ma proprio il fatto di essere materialmente calati nella situazione storica che cercavano di giudicare, ci fa capire come non fossero certo nelle migliori condizioni per comprenderlo e valutarlo spassionatamente. I secondf, poi, si trovavano in condizioni ancor peggiori, dato che l’oggetto delle loro osservazioni erano sé stessi: o volevano ingannare deliberatamente gli altri (come Cesare che, nel De Bello Gallico, vuol farci credere che la migrazione degli Elvezi verso il paese dei Sàntoni costituiva un pericolo per la provincia romana) o ingannavano, senza volerlo, sé medesimi (come Marco Aurelio Antonino che, nei Colloqui con sé stesso, ringrazia gli dèi per avergli dato una sposa esemplare e fedele come Faustina, quando tutta Roma sapeva che ella lo tradiva sfacciatamente e continuamente).

Che altro rimane, dunque, se non il tentativo di un sato intuitivo, che lo storico compie verso gli ogetti remoti della sua ricerca? Le difficoltà sono gravissime, è inutile cercare di nascinderlo: abbiamo già visto quali e quanti ostacoli si frappongono fra il nostro sentire di occidentali del XXI secolo e quello degli uomini di altre epoche o di altre civiltà. Non si tratta, comunque, di affrontare la storia a cuor leggero, convinti di poterla re-inventare a piacimento più che di ricostruirla, ma di guardare realisticamente alle difficoltà ineliminabili insite in qualunque tentativo storiografico, e di utilizzare, vengano a mancare criteri più diretti e oggettivi, anche quei mezzi di "compartecipazione emotiva" che tanto temono e aborriscono gli storici di formazione positivista.

Difficoltà non evitabili, abbiamo detto: perché abbiamo già evidenziato come sia vano pretendere di calare concetti e valori del nostro tempo e della nostra civiltà in un diverso – e lontano – contesto storico. La conoscenza storica è paragonabile a un’isola circondata da scogliere infide: per raggiungerla è necesaario non soltanto attraversare mari vasti e poco conosciuti, ma anche avventurarsi fra gli scogli, con il pericolo sempre incombente di fare naufragio. Questo, almeno, per chi voglia cercar di penetrare l’essenza della storia. Quanto a coloro che si accontentano di contemplarne le forme (Huizinga), continuando nel paragone potremmo raffigurarceli come quei navigatori che, sopraffatti dal timore di naufragare proprio in vista della terraferma, preferiscono limitarsi a contemplare l’isola in distanza, senza avvicinarsi. Così facendo, essi sono sicuri che la loro nave non andrà ad urtare contro le rocce aguzze, riportando danni forse irreparabili; ma l’idea che potranno farsi dell’isola sarà necessariamente vaga e difettosa. A causa della distanza, essi potrebbero anche prendere qualche grosso abbaglio (cosa che in effetti è accaduta, e non di rado, nella storia delle esplorazioni marittime: al punto che alcuni navigatori hanno scambiato isole squallide e disabitate per autentici paradisi terrestri; o – caso limite – hanno confuso degli icebergs vaganti nella nebbia per delle terre emerse).

Noi pensiamo, invece, che lo storico dovrebbe correre piuttosto il pericolo di un naufragio, ma osare e dirigersi verso la riva, per sbarcare nell’isola e costringerla a rivelare i suoi tesori nascosti. Quanto ai sostenitori della scientificità della storiografia, essi ignorano il pericolo del tutto e, così facendo, si avventurano alla cieca con pazza temerità: certo hanno molte meno probabilità di passare indenni attraverso gli scogli. Fur di metafora, la posizione dello storico – e non solo dello storico – che sa di disporre di strumenti difettosi, e tuttavia non rinuncia al proprio lavoro, è incomprarabilmente preferibile a quella ispirata da una ingiustificata sicurezza tanto nei propri mezzi, quanto nella bontà del risultato.

Tuttavia, la necessità di una "partecipazione emotiva" per completare i tasselli mancanti del mosaico della ricostruzione storica viene evidentemente respinta anche da un’altra categoria di storici: i sostenitori della necessità di seguire la "logica intrinseca" dei fatti. Secondo costoro, il compito dello storico non consisterebbe che nell’illuminare i rapporti della "legge intrinseca" dei fatti, che ai loro occhi assume il valore di un criterio e di una garanzia assoluta di verità, anzi ddel’unica verità possibile:

"Gli avvenimenti non possono essere considerati come un succedersi di avventure né inseriti uno dopo l’altro sul filo di una morale precostituita, ma debbono corrispondere alla loro legge intrinseca. Compito dell’autore è appunto scoprire questa legge. (…) Un’opera storica risponde pienamente allo scopo solo se gli avvenimenti si succedono, da una pagina all’altra, secondo la loro naturale necessità." (Lev Trotzkij, Storia della Rivoluzione Russa, Milano, 1970, vol. 1, pp. 9-13).

Una tale metodologia appare tanto suadente sul piano teorico, quanto gratuita e pretenziosa su quello pratico. Come infatti si deve intendere codesta "legge intrinseca" dei fatti: come cieco determinismo o come banale "senno del poi"? Delle due, l’una: o i fatti soggiaciono a un inesorabile destino, o la pomposa enunciazione di codesta "legge" storiografica significa semplicemente che lo storico deve giudicare il fatto D soltanto come prodotto necessario dei fatti A, B, C, che lo hanno temporalmente preceduto.

Ora, che il fatto D si sia prodotto in seguito ai fatti A, B, C è abbastanza chiaro: chiunque lo può verificare; resta da vedere se ne è stato anche determinato, anzi se ne è stato necessariamente determinato. Altro, infatti, è accettare la storia come un teorema a soluzione unica, altro considerare perché ai fatti A, B, C ha fatto seguito il fatto D; e come; e attraverso quali processi – ora "necessari", ora casuali, si giunse proprio a quella conclusione, e non a un’altra. Il concetto della "logica intrinseca" è, nella pratica storiografica, un non-senso. Che i fatti si siano prodotti in quella determinata maniera, a tutti è dato constatarlo. Ma la ricerca della loro "logica intrinseca" richiede sempre un’analisi delle cause, ed essa non è mai oggettiva: è lo storico e solo lo storico a decidere quali forze – più o meno palesi, più o meno sotterranee – hanno spinto alla luce quel dato fenomeno, forse da tempo latente. Perciò, affermare che lo storico deve limitarsi a seguire la logica intrinseca dei fatti non vuol dire altro se non che deve essere obiettivo; in qual modo, non viene però spiegato.

Si vede bene come ciò esprima una semplice dichiarazione d’intenti , peraltro assai generica e velleitaria; ma non certo una metodologia. Il concetto di una "logica intrinseca dei fatti", poi, indeterminato sul piano pratico della ricerca storiografica, appare ambiguo e bifronte su quello teorico. Esso da un lato sembra, per l’appunto, ridurre la storiografia a "un succedersi di avventure", la cui spiegazione, senza oscurità né problematica, si snoda meccanicamente come una forza d’inerzia, svuotata della sua interna dialettica – o piuttosto, come nel casi di Trotzkij, messa sul letto di Procuste della dialettica marxista, non "falsificabile" secondo la nota formula di Karl Popper, e quindi, nella sua vera essenza, tutt’altro che dialettica – almeno se la dialettica indica un movimento reale dello spirito e non una formuletta verbale del tipo tesi-antitesi-sintesi (e forse la radice di questo intimo stravolgimento della dialettica risiede in Hegel prima ancora che in Marx, che l’ha semplicemente copiata da Hegel). Dall’altro lato, il concetto della "logica intrinseca" dei fatti presuppone l’asoluta razionaltà della storia e l’esclusione da essa del concetto stesso di "caso" ("Tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale" dicono gli idealisti malati di storicismo, come Hegel e Croce; e lo ripetono con loro, invero curiosamente, quelli che dovrebbero essere i loro acerrimi avversari, ovvero i materialisti storici).

Ma perché negare, nelle vicende di intere società, una componente osservabile ogni giorno e ogni ora nella vita individuale? Sono note le tesi con cui, generalmente, si crede di dare una risposta all’idea di casualità. Si sostiene che ciò che comunemente viene definito "caso" altro non è, in effetti, che la manifestazione di una tale preponderanza di elementi in un senso, da rendere inevitabile lo spostamento della bilancia da quel lato. Secondo questo sottile ragionamento, niente è nel caso, ma tutto rientra nel corso naturale degli eventi; ciò che si suol definire "caso" indica soltanto una sorpresa da parte dell’osservatore esterno, sorpresa ingiustificata in quanto originata da un difetto dell’osservazione.

Sfortunatamente, lo storico impegnato nel proprio lavoro non ha a che fare con sillogismi e sofistiche elucubrazioni, ove restando nel regno delle parole è dato spiegare tutto senza comprendere mai nulla, ma con l’azione e reazione incessante di uomini, passioni, forze sociali ed economiche: un mondo estremamente concreto, ove occorrono delle spiegazioni concrete.

Prendiamo, a titolo di esempio, la morte dell’imperatore Giuliano, che pose fine ad un tempo alla grande partita di Roma con la Persia sassanide, e alla riscossa del paganesimo sul piano religioso interno dell’Impero Romano. Quel fatto non può, a rigore, definirsi interamente dovuto al caso, perché quando un sovrano prende parte personalmente ad una importante azione bellica, la sua morte in battaglia rientra certamente nel numero delle possibilità effettive. Tuttavia esistono varie cirocstanze che permettono di considerarla abbastanza casuale. Se, nella giornata del 26 giugno 363, il caldo sulla pianura mesopotamica non fosse stato eccezionale, l’imperatore non si sarebbe tolta la corazza e il giavellotto nemico non l’avrebbe mortalmente colpito. Se fosse stato meno impetuoso, non avrebbe esposto la propria persona a dei rischi eccessivi, soccorrendo personalmente la retroguardia del suo esercito assalita dai Persiani; né avrebbe cercato di estrarre con le proprie mani l’arma infittasi nel suo fianco, provocando un’emorragia che gli fu fatale.

Ora, siamo perfettamente d’accordo nel riconoscere che, se la sua morte fu sufficiente a determinare il tracollo finale del paganesimo, nonché la fine dell’antico sogno romano di conquistare la Persia, ciò significa soltanto che l’energia eccezionale, ma isolata, di un uomo solo era nell’impossibilità di mutare il corso degli eventi. Volendo limitare la nostra attenzione al solo problema religioso, possiamo tranquillamente affermare che la forza vitale del paganesimo era da tempo in via di esuarimento e che l’avvento al trono di Giuliano fu per esso una riscossa temporanea ed effimera, condizionata in partenza dalla vicenda personale di quel sovrano. La sua morte permise la continuazione di un processo naturale che il suo breve regno aveva perturbato, senza alcuna possibilità di poterne mutare il corso in maniera durevole. Tuttavia c’è un insegnamento profondo, che lo storico non dovrebbe trascurare, dal momento che la sua disciplina è fatta assai spesso di simili accidenti. Giuliano morì in battaglia il 26 giugno 363 perché un insieme di circostanze aveva concorso a produrre quel risultato; e il paganesimo riprese la sua mesta parabola discendente perché le sue possibilità di resistenza al cristianesimo erano legate all’esile filo della vita di Giuliano. (Tralasciamo qui, per comodità di ragionamento, l’ipotesi – affacciata già dai contemporanei – che Giuliano non sia stato colpito accidentalmente da un cavaliere persiano, ma intenzionalmente da un soldato romano di religione cristiana, che vedeva in lui un nemico e un persecutore; questo ci porterebbe troppo lontano, e cioè al dubbio che molto di ciò che noi crediamo di sapere è in realtà totalmente falso.) Tutto questo appare molto ragionevole e molto logico: purtroppo, però, non spiega nulla.

Lo storico, che opera sul terreno dell’umano e dell’accidentale, deve guardarsi dal pericolo di attribuire una razionalità fittizia a ciascun evento del passato. Nella storia vi sono certamente delle componenti razionali, ossia analizzabili razionalmente e logicamente connesse le une con le altre; ma verso che cosa la sospinga il gioco incessante di azioni e reazioni, questo non lo sappiamo. E tuttavia non bisogna dimenticare che questo movimento è continuamente interrotto e spezzato da una serie di circostanze fortuite, cioè non necessarie.

Di nuovo, per non complicare eccessivamente il nostro ragionamento, sorvoliamo sulla possibilità, che talune filosofie invece ammettono, che ogni singolo evento, dal più grande al più piccolo, faccia parte di un disegno complessivo intelligente e armonioso, insomma provvidenziale, che noi non possiamo scorgere perché immersi nella contingenza: in una tale prospettiva, "caso" sarebbe ciò che noi non riusciamo a cogliere nei suoi legami necessari con tutti gli altri eventi. È, questa, una visione olistica e trascendente della storia, che può apparire "strana" a una modernità malata di riduzionismo e di immanentismo: e, infatti, strana non parve affatto, ad esempio, nel Medioevo, e così pure nell’ambito di molte civiltà tradizionali. Ma ci rendiamo conto che una tale prospettiva implicherebbe uno sconvolgimento radicale del modo oggi quasi universalmente accetato, almeno in Occidente, sia di "fare" storia, sia di studiarla e comprenderla. Infatti, e questo è solo un esempio di quel che intendiamo dire, se un piano provvidenziale pervade la storia, nulla vieta di pensare che gli esseri umani non nascono a caso, ma scelgono di nascere – secondo modalità a noi inaccessibili – da certi genitori piuttosto che da altri; ma questo fa a pugni con la radicata convinzione che i figli non esistono prima dei loro genitori, così come i triangoli non esistono prima dei punti e delle linee. Altre filosofie, orientali specialmente, non si scandalizzerebbero affatto – invece – per un tale, apparente paradosso. Ma in questa sede ci acontentiamo di aver fatto solo un cenno fuggevole a tale questione, e torniamo, come si suol dire, coi piedi per terra.

Parlavamo della morte dell’imperatore Giuliano (soprannominato dalla storiografia cristiana, con evidente intento denigratorio, l’Apostata). Che il paganesimo, nell’Impero Romano della seconda metà del IV secolo, fosse ormai condannato, e che la sua ripresa temporanea fosse vincolata alla conditio sine qua della sopravvivenza di Giuliano, questo è l’elemento razionalmente determinabile nel flusso del divenire storico. Che Giuliano dovesse morire il 26 giugno 363, nel corso di un’azione di retroguardia e nel bel mezzo della campagna persiana, questo è l’elemento "casuale" o "irrazionale" della storia, non prevedibile e non determinabile a priori; non soggetto ad alcuna legge di necessità causale.

Non è tuttavia compito dello storico fare la storia con i "se", e ipotizzare il diverso corso degli eventi qualora Giuliano fosse morto prima, o dopo; vincitore della Persia, o aperto persecutore del cristianesimo. Ma è un suo preciso dovere prendere atto che non tutto, nella storia, risponde ciecamente al’idea di una "legge intrinseca"; o meglio, che non esiste una "legge intrinseca" inderogabilmente preordinata. Certo, egli non deve divagare, fantasticando che Alessandro Magno avrebbe potuto non morire a soli 33 anni, ma molti anni dopo; oppure prima, magari combattendo sulle rive del Granico (ciò che realmente evitò per un soffio). Deve però esser sempre consapevole che in un mondo dominato dall’accidentale e dal fortuito, è utopistico porre una razionalità preordinata che ispiri ogni singolo fatto del divenire storico. Se la storia fosse estrinsecazione di una legge razionale preordinata; o se, per meglio dire, ciascun evento avesse una sua propria "logica intrinseca", tutto in essa sarebbe coerente e lineare, e volendo rappresentare ciò graficamente, sarebbe possibile farlo con una linea retta in continua progressione. La linea della storia è invece una spezzata, e i punti di "frattura" sono appunto determinati dal fattore casuale, fortuito, irrazionale di essa.

Tra parentesi, osserviamo che la visione lineare della storia (che è di origine cristiana; presso gli antichi era invece diffusa quella ciclica, così come presso i popoli dell’India) implica una concezione evolutiva di essa. Presuppone, cioè, che il corso degli eventi umani proceda per accumulo successivo di esperienze, immaginate come sempre più "giuste" e razionali; di qui l’ingenuo sentimento di superiorità dei moderni verso gli antichi, considerati come meno evoluti, ossia come "primitivi". Ma primitivi rispetto a che cosa? Rispetto a un ideale metastorico di razionalità e perfezione, cui noi – che procediamo, appunto, sul cumulo di errori e tentativi dei nostri predecessori, gradualmente ci staremmo avvicianando. Lasciamo perdere, in questa sede, quanto vi sia di giustificato e quanto di arbitrario e narcisistico in tale pretesa contrapposizione fra antichi e moderni (dubitiamo, per fare solo un esempio, che i moderni saprebbero costruire qualcosa di altrettanto perfetto e durevole come le Piramidi di Giza); e sorvoliamo parimenti sull’ovvia conclusione che i moderni attuali non sono che goffi primitivi a paragone di coloro che verranno, come a noi, oggi, appaiono i cosiddetti "antichi". No: quel che ci preme far osservare è che qualsiasi concezione evolutiva della storia reca in sé stessa le premesse della propria confutazione. Perché delle due, l’una: o l’evoluzione avrà un termine, e allora assisteremo alla fine della storia; oppure non l’avrà, e allora finirà per assomigliare in maniera imbarazzante a una marcia sul posto; o, se si preferisce, a un procedere contro senso su di un tappeto scorrevole.

Della prima posizione esiste una versione religiosa, il giudizio finale cui faraanno seguito (per i giusti) una terra nuova e un cielo nuovo; e una versione laica, quella profetizzata – ad esempio – da Francis Fukujama che individua nel trionfo definitivo del capitalismo, appunto, la "fine della storia" (cioè la soppressione radicale dell’elemento dialettico, nel XIX e XX secolo rappresentato dal modello economico-sociale comunista).

Tuttavia, se ogni concezione evolutiva è necessariamente anche una concezione dialettica (i "tentativi" inesperti degli antichi, cui "rispondono" quelli appropriati dei moderni: challenge and response, diceva Toynbee), non possiamo fare a meno di chiederci come mai, a un dato momento, la dialettica scomparirà e rimarrà solo una versione della storia: "il migliore dei mondi possibili", finalmente libero da tensioni e contrasti. È qui che Hegel e Marx vengono sorpresi in patente contraddizione con le loro premesse: non si può sostenere che la dialettica è l’anima della storia, e poi lasciar intendere che la "sintesi" finale esaurirà definitivamente la dialettica stessa. A meno che non si ipotizzi una ripresa continua della triade tesi-antitesi-sintesi, incessante, eterna: che però toglierebbe senso e direzione allo stesso movimento – come or ora abbiam detto – e, in più, sposterebbe ad infinitum il problema del suo superamento. Da un punto di vista filosofico, spostare indefinitamente il significato ultimo di un qualunque movimento dello spirito è sempre un segno di debolezza concettuale, somiglia a quel negoziante che espone sulla vetrina del proprio negozio il famoso cartello "Oggi non si fa credito, domani sì", e lo mostra tutti i giorni ai clienti che si presentano speranzosi di acquistare le sue merci, appunto, a credito. Una eterna promessa, una eterna impotenza.

L’esame del concetto di casualità è necessaria introduzione a quello, molto più complesso e mal definibile, di causalità. Qualsiasi discorso sulla causalità presuppone delle convinzioni in merito al difficile problema del determinismo, e la nostra personale opinione è che l’"intuizione" emotiva di cui abbiamo già parlato, valga in questo campo a decidere una presa di posizione più di qualsiasi argomento strettamente razionale. Si è o non si è deterministi per ragioni emotive, che la riflessione filosofica può corroborae e approfondire; ma difficilmente essa può prevalere su un sentimento così istintivo e prepotente. La fiducia o la sfiducia nella libertà dell’uomo è una passione naturale che nasce dal profondo del sentimento e non dal freddo ragionamento, tanto più che nessun ragionamento si svolge in piena autonomia dalla sfera emotiva; ma sempre le nostre tendenze profonde lo conducono, in definitiva, là dove il nostro intimo inconsciamente sente.

Perciò non riteniamo opportuno affrontare con zelo accademico una questione che così poco ci sembra aver a che fare con i diritti della riflessione pura. Deterministi e antideterministi possono portare entrambi una quantità di esemplificazioni concrete e di ragionamenti in sostegno delle proprie teorie, e dubitiamo che i risultati di un loro confronto sistematico potrebbero ripagarci della pazienza e del lungo tempo richiesti da un simile lavoro. Ma anche se lo storico, in questo caso particolare, può ritenersi dispensato da una giustificazione filosofica delle proprie convinzioni, egli nondimeno deve possedere gli strumenti e la mentalità per affrontare sul terreno concreto dalla ricerca il problema della causalità

Il concetto di concatenazione causale nella storia è, per sua natura, ambiguo e suscettibile di dar luogo a gravi fraintendimenti. Alcuni storici pongono con enfasi l’accento sulla concezione di un processo degli eventi umani scandito dal rapporto di "causa" ed "effetto". Tuttavia, il nudo e semplice concetto di "causa ed effetto" presuppone la sua applicazione ad una materia sostanzialmente statica e inerte, priva di vita propria, e quindi si può applicare schematicamente alla storiografica solo da parte di quanti sostengono la sua "scientificità". Se la storia fosse soltanto azione e reazione di forze ben definite e chiaramente riconoscibili, svolgentesi meccanicamente, ben poco la distinguerebbe dalla fisica o dalla chimica. Chi, invece, ritiene che la storiografia si occupi del particolare e del molteplice, in cui è bensì possibile distinguere, per grandi linee, dei movimenti, ma non già delle "leggi"; e ove è sempre presente e operante il fattore "caso", si ribellerà alla pedissequa applicazione del concetto "causale".

Intendiamoci: l’interesse per la connessione causale degli eventi è un aspetto fondamentale della ricerca storica, anzi l’aspetto fondamentale, poiché da esso prendono vita e movimento le forze astratte di una ricostruzione altrimenti meramente statica; e, attraverso il gioco della dialettica interna a ciascun evento, si può gettare un raggio di luce sulle sue singole e concrete manifestazioni. Ma occorrono molto equilibrio e circospezione per non lasciarsi trascinare troppo oltre dalla forza d’interzia di un aspetto così importante della ricostruzione storica.

Da un punto di vista alquanto teorico, non c’è fatto che non sia rigidamente determinato; e, se la sua manifestazione può dare l’impressione, a posteriori, che altre soluzioni sarebbero state ugualmente possibili, ciò è dovuto in realtà a un errore di prospettiva. La realtà è che in favore di quella soluzione, che si è poi concretamente realizzata, stava un peso preponderante di circostanze, tale da renderla inevitabile. Ma un tale punto di vista, come abbiamo già accennato, rischia di "meccanizzare" eccessivamente la storiografia, escludendo da un lato il ruolo della casualità, e restringendo, dall’altro, il campo della prospettiva della ricostruzione storica. Nel campo concreto del divenire storico, le difficoltà e gli ostacoli incontrati da ciascun fenomeno per venire alla luce costituiscono non solo le reazioni da esso direttamente provocate (ad esempio, la presa di coscienza della classe operaia contro l’imposizione del sistema di fabbrica), ma rappresentano anche le "potenzialità" delle altre soluzioni a quella data situazione, non abbastanza forti da imporsi, ma capaci di far sentire egualmente il proprio peso in forma puramente "negativa".

Cerchiamo di chiarire questo punto con un esempio. Le rivoluzioni russe scoppiarono nel 1917 (la prima nel febbraio, la seconda nell’ottobre). Compito dello storico non è baloccarsi con ipotesi sulla possibilità che esse avrebbero potuto scoppiare nel 1916, o nel 1918. Tuttavia, un esame circostanziato della loro genesi rivelerà che, se esistevano cause sufficienti per la loro manifestazione nel 1917, tuttavia molti aspetti degli eventi successivi rivelano come vi fossero in esse delle energie non ancora perfettamente "mature". Le resistenze, le incertezze, le confusioni che le accompagnarono e le seguirono rivelano che i tempi erano sì (evidentemente) maturi perché esse scoppiassero, ma che un insieme di circostanze reali, anche se non "competitive" con la soluzione effettivamente manifestatasi, tendeva a renderle possibili già nel 1916, e – per un altro verso – a posticiparle fino al 1918.

Concetto sommamente antistorico è quello del "se". Ma nell’atto concreto del singolo accadimento fenomenico, le "soluzioni" possibili nella storia formano una gamma ben più ampia di quelle prevedibili nelle scienze fisiche o in quelle naturali. La varietà e la complessità del mondo storico, le sue incongruenze e, in effetti, anche il suo fascino, derivano appunto dal fatto che l’elemento "spitituale" di esso, tipico della natura umana in contrapposizione al mondi fisico, è caratterizzato da un’estrema imprevedibilità (o, se si preferisce, impredicibilità) di reazioni e soluzioni. Non sarà mai possibile predire un fenomeno storico (tranne che nella sua imminenza) perché, nonostante un esame accurato delle forze in gioco, il calcolo delle probabilità e quanto una lunga serie di esperienze sembrano suggerire, nessuna ipotesi storica raggiungerà mai il grado di certezza e la forza di una legge fisica. È per tale motivo che abbiamo a suo tempo criticato come eccessivamente schematica una certa impostazione filosofica del problema storico (quella di David Hume, per intenderci), secondo la quale le reazioni umane saebbero costanti a parità di condizioni.

L’idea di una "legge intrinseca" a ciascun avvenimento storico, e quella della diretta connessione causale di ciascun evento, sono entrambe legate – più o meno consapevolmente – alla riflessione sui grandi fatti della storia: quelli che sono venuti alla luce attraverso un profondo processo di progressiva determinazione e che hanno impresso una svolta nella storia del genere umano, o almeno di una rilevante parte di esso. Trotzkij, quando scriveva quelle pagine, pensava alla Rivoluzione francese del 1789 e a quelle russe del 1917, e giudicava queste ultime (specialmente la seconda, quella di ottobre) dal punto di vista, alquanto rassicurante e soddisfatto, di chi ha recitato una parte di primo piano in quegli eventi: dalla parte della storia, cioè dalla parte di chi ha avuto successo. Osserviamo, tra parentesi, che in base a un tale punto di vista "la storia ha sempre ragione" e che a vincere è sempre il progresso (come in effetti pensava Marx: il sistema borghese sconfisse il sistema feudale, perché "progressivo" rispetto ad esso). Cosa assai consolante, appunto, per chi ha vinto. Quanto ai perdenti, non resta che gettarli nel cestino della storia, in mezzo alla carta straccia di ciò che, essendo "regressivo", non merita altro destino che quello di scomparire, e con vergogna.

A parte ogni altra considerazione, dobbiamo però osservare che ben pochi fatti storici sembrano presentare quel grado di "intrinseca necessità" che sembra caratterizzare la Grande Rivoluzione dell’89, o quelle russe del ’17. (A essere pignoli e a non dare nulla per scontato, perfino su quei "grandi eventi" si potrebbe avanzare il dubbio della loro assoluta inevitabilità: e questo vale specialmente perla Rivoluzione russa dell’ottobre, che forse non fu una rivoiluzione ma un colpo di stato, in cui gli stessi bolscevichi, alla sua vigilia, non credevano affatto; e che permise poi a storici come Trotzkij di sentenziare di "logiche intrinseche" alla storia, assaporando il piacere di sentirsi fra coloro cui "la storia ha dato ragione").

Facciamo alcuni esempi, limitandoci ad eventi storici "minori". Due noti studiosi americani hanno definito la guerra anglo-americana del 1812-15 "futile e inutile, che avrebbe potuto essere evitata con un po’ più di immaginazione da una parte, e con idee più larghe dall’altra" (Morison-Commager, Storia degli Stati Uniti d’America, Firenze, 1974, vol. 1, p. 594). La stessa cosa si potrebbe dire, e forse con maggior ragione, della guerra ispano-peruviana del 1866, o della guerra del Chaco del 1932-35 fra la Bolivia e il Paraguay. Il Toynbee ha definito l’aggressione italiana contro l’Abissinia, nel 1935, "malvagità deliberata di un individuo [Mussolini, evidentemente]" (non dice però, pudicamente, come si dovrebbe definire la guerra dell’oppio contro la Cina o il bombardamento di Dresda nel 1945, da parte dei suoi compatrioti; ma questo è un altro discorso). Naturalmente, anche una guerra "futile ed inutile" non è priva di ragioni: più spiccatamente sentimentali nel caso del conflitto tra Perù e Spagna: il sogno donchisciottesco di riconquistare il "gioiello" del perduto impero coloniale, mescolato, peraltro, con un interesse economico molto concreto per i depositi guaniferi delle isole Chinchas; più spiccatamente materiali nel caso del conflitto fra Bolivia e Paraguay nel 1932: i supposti giacimenti petroliferi del Chaco, adocchiati dalle compagnie di estrazione straniere, benchè rivestite con gli abiti più rispettabili di un ardente patriottismo da entrambi i contendenti.

Sembra però innegabile che, nell’un caso e nell’altro, non esistevano affatto delle "ragioni" che avrebbero, comunque, condotto irreversibilmente alla guerra. I motivi economici erano in realtà insufficienti, quelli nazionalistici vaghi e privi di una forte tradizione (come lo erano, invece, in Europa). In definitiva, l’irresponsabilità di alcuni individui (come il presidente boliviano Daniel Salamanca) sembra aver gettato il peso decisivo sul piatto della bilancia a favore di una guerra che, di per sé, non sembrava necessaria né tanto meno inevitabile. Un esame più approfondito rivelerebbe molti fattori poco appariscenti, ma reali, che ebbero senza dubbio il loro peso nel determinare quella piega degli avvenimenti: ad esempio, l’infermità fisica di Salamanca può aver contribuito, per compensazione, alla sua brama di "rivincita" contro il Paraguay; così come potè giocare un ruolo la presenza, casuale appunto, di un esperto militare tedesco in Bolivia – un certo capitano Kuntz -, alimentando l’illusione di una vittoriosa Blitzkrieg da parte del governo di La Paz. E tuttavia non muterebbe, crediamo, la diagnosi che quei conflitti non furono affatto "inevitabili" .

Lo storicio dei "grandi avvenimemti", ad esempio della prima guerra mondiale, deve in genere affrontare un problema di natura ben diversa. Nel suo caso, affermare che la guerra fu scatenata dall’irresponsabilità "criminale" di Guglielmo II; o che un po’ di buona volontà da parte di una dozzina di statisti e diplomatici europei, nel luglio del 1914, avrebbe potuto scongiurare il disastro, suonerebbero come altrettante assurdità. Egli sa bene che la "buona volontà" di alcuni statisti avrebbe tutt’al più potuto rinviare la guerra, com’era già accaduto nel 1908 (crisi internazionale per l’annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina), non già elinìminare le profonde cause di attrito; e che l’irresponsabilità di Guglielmo II, seppure è un dato reale, non avrebbe significato molto in sé stessa, mentre assurge a grande importanza il fatto che essa fu approvata e sostenuta da una buona parte dei 66 milioni di abitanti della Germania d’allora.

Così pure, l’occhio esercitato dello storico sa cogliere le differenze tra la morte "accidentale" dell’imperatore Giuliano nel 363, e quella dell’arciduca Francesco Ferdinando, a Sarajevo, nel 1914: che non fu più accidentale, quest’ultima, di quanto potrebbe esserlo l’incendio provocato da una sigaretta gettata in un fienile. Illogico sarebbe attendersi che un incendio non divampi nel fienile, se vi si getta una sigaretta accesa; illogico (se non qualcosa di peggio) fu, da parte delle supreme autorità austro-ungariche, non attendersi che una visita dell’arciduca "panslavo" nella Bosnia da poco annessa, al termine delle manovre militari di due corpi d’armata al confine serbo, nonché una visita a Sarajevo proprio il giorno della festa nazionale serba, non avrebbe provocato qualche violenta reazione. Questo solo per considerare gli aspetti di pubblico dominio della vicenda, allora come oggi, e che lo storico del 1914 avrebbe potuto rilevare quasi altrettanto lucidamente di uno dei nostri giorni; e per tacere i velati "avvertimenti" comunicati a Vienna dall’ambasciatore serbo prima della tragedia, nonché le insufficienti misure di sicurezza disposte a Sarajevo dal governatore Potiorek. Se anche l’arciduca fosse sfuggito alla pistola di Princip, la città brulicava di altri congiurati pronti a entrare in azione – come del resto era già avvenuto, lasciando miracolosamente indenne la vittima designata, poche ore prima del suo assassinio).

Invece lo storico del 1932, crediamo, non avrebbe affatto potuto dire se le pressioni diplomatiche sotterranee di alcune grandi potenze, l’ambizione frustrata del presidente boliviano Daniel Salamanca e, forse, anche gli oscuri maneggi degli Stati maggiori francese e germanico, avrebbero avuto realmente la forza di trascinare l’una contro l’altra la Boliviae il Paraguay, in una guerra "montata", non intimamnente sentita da nessuno, e soprattutto non necessaria. Il tutto per dei giacimenti di petrolio che non si sapeva esattamente se vi fossero e quanto valessero, e per il desiderio delle potenze europee di "sperimentare" armi e tecniche di guerra in una prova generale che si sarebbe rivelata ingannevole: l’esercito boliviano, istruito dai Tedeschi, fu alla fine sconfitto da quello paraguayano sostenuto dai Francesi; ma nel 1940 l’esercito tedesco piegò quello francese in sole quattro settimane.

Queste osservazioni, lo ripetiamo ancora una volta, non sono in alcun modo un suggerimento ad assecondare la futile tentazione di fare la storia con i "se", né tanto meno con il gratuito senno del poi. Ma vogliamo sottolineare che esiste un aspetto ambiguo e scarsamente esplorato della ricerca storiografica, che spesso, quando va in cerca di "cause" o "moventi", s’imbatte invece in "casi" e "accidenti". Abbiamo già visto come anche il caso si possa considerare, in definitiva, un fattore causalmente determinato, ma lo è a breve scadenza e non possiede quel grado di prevedibilità che caratterizza i fatti non accidentalmente determinati.

Detto ciò, compito dello storico è essenzialmente quello di rivolgere la propria attenzione, sul terreno concreto della ricerca, ai "modi" particolari in cui si esplica il divenire storico. Non il "perché" delle cose lo impegna sul piano teorico, ma il "come" su quello strettamente concreto. La vera ragione di una riflessione approfondita sull’aspetto irrazionale della storia e della ricostruzione storiografica consiste in una maggiore consapevolezza, da parte dello storico, sia dei propri limiti (oggettivi), sia della disciplina stessa. La coscienza di un’eterna presenza della componente casuale della storia, infatti, non sarebbe di alcuna utilità se si risolvesse in uno sterile rimpianto per le certezze che non potremo mai avere.

"La storiografia che indugia a deplorare che certi eventi, e sia pure catastrofici, si siano prodotti, invece di concentrarsi nel compito di lumeggiare come si sono prodotti, ha il difetto di contrapporre, implicitamente o esplicitamente, dei ‘se’, delle ipotesi su quel che sarebbe potuto accadere ‘se’… , a quel che è accaduto." (Leo Valiani, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, Milano, 1966, p. 412).

Insomma, lo storico deve cercar di evitare i due estremi della pretesa scientificità e dello scetticismo assoluto. Certo, considerando quali e quanti siano gli ostacoli che gli sbarrano la strada di una ricostruzione veritiera, o quantomeno attendibile, del passato, la tentazione dello scoraggiamento potrà essere, talvolta, grande. Si dice che uno storico inglese del XVII secolo bruciò il manoscritto di una sua storia universale, dopo aver constatato coi suoi occhi come veniva riferito in maniere diversissime un banale episodio, accaduto proprio sotto i suoi occhi. Tuttavia, lo storico deve vincere la tentazione di abbandonarsi al pessimismo radicale, e proseguire coraggiosamente le sue ricerche, pur nella consapevolezza dei limiti insormontabili cui andrà incontro. È noto che lo scoraggiamento è un cattivo consigliere, in quanto induce a sottovalutare le possibilità favorevoli, riducendo ulteriormente i margini di un possibile esito positivo. Ben lo sanno, da Clausewitz in poi, i teorici dell’arte militare; infatti, una delle massime fondamentali della strategia insegna che

"In guerra a nulla serve rimpiangere il materiale che manca, perché tale stato d’animo induce a trascurare i mezzi di cui si dispone, e la cui utilizzazione potrebbe, pur tuttavia, condurre a qualche buon risultato." (Neumann, Il ‘Goeben’ e il ‘Breslau’ nella guerra mondiale, Milano, 1933, p. 112).

E non solo in guerra, vogliamo aggiungere, ma in ogni circostanza della vita di ciascun individuo, e quindi anche nella ricerca storiografica. Ma in ogni questione esistono sempre due punti di vista, quello "costruttivo" e quello "negativo", che usano per lo stesso problema due pesi e due misure differenti. I sostenitori a oltranza della scientificità della storiografia, e molti di quelli che la professano velatamente, pongono l’accento su quello "costruttivo", sottovalutamdo e minimizzando problemi di una gravità estrema; e, spesso, peccano di ingiustificato ottimismo. I negatori della storiografia intesa come conoscenza dell’essenza del passato, si arrestano invece scoraggiati davanti a quelle difficoltà che gli altri ignorano, e sottolineano essenzialmente il momento "negativo".

Ma sul concetto di "ottimismo" e su quello di "pessimismo" in storiografia, torneremo in un apposito capitolo.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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