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La volata

Questo racconto è compreso nel volume "La bambina dei sogni e altri racconti" di F. Lamendola, editore Lalli, Poggibonsi (Siena), 1984, pagg. 101-118.

(N. B.: il libro è esaurito da tempo e fuori commercio. Chi fosse eventualmente interessato, può mettersi in contatto con l’Associazione Eco-Filosofica).

Il gruppo dei corridori imboccò compatto il largo viale alberato, lanciato a quarantacinque chilometri l’ora, come un torrente primaverile che irrompe dai monti travolgendo ogni cosa innanzi a sé. Entrò nella curva inclinandosi paurosamente sulla destra, sfiorò come un turbine le transenne oltre le quali si sbracciava la folla, perdendo appena pochi colpi di pedale. Quindi uscì sparatissimo sul breve rettilineo finale, 250 metri appena, guizzando con una impennata tumultuosa tutto sul lato sinistro della strada. Visto dal palco sovrastante il traguardo, il gruppo apparve come una massa paurosamente oscillante e vorticosa, un mulinare di gomiti, un affondare di teste entro le spalle, un forsennato sbandare ritmico di ruote e di manubri, ora su un altro ora sull’altro. Da quel turbine che faceva tremare la vista balzarono fuori prima uno, poi un altro, quindi un terzo corridore, solo per imprimere un nuovo violento strattone al gruppo già sgranato e per farsi riassorbire e inghiottire un istante dopo.

Mario sentiva, nell’imboccare l’ultima curva, che nemmeno quel giorno ce l’avrebbe fatta. Era teso al massimo, sprofondato dentro il manubrio e lanciatissimo dietro la ruota di Ramirez. Ma proprio perché vincere era adesso troppo importante per lui, una fatale intuizione gli diceva che non avrebbe vinto. In effetti, era stato poco bene fin dalla partenza, al mattino, e anche se il fresco inaspettato della tappa l’aveva ristabilito, non era ancora nella sua forma migliore. Per giunta, c’era stato quello sbandamento del gruppo all’ultimo chilometro, che gli aveva fatto perdere dei metri preziosi nella fase criticissima della conquista delle ruote. Metri forse irrecuperabili, aveva subito pensato con rabbia, mentre con uno scarto superava Van Dooren che aveva tirato i freni per paura. Quell’idiota! Non sapeva che tirare i freni è l’unica cosa che un velocista non deve fare mai, assolutamente mai, a qualunque costo? Lanciato come un dèmone della vendetta, coi capelli scarmigliati impastati di sudore, Mario aveva letteralmente spostato Paluzzi dalla ruota del veloce Ramirez, e l’aveva presa. Pensava che Ramirez l’avrebbe pilotato ottimamente fino a ridosso del traguardo, perché il massiccio spagnolo era un velocista potente, dunque un eccellente battistrada per uno sprinter dell’ultimo centimetro, quale lui era.

Ma quel giorno pareva che anche il diavolo gli fosse contro, sulla curva Ramirez era rimasto chiuso e aveva dato una toccata leggerissima ai freni, scostandosi bruscamente sulla sinistra. Allora Mario, evitato per un pelo di toccare la ruota di Ramirez, s’era detto con una smorfia: "O la va o la spacca", e rischiando letteralmente la pelle era venuto fuori come una palla di fucile nel ridottissimo spazio rimasto libero fra Ramirez e la transenne sulla destra, là dove solo un fantasma sarebbe riuscito a passare. Aveva così riguadagnato una posizione favorevole, ma all’uscita della curva si era già trovato allo scoperto: e 250 metri di volata controvento erano realmente troppi per uno sprinter puro come lui, dopo una tappa di 200 chilometri tirata quasi sempre sul filo dei quaranta all’ora. Ma ormai era troppo tardi per improvvisare una diversa strategia: Mario s’era riempiti d’aria i polmoni (1) e si era gettato disperatamente nella volata al centro della strada, piegato sulla bicicletta sino a formare con essa un tutto unico e indivisibile. Sulla sua sinistra, al riparo dal vento, i corridori di testa si erano slanciati verso il traguardo come pigliando il volo dal piano inclinato della pista d’un velodromo.

Il primo ad appaiare Mario era stato Carstens, l’olandese, il suo peggiore avversario; e lui, lanciato come una furia verso quel traguardo che già sentiva nuovamente sfuggirgli di mano, con evidente scorrettezza lo aveva stretto cercando di tagliargli la traiettoria. Avevano proceduto per cinquanta metri appaiati, sgomitando e rischiando mille volte di arrotarsi coi pedali e di capitombolare entrambi: disuniti ormai per lo sforzo spasmodico, sbatacchiando il manubrio a destra e a sinistra con tutta la forza delle spalle. Ma già a 70 metri dal traguardo Mario con la coda dell’occhio da sotto il braccio aveva visto Van Katwijk schizzar fuori dal gruppo a velocità doppia e infilarli sulla sinistra con una progressione irresistibile. Ai venti metri Van Katwaijk era già nettamente primo e poteva rialzarsi dal manubrio per tagliare la linea bianca a braccia alzate, stravolto ed esultante. E per Mario al danno si era aggiunta la beffa, perché negli ultimissimi metri anche Carstens aveva preso decisamente il sopravvento e a nulla era valso il suo disperato colpo di reni per conquistare almeno il secondo posto: era andato a morirgli appena sul mozzo, irrimediabilmente battuto…

1) Normalmente una volata si fa senza respirare.

Quel che accadde dopo aver tagliato il traguardo fu per Mario come un sogno, un tremolìo confuso di suoni e di colori che la sua coscienza appannata registrava appena. Mentre i suoi meccanici lo sorreggevano e lo aiutavano a scendere dalla bicicletta, pallido come uno straccio per l’asfissia della volata, gli giungeva come da un altro mondo la voce rintronante dell’altoparlante che scandiva l’ordine d’arrivo. Primo Van Katwijk, secondo Carstens, terzo lui, quarto Ramirez…

Sotto il palco della giuria, nella confusione indescrivibile che segue una volata al Giro d’Italia, l’agitazione aveva raggiunto il massimo. Carstens gli veniva incontro imprecando e agitando i pugni, ma i suoi compagni di squadra mettendosi in mezzo avevano evitato il peggio. A Mario giunsero, pur nel frastuono di voci incrociantisi d’ogni parte, gl’improperi irriferibili dell’olandese, che non comprese, conclusi da una perentoria minaccia in italiano: "Farò ricorso alla giuria". E infatti, nemmeno cinque minuti dopo, prima che Mario avesse potuto districarsi dall’ingorgo e dirigersi in macchina verso l’albergo, la voce dello speaker all’altoparlante aveva gracidato: "Dopo aver riesaminato il filmato della volata, la giuria con decisione unanime retrocede all’ultimo posto nella classifica di tappa, per gravi scorrettezze commesse negli ultimi 200 metri, il corridore numero 65…".

Il 65 era lui.

"Sconfitto e umiliato", rimuginava Mario cupamente, disteso sul letto dell’albergo, mentre il massaggiatore gli spalmava di crema i polpacci muscolosi. "Ma va’, Mario – cercava di tirarlo su il buon Silvano, sfregandogli energicamente le gambe ancora indurite per lo sforzo – ma va’ che anche se ti hanno retrocesso hai fatto una bellissima volata. Eri terzo, non vuol dire, sei partito male fuori dalla curva: vedrai che prima della fine una tappa la vinci…".

Mario l’aveva guardato torvo, si sentiva talmente giù che aveva quasi voglia di piangere. E per l’ennesima volta raccontava a Silvano ogni sequenza della volata cercando il perché dell’ennesima sconfitta. "Stamattina stavo poco bene, ma questo non conta, poi mi ero ripreso – piagnucolava. – Mi sentivo una gran voglia di vincere, ne avevo bisogno come il pane, porco mondo! Invece sotto lo striscione dell’ultimo chilometro quell’imbecille di fiammingo, come si ciama quel biondino, Van Dooren che ti fa? Non si mettea frenare? Proprio mentre stavo per pigliare la ruota di Van Katwijk. E se ci riuscivo, adesso avrei vinto, perché in una volata alla pari non mi batte mica quello lì. Invece io l’ho fatta tutta allo scoperto, controvento, e lui se n’è venuto fuori bello fresco agli ottanta metri, porco mondo…".

"Ma sì – lo assecondava Silvano, sinceramente dispiaciuto di vedrrlo tanto demoralizzato – in una volata alla pari quel Van Katwijk te lo mangi senza neanche masticarlo."

"E invece – ricominciava la geremiade l’inconsolabile Mario, anziché sentirsi sollevato dal complimento – e invece niente nemmeno oggi. Porca miseria, è dall’inizio di stagione che non vinco neanche una corsa, e gli altri a malignarti dietro le spalle. Non me ne va mai bene una. Oggi potevo farcela, ero pronto a tutto, sulla curva ho rischiato l’osso del collo… Anche la ruota di Ramirez poteva andarmi bene, porca miseria. Ramirez è un camion: come si fa a perdere una volata dietro a un camion? Ma quello frena e sbanda sul più bello, non so perché, ha avuto paura, forse s’è visto chiuso. Allora io tento il tutto per tutto, sfioro le transenne e vengo fuori a tutta birra. Ero lanciato benissimo, ma come potevo farcela? 250 metri allo scoperto, così, col vento in faccia, senza un cane a tirarmi la volata…".

"Hai fatto uno sprint bellissimo, dài. Dico sul serio. Questo dimostra che la prossima volta con un po’ di fortuna farai centro…".

"Bisognerebbe avercela la fortuna! Ma io sono iellato: non vedi? Oggi poteva essere la volta buona, certo che potevo farcela. Perché io non mi spavento, non tiro i freni sulle curve, e i varchi li so trovare, non m’imbottigliano mica come quel camion di Ramirez, porca miseria! Mi basta un buchetto così per passare…".

"Ma sì, ma sì, non te la prendere."

"E invece me la prendo, porca miseria – ricominciava Mario, con le lacrime che ormai gli facevano groppo in gola, ancora elettrizzato dalle energie non del tutto scaricate nella volata. – Come si fa a non prendersela? Gli altri velocisti chiacchierano, dicono che sono finito. E io anche oggi sono rimasato a becco asciutto. Quel dannato di Carstens è venuto fuori ai 150 metri, era alla ruota di Van Bosch: perché lui una squadra ce l’ha, e nell’ultimo chilometro corrono tutti per lui; ma a me, chi mi tira la volata? Non ho nessun velocista in squadra che mi piloti negli sprint, e allora, porca miseria, devo arrangiarmi a soffiare le ruote degli avversari. Anche oggi, cosa credi, se non presentava reclamo la squadra di Carstens l’avrebbe fatto quella di Paluzzi, perché l’ho spostato a spallate dalla ruota di Ramirez."

Taceva, immusonito, e pareva finalmente rassegnato; ma poi nuovamente tornava a tormentarsi col ricostruire quella volata stregata, quella nuova occasione sfumata, come tante altre, troppe altre. "Con Carstens però potevo farcela, ma quando ho visto Van Katwijk saltar fuori come un razzo, con tutta la strada libera, mi son perso d’animo. Allora anche la piazza d’onore m’è sfuggita, che soddisfazione per Carstens, porco mondo…".

"Non pensare a Carstens adesso. Pensa all’ultima tappa del Giro, che finirà in volata. Quella è la più importante di tutte: se l’azzecchi, ti rifai di tutto quanto…".

"Bravo: ma prima ci sono le montagne, cominciano domani e mi vengono i brividi solo a pensarci. Io le salite le odio, non le sopporto proprio. E col ritardo che ho già in classifica rischio di andare fuori tempo massimo…".

Silvano aveva finito il suo lavoro e uscì scuotendo il capo. Impossibile tirar su Mario per quel giorno. Egli era un entusiasta: per vincere, aveva bisogno di vincere. Il sentimento della propria forza gli centuplicava le energie. Ma adesso era da troppo tempo che le cose gli andavano male. Sconfitta chiamava sconfitta, ormai. Perché un velocista appartiene a una categoria tutta particolare, egli deve assolutamente esser presente a certi appuntamenti, non può mancarli due o tre volte di fila senza scadere nell’altrui reputazione. Un velocista, specialmente se si è fatto un certo nome, è chiamato in causa in prima persona ad ogni volata: se non vince ha perso, anche se è arrivato secondo, anche se hanno perso altri dieci come lui. Deve vincere sempre, o almeno esser sempre lì nei primi, e piazzare la botta giusta quando i pronostici lo esigono. Non importa che l’esser favorito renda tutto più difficile, perché gli altri sono tutti lì che gli stanno addosso e fan di tutto per farlo perdere: se è favorito deve vincere, altrimenti si dirà che è finito, che ha paura, che tira i freni sulle curve…

Mario era uscito battuto in tutte le volate del Giro. La cosa peggiore era che l’aveva iniziato animato da grandi propositi di rivincita, e aveva avuto l’imprudenza di dirlo a voce alta. Ansioso di rifarsi della precedente stagione, era partito promettendo sfracelli ad ogni tappa. Invece fin dai primi giorni s’era trovato in difficoltà, e dopo aver fallito il primo posto nella volata iniziale, sempre più spesso era scivolato quinto, ottavo, decimo negli sprint successivi. I suoi avversari avevano sogghignato. "Quando uno promette mari e monti e poi non ce la fa ad arrivare primo e nemmeno secondo o terzo, è meglio che cambi mestiere", aveva detto una volta Carstens, col quale esisteva una vecchia ruggine, intervistato. E Mario, che era un orgoglioso, n’era rimasto ferito sul vivo. Ma più raddoppiava gli sforzi per farcela una buona volta, e più l’ansia e il nervosismo lo tradivano.

Lo sforzo di non far vedere quanto le critiche lo demoralizzassero lo logorava ancor di più. In queste condizioni, e con una squadra non adatta ad agevolarlo nelle volate, era quasi impossibile spezzare il sortilegio. La striscia bianca del traguardo confinava ormai con la barriera dei sogni. Ma un velocista non può vivere né di ricordi né di sogni. La vittoria è il suo alimento indispensabile. E Mario era velocista sino in fondo all’anima: per lui, una corsa cominciava sempre sotto lo striscione dell’ultimo chilometro, ed era fatta di attimi, di centimetri…

L’indomani la carovana del Giro affrontò le montagne. Tre tappe durissime, massacranti, con arrivo in salita. Tappe per gli scalatori, tappe per l’alta classifica, fatte di rampe incalzanti, di boschi, di nuvole…Tappe a un passo dal cielo azzurro, nello scenario grandioso e solenne delle Alpi scintillanti di neve. Tappe ove tutto quel che possono fare i velocisti è ritirarsi o cercar disperatamente di tener duro, in attesa di tempi migliori.

Van Dooren s’era ritirato. Paluzzi s’era ritirato. Il pesante Ramirez s’era ritirato. Perfino Van Katwijk s’era ritirato. Avevano resistito solo i più arrabbiati, come Carstens e Mario, aggrappati al manubrio con la forza della disperazione, e l’incubo del fuori-tempo massimo che li inseguiva passo passo. Certe volte Mario, in quelle tappe interminabili, era stato sul punto di scendere di sella e piantare tutto. Avrebbe voluto scaraventare la bicicletta lontano da sé, con tutta la forza che, dopo averlo abbandonato nelle gambe, gli s’accumulava nelle braccia. Certe volte s’era sentito scoppiare, pedalando in salita con terribile lentezza, il cuore in gola per la fatica, il sudore che correva a ruscelli giù per la fronte e per il collo… E sempre un pensiero a tenerlo in sella, a portarlo avanti, tremante di fatica e di volontà tesa fino al limite di rottura: quello dell’ultima volata. L’ultima volata valeva più di tutte, come aveva detto Silvano. Chi vince l’ultima volata al Giro può rifarsi di un’intera stagione balorda. E quando si coricava la sera, rotto dalla fatica che glì’impediva perfino di dormire, appena chiudeva gli occhi gli si presentava la visione dell’ampio, larghissimo viale d’arrivo, un viale magnificamente alberato: lo scenario adatto per una solenne rivincita. Poter vincere quell’ultima tappa! Poter tagliare per primo quella irraggiungibile linea bianca, lontana come un miraggio, seducente come la più dolce delle promesse!

L’ultima tappa di montagna era stata la più tremenda. Gli ultimi chilometri non li aveva fatti Mario, ma un automa con le sue fattezze che s’era impennato sulla bicicletta e aveva giurato di arrivare in cima a tutti i costi. Al traguardo era arrivato sbandando paurosamente, come un ubriaco, senza quasi più vedere la strada. E non appena smontato di sella aveva gettato via la bicicletta ed era precipitato sull’erba a lato della strada, come un masso. Era rimasto lì un quarto d’ora buono, con gli occhi chiusi, il cuore che batteva all’impazzata, un rombo spaventoso negli orecchi, senza muovere un muscolo. Poi lentamente, con enorme fatica, aveva raggiunto una macchina della sua squadra per recarsi all’albergo. Una doccia, un massaggio, una cena frettolosa e vorace, e poi subito di corsa a letto che non erano neanche le nove di sera. Quella notte finalmente, letteralmente schiacciato dalla fatica, aveva dormito come un tronco, letargicamente. Il suo sonno era stato popolato di sogni incessanti e agitati.

Era ancora in gara: era ancora in gara: questo si ripeteva senza posa, esultando, non sapeva se nel sonno o nella veglia. E poi di nuovo il larghissimo viale d’arrivo, lo striscione del traguardo teso da un capo all’altro della strada; e il gruppo compatto e multicolore che vi piombava come un turbine vorticoso. E su tutto questo un pensiero, improvviso, categorico, terribile: questa è la tua ultima occasione. Non puoi fallire. Se fallisci, domani non ci sarà più la possibilità d’una rivincita. Subito dopo aver tagliato la linea bianca il Giro si scioglierà, nell’aria di festa dell’ultimo giorno, e i conti saranno fatti: chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro. O vinci stavolta o non vinci più.

All’alba Mario s’era svegliato con una strana sensazione. Guardò quasi con stupore lo spettacolo delle alte montagne che chiudevano la vallata d’ogni lato, e la nebbia che si sfilacciava sui boschi di pini e d’abeti. Quello era il gran giorno. Con una discesa mozzafiato il Giro sarebbe atterrato all’ultimo traguardo giù nella pianura, in vista del mare azzurro. Una tappa di duecentocinquanta chilometri, una tappa veloce, quasi frenetica, lanciata verso la conclusione della volata finale. Una tappa che, essendo l’ultima, erano in molti, in troppi a voler vincere ad ogni costo. Così, quando alle nove del mattino le operazioni preliminari della corsa furono concluse e la carovana prese il via lasciando quello scenario silenzioso e imponente in mezzo alle montagne, tutti sapevano in cuor loro che ci si avviava verso un finale incandescente.

I grandi platani verdeggianti schizzavano via sui due lati della strada come risucchiati dal vento, mentre il gruppo sparato dei corridori entrava sfiorando i cinquanta all’ora nel lunghissimo viale conclusivo. Per tutta la giornata il tempo era stato variabile e dieci chilometri prima dell’arrivo era scoppiato il temporale. La pioggia cadeva a torrenti e le ruote delle biciclette la ripescavano dalle pozzanghere e dal lucido asfalto per farla nuovamente mulinare sulle schiene incurvate dei corridori. Coi volti ridotti a maschere di fango, i menti sgocciolanti e gli sguardi torvi, i velocisti stavano risalendo verso le posizioni di testa per disputarsi la volata. Che sarebbe stata una volata, come si dice in gergo, col coltello sotto la sella, lo si poteva intuire facilmente già dai loro occhi, ma l’atmosfera era talmente elettrizzata che la battaglia imminente si poteva addirittura respirare.

L’ultimo sprint di un Giro d’Italia scatena gli appetiti più furiosi, quelli di chi è assetato di rivincita, ed è sempre uno sprint selvaggio perché molti velocisti si sono ritirati sulle montagne e il traguardo conclusivo stuzzica le velleità anche di quelli che velocisti non sono, ma che son disposti a supplire con una temerità pazzesca al difetto di spunto veloce. Con un tempo da lupi come quello, poi, era chiaro a tutti che la giuria non avrebbe potuto far rispettare molto il regolamento e che se ne sarebbero viste di tutti i colori dopo lo striscione dell’ultimo chilometro. Perciò, chi pazzo non era e chi, per motivi di classifica, non aveva più nulla da guadagnare e tutto da perdere, cedeva il passo e si lasciava prudentemente scivolare verso il fondo del gruppo. Anche la maglia rosa fece così, e la imitarono tutti quelli che in classifica generale avevano qualcosa da difendere. Il campo era rimasto libero per i disperati dello sprint.

Per tutta la tappa un pensiero aveva martellato la mente di Mario: "È la tua ultima occasione. È l’ultima occasione. Non puoi mancarla." Non ci sarebbero più state prove d’appello: il suo futuro stesso di corridore dipendeva ormai da quel traguardo. Una sconfitta dopo l’altra, era arrivato veramente sull’ultima spiaggia. All’inizio del Giro aveva incolpato dei suoi insuccessi la sfortuna. Poi, la bicicletta ("ho sbagliato rapporto", aveva ripetuto, lui stesso sempre meno convinto). Infine aveva accusato gli avversari di aver ordito una congiura per farlo perdere a tutti i costi. "Van Bosch e Carstens son decisi a non farmi passare e pur di riuscirci sono disposti a perdere anche loro", s’era lamentato una volta. Ma i fatti l’avevano smentito quando sia l’uno che l’altro avevano vinto e lui era arrivato rispettivamente solo terzo e quinto. Adesso non restava più alcuna scusa da mettere avanti. Non poteva tirar fuori la sfortuna, anche se fosse stato verissimo, perché un velocista perseguitato dalla sfortuna è tutt’al più patetico, ma deve smettere di chiamarsi velocista. Il velocista è un cavallo di razza ed è chiamato a vincere, sempre.

Perciò era tanto più difficile vincere adesso, pensava tra sé Mario nel diluvio del violento acquazzone. Vincere dopo tante sconfitte è come andare in salita, bisogna spezzare un incantesimo: occorre uno sforzo tre volte maggiore che per chi è abituato alla vittoria. E la pioggia non migliorava certo le cose. A parte quella gelida doccia sui muscoli tesi al massimo dopo quasi 250 chilometri di corsa velocissima, l’asfalto liscio come cristallo moltiplicava il pericolo e stimolava le segrete ambizioni di chi in condizioni normali non avrebbe nemmeno osato pensare alla volata. Adesso invece vi sarebbero stati almeno venti corridori disposti a giocarsi l’osso del collo per quel traguardo.

Mario aveva messo gli occhi sul belga De Ritter, che gli sembrava in gran forma, e a due chilometri dal traguardo aveva preso la sua ruota. De Ritter infatti lo aveva ottimamente pilotato fin verso gli ottocento metri, ma poi era successo il caos. Mai vista una cosa del genere. La volata era stata lanciata lunghissima da tre o quattro corridori contemporaneamente, ed era accaduto di tutto. Obart aveva afferrato Mario per la maglietta per tirarlo indietro; Carstens si era appoggiato a tutta forza sulla spalla di Van Bosch per prendere lo slancio; e subito dopo, sulla sinistra dell’ampio viale alberato, c’era stata una caduta spettacolare. Un gruppo di corridori s’era letteralmente alzato sull’asfalto, aveva preso il volo come un grappolo di palloncini colorati ed era poi ripiombato sul resto del gruppo. De Ritter che veniva subito dietro aveva scartato con prontezza e per una questione di millimetri aveva dribblato il groviglio di corpi e di biciclette, e Mario che lo tallonava come un’ombra aveva così potuto evitare il peggio. In quelle condizioni la pattuglia di testa aveva imboccato l’ultima curva, a 500 metri dal traguardo.

Van Bosch era entrato nella curva a velocità da rettilineo, come uno intenzionato a suicidarsi, e non aveva potuto evitare l’urto col piedistallo d’una transenna, volando come un proiettile al di là di quest’ultima. All’uscita della curva era partito fortissimo Carstens, con Obart nella scia. Mario era schizzato fuori dalla ruota di de Ritter, aveva saltato il suo battistrada e si era lanciato nella folle rincorsa.

Prima della volata si era imposto di attendere col massimo sangue freddo e di non partire a nessun costo per primo, perché quello di iniziare lo sprint troppo da lontano era il suo maggior difetto; così quando aveva visto l’olandese scattare era stato prontissimo a venir fuori a sua volta. Ma de Ritter vedendosi così rimontato aveva avuto un’impennata inattesa, gli era tornato sotto e aveva cercato di respingerlo con due potenti spallate. Mario aveva sbandato ed era stato a un pelo dal capitombolo disastroso: aveva però conservato il sangue freddo di non frenare sul bagnato, ed era così riuscito a salvare l’equilibrio. Allargandosi verso la sinistra della strada aveva poi nuovamente superato De Ritter, ma aveva perso almeno due preziosissimi colpi di pedale. Dieci metri più avanti, Obart era uscito dalla ruota di Carstens e lo aveva rimontato quasi del tutto. I due stavano lottando gomito a gomito, a duecento metri dal traguardo. Strapazzando il manubrio con furia selvaggia, Mario s’era gettato nella loro scia.

Gli ultimi metri di quella volata spettacolare furono veramente mozzafiato. Il pubblico sotto la foresta di ombrelli vide la maglia verde di Mario ripiegarsi sul telaio della bicicletta in uno sforzo spasmodico. Non era un corridore con la sua bicicletta, ma un essere turbinante costituito da un manubrio, due gomiti, due ruote e due ginocchia in scatenata progressione. Disunendosi per la fatica, ondeggiando sulla sella con tutto il corpo ora da una parte ora dall’altra, masticando pioggia e fanghiglia rimontava metro su metro, divorando la strada. Il riflesso dell’acqua sull’asfalto creava simultaneamente una seconda volata alla rovescia, nella quale le sagome sfumate dei tre corridori di testa tremolavano pazzamente e sembravano dover cadere ad ogni pedalata.

Obart fu il primo a vedere la rimonta di Mario con la coda dell’occhio e staccandosi un poco da Carstens mise in fuori il gomito sinistro, cercando di ostacolarlo quanto più poteva. Mario dovette perciò allargarsi sulla sinistra e ai cento metri dal traguardo era ancora nettamente distaccato e pareva irrimediabilmente tagliato fuori, ancora una volta. Allora innestò il massimo rapporto, il 54 x 14 (2), un rapporto spaccagambe che un velocista puro come lui non aveva mai osato adoperare, pestò coon furia selvaggia sui pedali e ai dieci metri con tutta la forza delle braccia e del busto proteso in avanti sferrò il colpo di reni. Si vide la sua bicicletta volare addirittura sulla strada lucente e piombare sulla fettuccia bianca contemporaneamente a Obart e Carstens. Un istante dopo passò mulinando tutto il gruppo.

Una cosa simile non si era mai vista. Era accaduto talvolta che due velocisti tagliassero nel medesimo istante il traguardo, ma tre, questo era un caso assolutamente eccezionale. Adesso ci sarebbe voluto il fotofinish per giudicare quale delle tre ruote avesse in realtà preceduto le altre due sulla striscia bianca. Irriconoscibile per l’acqua, il fango e la fatica, Mario era andato a fermarsi molto oltre il palco della giuria. I meccanici l’avevano aiutato a smontare e a fatica era arrivato a sedersi al riparo dalla pioggia nella macchina della sua squadra. Silvano gli aveva subito messo una coperta sulle spalle fradice di pioggia e di sudore, per evitare che da fermo si prendesse un raffreddore. E lì, abbandonato senza più fiato sul sedile, attendeva al massimo della tensione che l’altoparlante dalla tribuna rompesse la sua penosa incertezza.

"Che volata, Mario – lo complimentava entusiasta Silvano -, che volata! La più bella della tua vita, comunque vada."

Tirando il respiro a fatica, lui si era voltato a guardare il massaggiatore e aveva bisbigliato in un soffio, bianco come un lenzuolo. "Comunque vada un corno. Non mi sono mai impegnato tanto, più di così non potevo proprio, nemmeno un millimetro a tirarlo fuori con l’anima. Ma se ho perso di nuovo, se ho fatto solo secondo o magari terzo…", e non aveva osato terminare la frase.

Sul viale oltre il traguardo era ormai sfilato tutto il gruppo, anche le vittime della paurosa caduta stavano tagliando la linea bianca per gran parte a piedi, trascinando le biciclette sconquassate. Incredibilmente, nessuno si era fatto troppo male: nemmeno Van Bosch. I pazzi, gli ubriachi e i velocisti hanno il loro speciale santo protettore. Il pubblico aveva superato le transenne e invaso la strada., la confusione era indescrivibile. Dall’alto del palco, fradicio e felice, il campione in maglia rosa baciava le ragazze e agitava un gran mazzo di fiori verso la folla paludente.

"Vuoi salire sul palco? – gli domandò Silvano. – Sei comunque fra i primi tre, ne hai diritto. E poi è ora che i tuoi tifosi ti vedano lassù una buona volta."

Mario aveva scosso il capo, rovesciando la testa all’indietro e fissando il soffitto dell’automobile. "Che ci vado a fare, se non ho vinto? A sorridere per dire. ‘Sono contento di essere arrivato secondo? No grazie. Sono un velocista, il mio mestiere è vincere. Aspetto qua."

Il ritardo del comunicato ufficiale era ormai notevole. Lo speaker aveva già da tempo annnunciato la classifica generale dei primi dieci corridori, perché nelle tappe

2) Cioè, cinquantaquattro metri per pedalata.

che finiscono in volata tutti i corridori sono accreditati con lo stesso tempo del vincitore. Ma la classifica di tappa tardava ancora. I giudici stavano esaminando per la quarta o quinta volta il filmato degli ultimi venti metri al rallentatore. Una cosa era certa: Obart non aveva vinto. Era piombato sulla fettuccia con una manciata di centimetri di ritardo sugli altri due, il terzo posto quindi era suo. Carstens e Mario invece, i due implacabili avversari, pareva fossero volati, questa era la parola esatta, contemporaneamente sul traguardo. Tirando gli occhi, e rivedendo una quantità di volte il fotofinish, finalmente i giudici di gara si misero d’accordo sul fatto che uno dei due aveva battuto l’altro e sia pure di un’inezia, qualcosa come una gomma, un niente insomma: ma quel niente che decide tutto.

Sempre seduto nell’automobile, Mario udì finalmente l’altoparlante rimettersi a gracchiare. "Attenzione, prego. Dopo aver esaminato il fotofinish della volata – scandì la voce metallica dello speaker, con lentezza esasperante – la giuria ha composto il seguente ordine d’arrivo della tappa." E qui fece una nuova, intollerabile pausa, un silenzio lungo un’eternità – o forse appena un istante? In tono solenne, la voce nell’altoparlante riprese con forza: "Primo,…".

Mario udì come proveniente da un altro pianeta la voce metallica che pronunziava il suo nome senza particolari inflessioni e proseguiva veloce: "Secondo Carstens, terzo Obart, quarto…".

Fissando il volante dell’automobile innanzi a sé, frastornato, incredulo, Mario sussurrò con un fil di voce: "Ripetimelo, Silvano. Dimmi che è vero."

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Sam Mgrdichian su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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