
L’unità dell’essere: i termini del problema
16 Maggio 2006
Oltre il paradigma sviluppista
31 Maggio 2006Viene qui riportata la Seconda Parte del libro "L’unità dell’Essere" di F. Lamendola, editore Lalli, Poggibonsi (Siena), 1985, pagg. 69-98.. Il volume è da tempo esaurito; chi fosse eventualmente interessato può mettersi in contatto con l’Associazione Eco-Filosofica.
L’IDEA DUALISTA E’ INSOSTENIBILE.
Il dualismo di spirito e materia, di infinito e finito implica una situazione di dolore esistenziale. L’uomo si trova precariamente sospeso fra la terra e il cielo, anelante verso orizzonti di libertà infinita e, al tempo stesso, gravato dalla materia nella servitù umiliante della limitatezza e dell’insufficienza.
La filosofia indiana ha preso le mosse da questo travaglio, da questa sofferenza per postulare la non-esistenza reale del dualismo, e per indagare le vie che portano alla liberazione, ossia alla ricostituzione dell’unità dell’Essere. Ma la concezione monistica del reale non sarebbe che un pio desiderio, se fosse originata solamente dal desiderio consolatorio d’immaginare una esistenza non lacerata fra due opposti princìpi. È veramente troppo poco, per sostenere l’unità dell’Essere, dire che la vita è dolore e che quindi deve esistere una realtà extra-fenomenica ove il dolore cessa. Sappiamo bene che anche nella filosofia occidentale classica, l’argomerntazione privativa era tenuta in gran conto: il mondo è finito, dunque dev’esservi un principio infinito; il mondo è disordine, dunque deve esistere un ordine supremo… Ma oggi, fortunatamente, non si è più tanto sicuri della bontà d’una simile dialettica. O meglio, la sua validità resta sostanzialmente accettabile nell’ambito del finito: se io ho sete, vuol dire che l’acqua esiste; se giudico una cosa piccola, vuol dire che possiedo la nozione del grande, per quanto relativa. Ma nella sfera dell’infinito?
Continuando il paragone testè fatto: per esistere, la vita ha bisogno di luce, di calore, di acqua innanzitutto; ma si potrà dedurne che la vita, nell’universo, deve piegarsi alle nostre presuntuose leggi di formichine cosmiche? Non possono darsi altre infinite forme di vita, diverse da quella che noi conosciamo, e indipendenti dal bisogno di luce, calore e umidità che noi abbiamo? Non si tratta di giocare agl’indovinelli con ipotesi gratuite di vita aliena; si tratta di conservare un minimo di umiltà speculativa. Che cosa è più ridicolo: l’idea di un essere extraterrestre che non abbia necessità di luce, calore e acqua, oppure un Dio che debba per forza pensare in termini matematici (preferibilmente di geometria euclidea), come pretendeva Galilei e, con lui, come pretende tutto il moderno pensiero scientista?
Dunque, possiamo tranquillamente escludere che la sofferenza esistenziale implicita nel dualismo sia di per sé stessa una argomentazione metafisica contro il dualismo. Non lasciamoci sopraffare dall’ansia di redenzione e lasciamo cadere l’argomentazione classica della filosofia indiana. Vi sono altre vie per arrivare a una negazione metafisica del dualismo. In sostanza, possiamo concentrare la nostra attenzione su due ordini di ragionamento: quello logico e quello etico. Logico: il dualismo è dispersione, dunque negazione della economia: pertanto, esso è anche illogico.
Osserviamo in primo luogo la natura: essa è regolata dal principio del massimo risultato con il minimo dispendio d’energie. All’origine del cristallo – la forma più alta raggiunta dall’evoluzione del regno minerale – vi sono dei processi chimici in cui nulla è di troppo, reiterato, inutile, ma tutto è dosato con sapiente semplicità. La stessa cosa si osserva ai due vertici delle piramidi evolutive vegetale ed animale: le fanerogame angiosperme e l’ordine dei mammiferi. In tutti questi casi, la natura ha raggiunto i risultati più complessi impiegando il minimo indispensabile di materia ed energia. E la stessa cosa si può osservare anche alla base del processo evolutivo, così come lungo un qualsiasi stadio intermedio di esso. Quando due forme viventi giungono a un determinato scopo seguendo due strade differenti, è fatale che una di esse – quella più dispendiosa e complessa – venga gradualmente sopraffatta ed eliminata da quella più semplice. La natura si sbarazza del sovrappiù. Lo struzzo che si procura il cibo con la velocità e la potenza delle sue zampe di uccello corridore non ha più bisogno delle ali: e le ali si rattrappiscono, cominciano a scomparire. Il formichiere sud-americano, che non ha praticamente avversari nella lotta per la sopravvivenza, partorisce un solo piccolo: di più non vi sarebbe bisogno. Immaginarsi un uccello al tempo stesso volatore e corridore, o un qualsiasi animale al tempo stesso competitivo e prolifico, significherebbe attribuire alla natura una linea di tendenza anti-economica e perciò dispendiosa e illogica.
Ma non solo nel campo della natura le cose vanno così, questo avviene anche nel campo dello spirito. Chi di noi, potendo razionalizzare la propria attività, sceglie deliberatamente una via più complessa per raggiungere il proprio fine? Chi, potendo ottenere il proprio scopo con dieci, vorrà adoperare venti? Anche quando ci discostiamo dalla soluzione più semplice, lo facciamo sempre in vista di uno scopo ulteriore, complesso, senza mai intenzionalmente sovraccaricarci di una fatica inutile e illogica. Ebbene, inutile e illogico è un Essere duale: inutile e illogica una dispersione reale, ontologica, tra materia e spirito, tra finito e infinito. Non v’è alcuna ragione per la quale entrambi i termini debbano esistere effettivamente: uno è più che sufficiente. Come le zampe sono sufficienti allo struzzo senza più bisogno delle ali, come un solo piccolo è sufficiente alla riproduzione del formichiere. Immaginare diversamente significa andare contro l’economia e contro la logica. E poiché, dei due princìpi, deve prevalere lo spirituale sul materiale (perché lo spirituale può includere il materiale, o l’illusione del materiale, ma non potrà mai accadere il contrario), allora sarà la materia a dover essere concepita come non necessaria, dunque anti-economica ed illogica, rispetto all’Essere.
È inevitabile che la nostra concezione debba risentire del nostro antropomorfismo speculativo. Noi ci immaginiamo Dio come perfetto, dunque scartiamo l’idea che da lui possa originarsi qualche cosa d’inutile e d’illogico. Ma non è l’antropomorfismo che abbiamo rifiutato prima, nell’argomentazione privativa. Razionalmente parlando, l’Essere può anche essere dolore – come lo è la vita – e quindi potrebbe anche essere duale. Ma ciò che non possiamo pensare dell’Essere, è che esso sia illogico più di quanto lo sia la vita. In altre parole: è assurdo concepire Dio come meno saggio dell’apparato riproduttore d’un formichiere, per il semplice fatto che la materia non può possedere una logica intrinseca superiore a quella dello spirito. Diciamo subito che questa affermazione non è dimostrabile: essa fa leva sul sentimento più profondo della nostra intelligenza, e basta. Questo sentimento ci suggerisce che lo spirituale contiene il materiale e non viceversa, e che perciò lo spirituale sarà sempre più economico e più logico del materiale. Potrà magari (e questa è l’estrema soglia cui possa spingersi il pensiero) esserlo in misura uguale; ma di meno, questo non lo può concepire.
Il secondo ordine di ragionamento a favore del monismo e contro ogni forma di dualismo è invece, come dicemmo, quello etico. Abbiamo sostenuto che la dispersione è inutile e illogica, e sommamente inutile ed illogica lo sarebbe, riferita all’Essere. Ora aggiungiamo che sarebbe anche immorale. Perché? Immaginiamo un essere umano che compia deliberatamente qualche cosa di dispersivo: ad esempio che, volendo procurarsi del ghiaccio, non lo vada a prendere nella ghiacciaia, che pure possiede, ma che attenda per mesi e mesi l’arrivo dell’inverno, onde staccare una lastra di ghiaccio dalla fontana del suo giardino. Di lui si potrà dire che ha seguito una strada inutile ed illogica per arrivare allo scopo che si era prefissato. Ma ora, invece, immaginiamoci un essere umano che stia per annegare nelle acque di un lago profondo, e un altro essere umano che, sulla riva, invece di porgere una mano al disgraziato e trarlo a sé – cosa che potrebbe fare senz’altro e senza alcun pericolo – gli dica invece con tutta calma di non preoccuparsi, perché andrà in cerca di un telefono e avvertirà le guardie forestali. Cosa dovremo dire di questo secondo essere umano: che ha agito in modio inutile e illogico? Anche, forse; ma soprattutto che ha agito in modo irresponsabile e, quindi, immorale. Gli sarebbe bastato allungare una mano per salvare una vita umana, e lo ha evitato deliberatamente.
Infine, spostiamo la nostra riflessione su Dio. La vita quaggiù nel mondo non è uno scherzo, come lo è avere o no del ghiaccio per gustare più dolcemente un bicchiere di una bevanda forte. Al contrario, è questione di vita o di morte ogni giorno, ogni ora. Ogni giorno, ogni ora migliaia e milioni d’individui – umani e non umani – nascono, soffrono, si ammalano e muoiono. Il principio di questa vita così affascinante, ma anche così drammatica, non può essere dispersivo, perché ciò sarebbe non solo inutile ed illogico, ma benanco sommamente immorale. L’uomo può permettersi, in certe situazioni, di sprecare il proprio tempo e la propria intelligenza: Dio no, mai. Un Dio ozioso poteva immaginarselo l’irriverente mitologia greca (e già Platone condannava l’immagine delle divinità che presentano i poemi omerici), ma esso ripugna così tanto al nostro più profondo sentire, che solo quando siamo maggiormente gravati dal fardello del dolore ci sfugge l’esclamazione, che noi stessi avvertiamo essere irrazionale: "Dio ci ha dimenticati!". E proprio questa è la conferma indiretta – sicura quanto lo è l’istinto – che la presenza infinitamente attenta e infinitamente potente di lui viene sentita costantemente nella nostra vita, sia che vi intervenga direttamente, sia che, pur tutto conoscendo e tutto potendo, non lo faccia. Eppure Dio, si dirà, ha dei suoi fini da realizzare attraverso di noi. Certamente: ma forse che per realizzare un qualunque suo fine per mezzo nostro, ha egli bisogno d’una sostanza materiale indipendente, che esista in sé e per sé, e che si ponga fuori di noi e fuori di lui? Pensare questo, significa pensare da bambini.
TRE PORTE CHIUSE, TRE PORTE APERTE.
L’Essere che noi immaginiamo, dunque, è l’essere non duale, l’Uno – cui solo spetta, anche sul piano logico, l’appellativo pieno di Essere; e codesto Uno lo concepiamo, per le ragioni anzidette, di natura puramente spirituale.
Eliminata la materia, resta evidentemente da chiarire il rapporto che esiste fra l’essenza dell’Uno e la sua manifestazione; ossia, in parole povere, tra lo Spirito Infinito e gli spiriti finiti, tra Dio e le menti individuali. Non porterà, questa distinzione, a una reintroduzione inconfessata del dualismo?
Prima di affrontare tale delicata questione, attorno alla quale ruota l’essenza stessa del monismo, riteniamo sia necessario sgombrare il campo da tre illusioni capitali della conoscenza: lo spazio, il tempo, il principio di causa ed effetto. Esse sono come tre porte chiuse, che si negano alla nostra comprensione e ci fuorviano con idee ingannevoli e illusorie. Spazio, tempo e principio di causalità sono i tre pilastri del realismo e, in genere, di ogni concezione materialistica della realtà, e imprigionano la mente in una strada senza uscita. Una volta negata la realtà indipendente della materia (per le ragioni logiche ed etiche anzidette), come necessaria conseguenza anche quei tre pilastri devono esserre gettati nella polvere. Finchè continuiamo a ragionare dell’Essere, stando all’interno dei concetti di spazio, tempo e causalità, continueremo a bussare a tre porte chiuse, illudendoci che prima o poi ci verranno aperte – o, magari, di averne già varcata la soglia. Ma non è così.
Tentare di concepire l’Essere, significa sforzarsi di entrare nella sua logica, e desistere, una buona volta, dal ridicolo tentativo di imporgli la nostra. Il tempo in cui filosofi come Hegel comandavano a bacchetta alla metafisica e ne disvelavano dall’esterno il meccanismo, e perfino i suoi piccoli trucchi ("l’astuzia della Ragione"!), è finito per sempre. Ma ora ecco che, subito, ci si leva contro l’obiezione: "Come possiamo tentar di entrare nella logica dell’Essere, noi che inevitabilmente siamo condannati a pensare tutto il reale con i meccanismi conoscitivi propri della nostra?"
Ebbene: che cosa fa l’esploratore tenace, che si trovi chiusa la porta? È una porta grande e massiccia, antica come il mondo; non può certamente pensare di abbatterla a spallate. Cosa farà allora? Se è un borioso imbroglione, si metterà a congetturare su quel che potrebbe esserci al di là, e poi andrà in giro a gridare ai quattro venti d’averla oltrepassata, magnificando la sua "scoperta" sensazionale. Ma se è un ricercatore serio e dotato d’immaginazione, comincerà invece a tastare ogni angolo del portone, alla ricerca di un punto debole nella poderosa struttura, di un insperato passaggio.
Chi non ha mai visto quei grandi portoni delle antiche case signorili, o anche quelli di certe case di campagna, grandi abbastanza da lasciar passare carri agricoli o carrozze, ma che hanno al loro interno una porta che viene normalmente adoperata per il passaggio delle singole persone? Ebbene, forse – tastando attentamente – il nostro esploratore potrà appunto scoprire una porticina del genere, non chusa ma solamente accostata, nella vasta superficie del massiccio portone a due battenti. Quel che vogliamo dire è che, forse, la logica per passare nel piano dell’Essere, e uscire dal modo di pensare tipico del nostro, esiste ed è proprio là dove non si pensa affatto di cercarla: all’interno della nostra logica. Ma non in un punto qualsiasi, come diceva quel maestro Zen, secondo il quale tutto il cosmo è contenuto in un granello di sabbia: la porticina non è grande quanto l’antichissimo portone, pertanto non è indifferente il punto che si sceglie per scoprirla. Dove cercare, allora; come localizzare codesto punto? Esattamente nel piano d’intersezione tra le due realtà qualitativamente, e non quantitativamente diverse: Dio, Spirito Infinito, e noi, spiriti finiti.
L’origine del nostro errore consiste nel fatto che, ingannato dalla supposta esistenza ontologica, reale, dello spazio, del tempo e del principio di causalità, finiamo per ragionare dell’Essere in termin i quantitativi. Così, noi siamo soliti immaginarci l’infinito come uno spazio esteso illimitatamente; l’eterno, come una durata di tempo che si prolunga per sempre; la causa e l’effetto, come due termini separati e distinti. L’origine di ciò risiede nel fatto che il pensiero, per sua natura, pensa per immagini; di conseguenza, materializza l’infinito come uno spazio moltiplicato all’ennesima potenza; temporalizza l’eterno come un tempo elevato, anch’esso, all’ennesima potenza; e spezza e duplica l’atto puro, raffigurandoselo come un questo e un quello, un prima e un poi. Noi dunque dovremmo, per prima cosa, sopprimere la falsa immaginazione del pensiero, che dà origine a codeste illusioni. Non che potremo mai pervenire nella sfera del pensiero totalmente astratto: questo è impossibile nella nostra presente condizione, e sarà – piuttosto – il risultato della nostra riunificazione finale con l’Essere. Dovremo invece tenerci in bilico fra pensiero immaginativo e pensiero astratto, seguendo il piano d’intersezione fra le due realtà, o meglio fra i due piani dell’unica realtà. E qual è codesto piano d’intersezione? Esiste un piano in cui il finito tocca, per così dire, l’infinito; in cui il temporale tocca l’eterno; in cui la causae l’effetto ci si manifestano quali realmente sono, atto puro unico e indivisibile? Esiste, e ora tenteremo di rappresentarlo. In codesto piano le tre porte chiuse dello spazio, del tempo e del principio di causalità ci svelano, all’interno di sé medesime, tre porticine socchiuse, che introducono nel piano dell’Essere puro. Queste tre porte aperte sono, rispettivamente, il punto, l’istante e l’intuizione.
Il punto esprime l’idea che ci permette di superare la concezione inadeguata dell’infinito come estensione senza limiti. In effetti, l’infinito non è spazio interminabile: ciò sarebbe un’idea ancora quantitativa dell’Essere. Al contrario, l’infinito è assenza totale, assoluta di spazio. Il punto simboleggia bene questo concetto. Infatti esso è, da un lato, rappresentabile alla immaginazione, poiché si trova localizzato nello spazio; ma al tempo stesso rinvia al pensiero astratto, dal momento che è, a ben guardare, inafferrabile, e dunque già trascende la realtà spaziale. Il punto è inesteso: ciò significa che esso è rappresentabile materialmente solo a prezzo di una astrazione, di una convenzione simbolica. Possiamo porlo in una certa parte di un foglio bianco, ma in realtà quel che abbiamo raffigurato non è il punto vero e proprio, bensì una sua rappresentazione convenzionale. Essa non è il punto in se stesso, più di quanto il piccolo disegno di due spade incrociate non localizzi, su un atlante storico, la realtà concreta di una determinata battaglia, per esempio la dodicesima battaglia dell’Isonzo, ossia quell’evennto concreto accaduto il 24 ottobre del 1917 in quella precisa località delle Alpi Giulie, e in nessun altro tempo e luogo. Il punto, dunque, è un simbolo; ma in che modo esso può costituire una porta aperta sulla esatta comprensione del concetto d’infinito? Nel modo che è proprio della geometria, ossia costruendo le figure. Le figure sono spazializzate, costruite cioè per mezzo di punti infiniti; eppure i singoli punti non hanno estensione! Ecco il piano d’intersezione tra finito e infinito, tra apparenza ed Essere: con un piede il punto è ancora al di qua, è spazio misurabile e quantificabile, perché da esso prendono origine le forme estese; ma con l’altro piede è già al di là, è nella sfera dell’inesperibile e dell’inesprimibile: chi può misurare, chi può localizzare ciò che non ha estensione? Ebbene, il punto è lo spiraglio che l’esperienza fenomenica apre sulla realtà incommensurabile dell’infinito: incommensurabile non perché sia impossibile misurare ciò che non finisce mai, ma perché è impossibile misurare ciò che non ha affatto estensione. L’infinito non è uno spazio "troppo grande" che potremmo riuscire a quantificare il giorno in cui disponessimo di strumenti di misurazione adeguati, ossia anch’essi infiniti; no: è assenza radicale di spazio, è realtà "altra", inimmaginabile alla luce della nostra esperienza, basata sui tre illusori pilastri del mondo fenomenico. Il punto, quindi, non va interpretato come un ponte sull’infinito, che partendo dal finito, cioè dallo spazio, passetto dopo passetto si possa prolungare illimitatamente: questa è l’idea della geometria, ma la geometria è pur sempre all’interno della illusione tridimensionale. Il punto, al contrario, deve essere pensato come uno spiraglio attraverso il quale sia possibile compiere un salto qualitativo senza ritorno, un po’ come – secondo la teoria dei "buchi neri" – esiste una soglia oltre la quale si viene risucchiati entro una dimensione totalmente nuova e diversa. Il punto, dunque, è una finestrella inquietante, ma preziosa, aperta sull’infinito mistero dell’Essere.
Un ragionamento del tutto analogo deve essere fatto a proposito dell’istante. L’eterno non è durata interminabile del tempo, bensì assenza totale e assoluta di tempo, e l’istante è la porticina dischiusa su di esso, come il punto lo è nei confronti dell’infinito. Per comprendere come ciò sia possibile, occorre considerare l’istante contemporaneamente sul piano del temporale e su quello dell’eterno (esso è infatti il piano d’intersezione fra le due realtà), così come abbiamo considerato il punto al tempo stesso sul piano dello spazio e su quello dell’infinito. È chiaro che Zenone di Elea barava al gioco quando sosteneva l’impossibilità spazio-temporale del movimento (coi due celebri esempi del veloce Achille che mai avrebbe potuto raggiungere la tartaruga, e della freccia che mai avrebbe potuto raggiungere il bersaglio), poiché considerava il punto-istante ora sul piano materiale, ora – e separatamente – su quello metafisico. Non così, ma insieme: solo allora essi si riveleranno uno spiraglio aperto sull’Essere, e fecondo di risultati. Che cosa è l’istante? Dal punto di vista del temporale esso è durata, e sia pure durata infinitamente breve: e che sia durata, lo dimostra il fatto che il tempo medesimo è la risultante di una serie infinita d’istanti, così come lo spazio è la risultante di una serie infinita di punti. Ma considerato dal punto di vista dell’eterno, l’istante non è nulla. Non ha durata, così come il punto, dal punto di vista dell’infinito, non ha estensione. Chi infatti potrà dire dell’istante: "Eccoti, ti ho preso"? Non si fa in tempo a dirlo ch’esso è già passato, sfumato, cancellato; e più si tenta di afferrarlo, e più ci sfugge, così come più si stringe in pugno la sabbia, e più in fretta essa fugge inarrestabile tra le dita. Dell’istante possiamo dire quel che diceva Agostino del presente in generale: che, pur essendo la realtà fondamentale del tempo (a differenza del passato, che non è più, e del futuro, che non è ancora), esso medesimo non ha consistenza cronologica, ma soltanto metafisica.
Dunque, utilizzando questa porticina aperta sull’Essere, noi arriviamo a capire che l’eterno non è in alcun modo durata che si prolunga senza limiti di tempo, ma, al contrario, che è assenza radicale di tempo. Quando la nostra immaginazione avrà realizzato il salto nel pensiero astratto (non però in forma completa, perché questo è impossibile fin tanto che si è immersi nel continuum spazio-temporale), e avrà inteso l’eterno a questo modo – che esce da tutti gli schemi della conoscenza fenomenica – allora anche il mistero della prescienza divina cesserà di apparirci come un mistero. Pensare che la prescienza di Dio sia un attentato alla nostra libertà di volizione significa tornare a separare i due piani, come nel caso della freccia di Zenone. Significa immaginare che nell’eterno presente di Dio sia già realizzato ciò che poi, nel tempo, l’uomo finirà per compiere. Ma se il tempo, in sé e per sé, non esiste; se è solo un’illusione autoperpetuantesi, mentre di reale vi sono che l’infinito e l’eterno: allora risulterà chiaro che anche le singole volizioni individuali sono, fuori del tempo, eternamente presenti alla mente di Dio, e pertanto né Dio le determina anticipatamente, né esse possono successivamente modificare la sua previsione. Gran parte dell’equivoco, in effetti, trae origine dalla inadeguatezza del linguaggio umano: quando parliamo di "prescienza" o di "previsione", quel prefisso per eccellenza, "pre", automaticamente ci fuorvia, facendoci immaginare che vi siano un prima e un poi. Così accade – o meglio, così sembra che accada – ragionando all’interno del tempo, ossia all’interno dell’illusione: ma la realtà assoluta è fuori di esso, nell’eterno, e questo non può essere modificato dal tempo più di quanto le ombre cinesi possano modificare la superficie dello schermo su cui vengono proiettate.
Per disperdere la terza, grande illusione del mondo fenomenico, il principio di causa ed effetto, occorre seguire un ragionamento in parte diverso. Spazio e tempo, così come infinito ed eterno, sono delle entità, dei dati, mentre la causa e l’effetto configurano un movimento, ossia un atto. La celebre critica di Hume al principio di causa ed effetto, basata sul concetto di abitudine, si riduce – a ben guardare – a un misero senno del poi: essa rimane all’interno del fenomeno, e all’interno del fenomeno non è che un cavillo dire che B non è l’effetto di A, ma è semplicemente ciò che viene dopo di A. Anche in questo caso, noi dobbiamoo cercare un punto che sia in bilico tra le due sfere, quella del divenire e quella del permanente, perché solo così verrà schiusa la porta che dal fenomeno conduce all’Essere. Questo punto sospeso nel vuoto deve essere ricercato con particolare prudenza: si fa così presto a trovare qualcosa ove sembra che la causa e l’effetto coincidano, ma soltanto nel regno delle parole. Se, per esempio, diciamo che questo punto è la morte, perché essa causa la fine della vita, tanto quanto la fine della vita causa la morte, noi abbiamo costruito un ingegnoso gioco di parole, ma non abbiamo aperto alcuna porta. E potremmo fare molti altri esempi di questo tipo.
Forse, dopo averli analizzati tutti, ci troveremmo d’accordo sul fatto che in una sola situazione si darà un caso di perfetta coincidenza, materiale e metafisica al tempo stesso, di causa e di effetto: e questo caso sarà quello dell’intuizione. Nell’intuizione, la pretesa concatenazione causale si spezza, grazie al fatto che essa intuizione è l’equivalente del punto nella dialettica spazio-infinito, e dell’istante nella dialettica tempo-eternità. L’intuizione è, per così dire, inestesa e atemporale, pur essendo il termine fondamentale del pensiero. Infatti non si può dire che l’intuizione sia la causa della conoscenza, più di quanto si possa dire che ne è l’effetto, ossia che la conoscenza è causa dell’intuizione. Platone, considerando come il pensiero vada alla ricerca di un qualcosa che in parte già conosce (altrimenti girerebbe a vuoto), ma non del tutto, perché in tal caso sarebbe già pago di sé, invocava la teoria della reminiscenza. Ma intuire non è ricordare: e noi possiamo quantomeno sospettare che lo schiavo ignorante del Menone platonico, poteva risolvere un difficile problema di geometria non perché ricordasse una sapienza esistenziale anteriore, ma semplicemente perché intuiva quella verità che – secondo le regole del sapere concettuale – avrebbe dovuto ignorare.
Ora, il principio di causa ed effetto si basa sulla distinzione fra il prima e il poi: è chiaro che se tale distinzione vien meno, anche il principio di causalità dovrà cadere. Nella intuizione, che non ha durata perché coincide con l’istante, diviene appunto impossibile distinguere la causa dall’effetto. Nessuno può precisare se io so risolvere il problema di geometria perché ne intuisco la soluzione, oppure se ne intuisco la soluzione perché lo so risolvere. Qui non è un mero gioco di parole, come nell’esempio fatto prima, della morte. È pura impossibilità del pensiero di stabilire una sequenza cronologica e, di conseguenza, un nesso causale. Solo se non si sa che cosa viene prima e che cosa dopo, non si è più in grado di distinguere la causa dall’effetto.
Possiamo cercar di visualizzare questo concetto con una immagine concreta, quella di una "volata" ciclistica. Immaginiamo due corridori che piombino sul traguardo contemporaneamente, tanto da non potersi in alcun modo stabilire una classifica; ma immaginiamo che vi piombino non già dalla stessa direzione, bensì provenienti da due direzioni opposte. In questo caso, le loro ruote taglieranno sì la linea bianca nel medesimo istante, ma ciò verrà annullato – come in una sequenza caleidoscopica – nell’istante immediatamente successivo. Se fossero partiti dal medesimo punto e fossero arrivati sul traguardo con pari velocità, avrebbero proceduto appaiati anche dopo aver tagliato la linera bianca; mentre, nel nostro caso, se ne allontaneranno in direzioni opposte, in progressione geometrica.
La coincidenza di causa ed effetto che si realizza nell’intuizione è qualche cosa di simile. L’intuizione è come un balenìo istantaneo; subito dopo, il ragionamento e l’attuazione pratica piglieranno ciascuno due strade diverse, obbedendo a tempi diversi; ma intanto l’intuizione sarà passata per sempre, non tornerà mai più una seconda volta. In termini puramente metafisici, la coincidenza della causa e dell’effetto si realizza solo in Dio, come voleva il filosofo indiano Vallabha, l’ultimo grande pensatore del Vedanta (si confronti il precedente articolo su "L’unità dell’Essere"). In questo senso, noi possiamo dire che il mondo del fenomeno (la natura) e il mondo che si rappresenta il fenomeno (noi, spiriti finiti) altro non sono che una intuizione di Dio.
ORIGINE DELLA ILLUSIONE FENOMENICA.
Prima di andare avanti, vogliamo ribadire che le tre "porte aperte" possono essere utili alla conoscenza, a patto che non le identifichiamo senz’altro con ciò che sta oltre di esse, cioè con l’Essere. Ricordiamo che il punto, l’istante e l’intuizione sono realtà per così dire sospese nel vuoto tra il piano del finito, della durata, del nesso causale, e quello dell’Assoluto. Di conseguenza, qualitativa e non quantitativa è la differenza che passa tra il punto e lo spazio, ma anche tra il punto e l’infinito; tra l’istante ed il tempo, ma anche tra l’istante e l’eterno; tra l’intuizione e la causa, ma anche tra l’intuizione e l’atto puro. Dimenticare ciò, anche solo per un attimo, significa andare incontro ai più gravi fraintendimenti. Attraverso il punto, l’istante e l’intuizione noi possiamo avere appena un piccolissimo lampo dell’Essere in sé e per sé; una intuizione fugace, non una conoscenza. Può darsi che l’intuizione sia, per usare la gentile espressione di Hegel, in polemica con Schelling, "un colpo di pistola" nel ragionamento filosofico; ma è meglio correre il rischio di sparare un colpo di pistola contro le pretese del pensiero astratto, che quello di costruire una nuova torre di Babele, dalla quale pretendere di giudicare fin nei minimi dettagli ciò che Dio è, e ciò che deve fare se vuol rispettare la nostra filosofia.
Così pure, quando diciamo che nell’ Essere la causa e l’effetto coincidono nell’atto puro, è chiaro che diciamo tutto e non diciamo niente, perché il nostro pensiero è strutturato in modo tale da non poter concepire un effetto senza causa, e viceversa. E la stessa insoddisfazione concettuale rimane inevitabilmente in noi, dopo che abbiamo definito l’infinto come assenza totale di spazio, e l’eterno come assenza totale di tempo. Ciò dipende da un duplice ordine di fattori. Il primo, cui abbiamo già accennato, è che il pensiero sempre pensa per immagini, e dunque all’interno della triplice illusione fenomenica, per cui è costituzionalmente incapace di liberarsi da essa, se non mediante un salto nel pensiero puramente astratto, ossia un salto nel buio. Il secondo è di natura non gnoseologica, ma ontologica. Noi abbiamo già messo in dubbio la necessità che l’Essere in sé debba sentirsi obbligato a rispettare le regole del mondo fenomenico, solo perché ciò appagherebbe la nostra presunzione speculativa (cfr. pag. 1 di questa seconda parte). Di conseguenza, nulla ci assicura che tra Dio e mondo fenomenico esista necessariamente un rapporto causale. Noi pensiamo così, perché la nostra mente non può evitare di pensare in termini di causa ed effetto; così come non può impedirsi di attribuire valore reale allo spazio e al tempo. Ma dal momento che, fuori del fenomeno, il nesso causale non ha consistenza metafisica, propriamente parlando Dio è al di là del principio di causa ed effetto, e quindi potrebbe esserlo benissimo anche il suo rapporto con il fenomeno. Ma qui ci fermiamo, perché su questa via il pensiero non può andare oltre.
Facciamo ora il punto della situazione. Avendo postulato un monismo spiritualista come condizione dell’Essere (o Dio, o Spirito Infinito, o l’Uno, o l’Assoluto, come indifferentemente lo abbiamo chiamato), il problema gnoseologico capitale rimane il seguente: donde ha origine l’illusione del mondo fenomenico, che cade sotto i nostri sensi? Questo, a sua volta, rinvia al problema ontologico. Un monismo assoluto esige che tutto parta da Dio e tutto a Dio ritorni; dunque, come si spiega il nostro illusorio avvertirci distinti da Lui? E questa illusione (problema etico) va intesa in senso assoluto o relativo? Perché se va intesa in senso assoluto, rispunta il dualismo di finito e infinito; se in senso relativo, quanto esattamente noi individui siamo liberi di fronte a Dio? Rimane spazio per la nostra responsabilità morale individuale?
Prima di affrontare direttamente tali questioni, una premessa. Noi non crediamo di avere la risposta pronta per dei problemi che superano, per la loro stessa natura, la sfera del pensiero finito, ossia del pensiero immaginativo, per travalicare in quella del pensiero puro. Di Dio, solo Dio ha vera conoscenza; ogni filosofia che sostenga il contrario finisce per mettersi nel ridicolo. Hegel, per esempio, sosteneva che la Rivelazione, essendo rappresentazione per immagini dell’Idea, è un gradino inferiore rispetto alla filosofia, che dell’Idea ha un concetto puro: come dire che la Rivelazione è stata storicamente necessaria per le menti inferiori, mentre il "vero" filosofo non ha bisogno di simboli fanciulleschi per innalzarsi fino al Logos in sé e per sé. Queste mirabolanti rodomontate ci ricordano da vicino la favola della volpe che, non riuscendo in alcun modo ad afferrare i grappoli d’uva posti troppo in alto per lei, si consola dicendo a sé stessa che l’uva, in fondo, non è ancora matura. Un filosofo che affermi di conoscere Dio più di quanto Dio abbia voluto farci conoscere di sé assomiglia a un sedicente guaritore che promette di risanare il malato prima ancora di averlo visto.
Da parte nostra, intendiamo avvicinarci con estrema umiltà ai massimi problemi della conoscenza e dell’Essere. Inoltre,dobbiamo tener conto del fatto che, da Platone in poi, il pensiero occidentale (per non dire di quello orientale) ha sempre pensato, fin sulle soglie della modernità, che il supremo mistero dell’Essere non fosse attingibile con la sola ragione strumentale, ma che fosse necessario, per avvicinarvisi, ascoltare la voce della divinità. Essa parla agli umani in un linguaggio che non è fatto solamente (come pensava Galilei) di triangoli, cerchi ed altri enti matematici, ma che fa appello a tutte le potenzialità conoscitive della natura umana, e si rivela sovente attraverso il mito. Il mito non è favola, come hanno creduto gli antropologi positivisti, bensì trasmissione di verità profonde, inesprimibili con il Logos calcolante, e si serve di un linguaggio simbolico. Ora il simbolo non è semplicemente un modo figurato di esprimere contenuti ardui e difficili. È un canale fra il mondo umano e il sovrumano, fra le realtà sacre e le profane. Perciò il simbolo – nel mito, ma anche nel rito religioso, nell’architettura sacra, nel pensiero magico e alchemico, e così via – non svolge solo la funzione di codice, ma anche quella di anello di congiunzione fra diversi piani di realtà ed è perciò un elemento insostituibile e fondante delle verità stesse cui vuole alludere. Non lo si può tradurre, perché il suo significato trascende la dimensione materiale, esperibile dai cinque sensi; è una finestra spalancata sull’Assoluto. Nessuna meraviglia, quindi, se d’ora in avanti faremo frequenti riferimenti alla Rivelazione (cristiana, perché essa è parte della storia spirituale dell’Occidente; ma senza disconoscere il valore di altre Scritture e di altri annunzi religiosi). È un errore pensare che la filosofia, giunta alle soglie delle verità ultime, possa prescindere dalla Rivelazione del sacro. Già nel Fedone, per citare un esempio famoso, noi vediamo che uno dei massimi pensatori dell’antichità non esita a ricorrere alla dimensione del sacro e a quella del mito; e nel Simposio, parlando della misteriosa Diotima, pare che Socrate voglia gettare un ponte fra conoscenza umana e conoscenza divina, riconciliando la scienza con le verità ultraterrene. Lo sforzo della mente umana verso Dio è un nobile sforzo, tuttavia è bene che sia messo in guardia contro il pericolo di rimanere accecato dall’orgoglio. Se infatti esso, esaltato per i traguardi raggiunti, finisse per ritenersi autosufficiente nel tentativo di raggiungere la Verità, perderebbe il senso del limite e cadrebbe nella hybris, nella dismisura. La mente umana non è autosufficiente: per questo eternamente chiede, con Pilato: "Che cos’è la verità?". Tanto andava precisato, prima di proseguire.
Diciamo ora subito, con tutta onestà, che noi non siamo in grado di comprendere come avvenga che l’Essere trae fuori da sé le menti individuali, senza perciò cessare di essere Uno, e al tempo stesso senza privarle della loro libertà morale. Certo, ci potremmo rifugiare nella concezione aristotelica del Motore Immobile, e dire che Dio è la causa finale del mondo, senza esserne per questo la causa materiale; che, insomma, si limita ad attrarre verso la sua pienezza un mondo già bello e fatto; magari ci potessimo accontentare di simili risposte! Il problema dell’origine del mondo fenomenico, e sia pure di un mondo illusorio, rispunterebbe daccapo, soltanto spostandosi un po’ più a monte. Un Dio che sia solo causa finale ma non causa efficiente, come quello concepito da Aristotele, è un Dio a mezzo servizio. D’altra pasrte, sostenere che Dio è bensì causa efficiente del mondo, ma non causa materiale, come fece il filosofo indiano Madhva (cfr. la parte prima di questo lavoro), significa spiegare tutto solo a parole. Noi pure pensiamo che Dio sia la causa efficiente del mondo, ma non la sua causa materiale, sia pure per delle ragioni molto diverse da quelle sostenute da Madhva, e cioè per il semplice fatto che non esiste alcun mondo materiale; ma come ciò possa avvenire, è e rimane un mistero. Una causa efficiente che non sia anche, per ciò stesso, causa materiale, impone la seguente alternativa: 1) è causa illusionante, ossia produce soltanto l’illusione della materia, illusione di cui sono oggetto le menti individuali; 2) rinvia indefinitamente il quesito circa l’origine della materia, o anche soltanto della illusione di essa. È chiaro che noi propendiamo per la prima soluzione, sottolineando che la creazione del mondo fenomenico vien chiamata "illusionante"solo rispetto alle menti finite, che non la intendono alla retta maniera e le attribuiscono uno spessore materiale che non possiede; tanto più che il concetto di causa non si applica all’Assoluto (di cui, a rigore, nulla potremmo dire, perché, come dice l’antica saggezza cinese, "il tao di cui si può parlare, non è il vero Tao"). Ma, in definitiva: chi sono codeste menti individuali; perché Dio le ha create; e perché ha creato in esse un mondo fenomenico fittizio? Eccoci giunti ai nodi cruciali della questione.
Alla prima di tali domande, purtroppo, dobbiamo riconoscere che non sappiamo rispondere. Certamente il divenire, implicito nel concetto di creazione, sarebbe un forte argomento contro l’unità e la semplicità dell’Essere, se immaginassimo la creazione come un fatto materiale; ma anche trattandosi di una creazione spirituale (e dunque fuori del tempo, nell’"occhio dell’eterno"), la cosa non è affatto chiara (cfr. quanto detto nella prima parte a proposito della filosofia di Sankara e del concetto di maya). Infatti le menti individuali, che sono l’oggetto della creazione, sono bensì di natura spirituale, e tuttavia hanno il carattere della finitezza, chè altrimentinon sarebbero creature. Se hanno il carattere della finitezza sono anche, per un verso, nel tempo; ma l’Essere che le ha create è fuori del tempo, poiché abbiam visto che l’eternità è assenza totale di tempo (cfr. p.7-8). Come può allora l’eterno dare origine al tempo, e sia pure all’illusione del tempo, rimanendo identico a sé stesso, e cioè eterno? Non lo sappiamo, così come non sappiamo quale sia la consistenza ontologica degli spiriti finiti. Possiamo però avanzare almeno una ipotesi. A tal fine dobbiamo richiamare alla mente quel che dicemmo a suo tempo circa il punto, l’istante e l’intuizione come piani d’intersezione fra due realtà qualitativamente diverse, quella del contingente e quella dell’Assoluto.
Gli spiriti finiti (che abbiamo chiamato anche menti individuali) costituiscono, per così dire, il piano d’intersezione fra l’illusorietà del mondo fenomenico e la pienezza ontologica dell’Essere. Vi è un abisso, un salto qualitativo fra la mente individuale e il mondo fenomenico; ma vi è un abisso anche fra essa e lo Spirito Infinito. Perchè se da un lato, come dicono le Scritture, Dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza, dall’altro lato tale somiglianza va intesa unicamente nel senso spirituale. Ora, la differenza che intercorre tra lo Spirito Infinito e gli spiriti finiti non è meramente quantitativa, quasi che si trattasse di un medesimo genere di sostanza; è invece qualitativa, come lo è quella che passa tra gli spiruiti finiti e la materia. E poiché la materia è illusione, ne consegue che le menti individuali sono per un verso non-essere, illusione (di sé stesse), per l’altro partecipano, in maniera misteriosa, alla pienezza dell’Essere. Questo modo di vedere si avvicina a quello di Bhaskara (cfr. la prima parte di questo lavoro), il quale sosteneva che il mondo fenomenico (ma nel nostro caso, le menti individuali) è e al tempo stesso non è una sola cosa col Brahaman, l’Essere: lo è dal punto di vista dell’Assoluto, non lo è più dal punto di vista del relativo. Ma Bhaskara sosteneva pure che, fin tanto che perdura l’illusione fenomenica, essa non è illusione, ma realtà. Per noi, al contrario, l’illusione è illusione – sempre, comunque la si consideri -; perché dire che l’illusione è tale nella sfera dell’Assoluto ma realtà in quella del relativo, significa ammettere che essa, comunque, rimane di fatto illusione. Infatti il soggetto dell’illusione, la mente individuale, è in parte di natura finita, in parte infinita (essendo tutt’uno con Dio), dunque è in parte essa stessa illusione, e in parte realtà assoluta. Bhaskara spostava invece il legame determinatezza-indeterminatezza direttamente nel Soggetto puro, nell’Essere; ma qui c’è qualcosa che non va, e che suona falso al pensiero. Perché se l’Essere è il fondamento del reale (e lo è certamente, come dice la sua etimologia), allora esso è pura indeterminatezza senza traccia di determinatezza reale (potrà esservi, invece, una determinatezza apparente, relativa cioè al suo manifestarsi alle menti individuali). Che cosa è, infatti, la determinatezza? È il manifestarsi del soggetto in oggetto, lo sdoppiamento coscienziale per mezzo del quale l’Essere assume una forma precisa. Ma ciò è impossibile all’essere in quanto tale, poiché l’Essere è Atto puro. Inoltre, lo sdoppiamento coscienziale (la nascita della dialettica soggetto-oggetto) introduce la comparsa del dualismo, e se il dualismo è impossibile nella dimensione ontologica (non in quella dell’illusorietà, evidentemente) , esso è inconcepibile nell’Essere, perché l’Essere è l’Uno.
Certo, la teoria di Bhaskara è affascinante, e inoltre ha il vantaggio di offrire una eccellente spiegazione teorica del rapporto intercorrente fra l’essere e il fenomeno. Infatti, se l’Essere è sia determinato che indeterminato, riesce agevole spiegare tanto la nascita del fenomeno, quanto il suo annullamento finale nella riunificazione con l’Essere; e, soprattutto, si riesce a spiegare come in tutto questo processo l’Essere rimanga inalterato e perfettamente identico a sé stesso. Invero, c’è una ingegnosità meravigliosa in tutto questo. Ma non sarà un gioco di parole, un castello di carte? Proviamo a ragionare. Se la determinatezza è la manifestazione oggettiva, e si realizza mediante lo sdoppiamento coscienziale, essa coincide in ultima istanza, ontologicamente, con il non-essere. Infatti, la manifestazione oggettiva è rappresentata dal fenomeno, e il fenomeno — illusorio e transitorio, quindi impermanente — è non-essere. Ora, come può l’Essere contenere il non-essere? Eppure, quando Bhaskara afferma che l’Essere è sia la determinatezza che l’indeterminatezza, dice in sostanza che esso è, e che, contemporaneamente, non è. Questo va bene, appunto, per spiegare la dialettica dell’Essere con il fenomeno, ma in una seconda fase (metafisica, non cronologica); per intanto, come si può dire l’ontologicamente reale ha in sé anche il principio della irrealtà? Per quanto seducente possa apparire, sulle prime, la teoria di Bhaskara, bisogna infine ammettere che essa termina in un vicolo cieco, che non porta in alcuna direzione. Da questa parte, non si approderà mai a nulla.
Torniamo invece al soggetto della conoscenza illusoria, cioè alla mente individuale. Ad essa sì che conviene il connubio determinato-indeterminato, Essere-non essere. E precisamente, essa è non-essere in quanto soggetto del fenomeno, Essere in quanto, a sua volta, oggetto dell’Atto puro, Dio. Ma come avviene che l’Essere si determini nelle menti individuali, senza perciò stesso determinarsi quanto a sé stesso, senza manifestazione fenomenica, senza sdoppiamento coscienziale: questo è un mistero, e non ci vergognamo di riconoscerlo. È meglio chiamar le cose con il loro nome, piuttosto che pretendere di spiegar tutto con delle vuote parole che soddisfano la nostra vanità, ma non il nostro intelletto. Per l’intelletto, dire che l’Essere è determinato e indeterminato, dire che è e non è, significa formulare delle proposizioni letteralmente prive di significato concettuale. Perché bisogna che l’Essere sia l’opposto del fenomeno, e non che abbia in sé stesso anche il fenomeno: altrimenti, donde nascerebbe questo fenomeno originario? No: il fenomeno nasce dall’Essere, e non è ontologicamente compresente in questo. Se lo fosse, vorrebbe dire che l’Essere non è tale.
Riassumendo, vi sono come tre piani gnoseologici: quello dell’effetto, che è il mondo fenomenico; quello di coincidenza della causa e dell’effetto, che si realizza nell’intuizione delle menti individuali e che non è propriamente un piano, ma una intersezione di piani diversi di realtà; e quello della Causa assoluta, dell’Atto puro: Dio. Ma, dal punto di vista ontologico, la realtà è unica, e coincide con quella dell’Essere, che è causa sui. Quanto alle menti individuali, esse nel fenomeno conoscitivo sono vittime di una doppia illusione: A) che esista un mondo fenomenico in sé e per sé; B) che esse medesime siano qualche cosa di distinto dall’Essere. La prima illusione è dovuta al fatto che Dio pensa il mondo fenomenico nelle menti individuali, all’interno di esse, e dunque senza reale concorso di alcuna sostanza materiale. La seconda illusione poggia su un dato reale: la creazione; ma su di essa non siamo in grado di dire nulla. Di codesta separazione coscienziale tra noi, soggetti finiti, e Dio, Soggetto Infinito, possiamo dire soltanto che è certamente illusoria sul piano dell’Assoluto, perché niente è fuori dell’Essere, cioè fuori di Dio medesimo; ma, in certo qual modo, reale sul piano del relativo, poiché — misteriosamente — noi siamo già in Dio, senza tuttavia coincidere perfettamente con la sua essenza. Se noi coincidessimo con Dio, la nostra libertà morale ne risulterebbe annientata, ed anche il nostro attuale porci tali problemi non sarebbe neppure pensabile.
Nel Vangelo di Giovanni, si ribadisce più volte il concetto che noi siamo in Dio, pur continuando ad essere noi stessi, dunque continuando a dover compiere quotidianamente la nostra libera scelta morale. Egli ha detto, ad esempio: "Rimanete nel mio amore" (Giov., XV, 9), e non: "Venite nel mio amore", significando che noi siamo già in lui, e che tutto quanto egli ci chiede è di non allontanarcene. Ora, se possiamo allontanarci da lui, vuol dire che siamo liberi; e siamo liberi perché siamo in lui, pur essendo altra cosa da lui. E alla domanda di Filippo, Gesù ha risposto in maniera ancora più esplicita: "Chi ha visto me, ha visto il Padre" (id., XIV, 9). La Rivelazione afferma che essere in Cristo, anzi rimanere in Cristo come i tralci sono legati alla vite, significa essere e rimanere in Dio stesso. D’altra parte, rimanere in lui significa appunto compiere una libera scelta. Così, se è vero che tutte le menti individuali sono già presenti fin dall’inizio nella mente di Dio, è pur vero che per rimanervi debbono affrontare un aut-aut. Questa è la dinamica del rapporto tra Spirito Infinito e spiriti finiti, senza la quale tutto sarebbe ridotto a una immobilità mortificante.
Se la concezione aristotelica di Dio è fondamentalmente agnostica, quella cristiana provoca invece ad una scelta radicale. Essere in Dio e rimanere in lui non sono, automaticamente, la medesima cosa. Vi è un punto del quarto Vangelo, in cui ciò viene affermato in modo chiarissimo: "Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi una cosa sola, perchè il mondo creda che tu mi hai mandato." (gv., XVII, 20-21). Da ciò risulta che rifiutare il rapporto con Dio significa, per le menti individuali, precipitare nel non-essere, dissolversi nel nulla. "Io sono la vite, voi i tralci.; chi rimane in me ed io in lui, questi porta molto frutto. Perché senza di me non potete fare niente.Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano."(Gv., XV, 5-6.
SIGNIFICATO DELLA ILLUSIONE FENOMENICA.
Ci si domanderà certamente quale sia lo scopo, quale il significato della illusione fenomenica in cui cadono le menti individuali. Se infatti la materia non esiste, perché Dio avrebbe voluto creare in noi l’illusione di un mondo materiale, sussitente al di fuori di noi? E se la nostra distinzione ontologica nei suoi confronti è soltanto relativa, perché ha voluto che la percepissimo come assoluta? La risposta a queste due domande è unica, e lui solo ne ha esatta conoscenza. Quanto a noi, senza pretendere certamente di entrare nel vivo dei suoi disegni, avanzeremo l’ipotesi che si tratti di una risposta di ordine morale. In altri termini, tanto la percezione illusoria del mondo materiale, quanto la percezione semi-illusoria della nostra indipendenza ontologica da Dio, avrebbero lo scopo di metterci al banco di prova della responsabilità etica.
Se ciò è vero, ne consegue che l’illusione di un mondo materiale cessa di assumere l’aspetto alquanto sgradevole di un capriccioso inganno divino a danno delle menti individuali (qualcosa, magari, come l’incantesuimo di Oberon nei confronti di Titania nel shakespeariano Sogno di una notte di mezza estate). Un tale Dio ingannatore, infatti, assomiglierebbe un po’troppo al dèmone maligno ipotizzato dalla gnoseologia cartesiana (cfr. la prima parte del presente lavoro). Non avrebbe, dal punto di vista (e sia pur limitato) delle menti individuali, l’aspetto dell’artefice di una costruzione sapiente e generosa, volta a porre le condizioni esistenziali atte a suscitare il nostro risveglio morale. Perché noi, essendo fin dall’inizio all’interno dell’amore di Dio ("rimanete nel mio amore"!), siamo in certo qual senso come addormentati alla luce dell’eticità. È solo con la libera scelta di rimanere nel suo amore che avviene il nostro risveglio morale. Ora, per rendere possibile tale risveglio, sono necessarie appunto queste due condizioni: A), che vi sia un mondo fenomenico entro il quale dispiegare la nostra azione (né importa che tale mondo fenomenico sia propriamente illusorio, e quindi illusoria la nostra azione su di esso); B), che il nostro rapporto con Dio non sia sentito come vincolante – quindi ontologicamente non duale – ma, al contrario, come indipendente e duale. E anche in questo caso, non importa che tale dualità sia illusoria in senso assoluto, cioè ontologico; importa che sia effettiva nella sfera del relativo, e che quindi lasci impregiudicata la nostra scelta morale.
Il fatto che l’azione delle menti individuali sul mondo fenomenico sia illusoria (così come illusoria, in senso assoluto, è la loro indipendenza da Dio) non deve generare equivoci. Quel che conta in senso assoluto, e cioè allo sguardo di Dio, è che noi facciamo la nostra scelta morale come se essa avesse realmente il potere di agire sul mondo fenomenico, come se essa avesse realmente il potere di essere svincolata da lui. Infatti quel che conta non è l’azione (che sarà illusoria, essendo illusorio l’oggetto verso cui è diretta), ma l’intenzione che sta all’origine dell’azione – e cioè, lo ripetiamo, la responsabilità morale individuale.
Tenteremo di chiarire questo fondamentale concetto servendoci di un esempio concreto. Se io ho una pistola che credo carica in pugno, e premo il grilletto con l’intenzione deliberata di uccidere un altro essere umano, ovviamente non potrò ucciderlo in senso materiale (infatti la pistola è scarica): tuttavia, moralmente, l’ho voluto uccidere, e di fatto ho compiuto un omicidio entro la mia coscienza. Il fatto che l’omicidio non sia stato consumato materialmente è irrilevante, poiché è dipeso da circostanze totalmente estranee alla mia volontà, che era volontà di uccidere. L’esempio diverrà ancora più chiaro quando avremo riflettuto che in effetti, non essendovi un mondo materiale in sé e per sé, non esiste né pistola, né persona fisica di colui che la impugna, né di colui che se la vede puntare contro. Cosa rimane, allora? Rimane la pura e semplice scelta morale, in questo caso la mia volontà di uccidere. Nella sfera puramente spirituale, infatti, non v’è pistola scarica che, all’ultimo momento, possa rendere impossibile l’omicidio, ma solo una pistola carica: quella della mia mente, quella della mia volontà. Le leggi umane faranno distinzione tra pistola carica e pistola scarica, tra omicidio consumato e omicidio unicamente desiderato; nel nostro caso, esse parleranno di "tentato omicidio", e applicheranno una pena meno severa di quella riservata all’omicidio materiale. Ma la legge di Dio, crediamo, ragionerà altrimenti. Davanti al suo sguardo non v’è alcun elemento materiale che possa confondere la situazione, nessuna pistola che avrebbe dovuto essere carica e invece era scarica: l’omicidio voluto è, sempre e comunque, omicidio consumato. Quello che conta, insomma, è l’intenzionalità della coscienza.
"Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore", dice Gesù a un certo punto (Mt., V, 27-28). Egli non dice: "E’ come se avesse commesso adulterio"; ma dice: "Ha già commesso adulterio"! E non dice nemmeno: "chiunque guarda una donna per averla"; ma dice: "chiunque guarda una donna per desiderarla"! L’intenzione buona o cattiva, ai suoi occhi, è sufficiente; l’occasione materiale di realizzarla è, per lui, irrilevante. Abbiamo detto che l’intenzione è sufficiente anche nel caso della scelta buona, cioè in accordo con la legge morale. Ascoltiamo ancora la viva voce di Gesù a proposito dell’obolo della vedova nel Tempio: "In verità vi dico: questa vedova, povera, ha messo più di tutti" (Lc., XX, 3). Eppure la donna aveva gettato nel tesoro del Tempio soltanto due spiccioli, mentre i ricchi vi avevano gettato offerte ben più consistenti. E tuttavia, torniamo a rileggere il passo del Vangelo: scopriremo che Gesù non dice: "questa vedova, povera, è come se avesse messo più di tutti"; ma dice chiaro e tondo: "questa vedova, povera, ha messo più di tutti".
Ci premeva sottolineare questo punto, perché dal concetto della illusorietà del mondo materiale non si sia tentati di trarre la comoda conclusione che anche il male ed il bene compiuti all’interno di codesta illusione sono, essi pure, illusori. No: caduto il velo del fenomeno, l’unica cosa che resta è proprio la responsabilità morale: ed essa è realta, non illusione!
Ascoltiamo ancora le parole del Vangelo. Preanunciando il giudizio finale, Gesù dice "a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti dal padre mio… perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, , ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt., XXV, 34-36). Che cosa significa questo? I buoni glie lo chiederanno, dicendo: "Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?" (id., 37-39). E Gesù allora spiega, con le parole che userà il Padre: "In verità vi dico, ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi fratelli più piccoli, l’avete fatta a me." (id., 40). Attenzione: Gesù non dice: "E’ come se l’aveste fatta a me", ma dice: "L’avete fatta a me". È terribile questa chiarezza di Gesù, come lo è quando dice di coloro che staranno alla sinistra: "Non l’avete fatto a me" (id, 45). L’intenzione dunque, agli occhi di Dio, ci giudica; l’intenzione buona o cattiva, non i suoi effetti pratici (che sono comunque, a nostro avviso, illusori). Su questo punto, Cristo non avrebbe potuto essere più chiaro. Fare il bene o fare il male è illusione sul piano del fenomeno, ma è realtà nel piano della coscienza. Ed è su questo piano che le nostre scelte ci renderanno testimonianza davanti all’Assoluto: per il bene e per il male.
Da quanto abbiamo detto, è chiaro che il male non ha consistenza ontologica vera e propria: in quanto allontanamento da Dio (rifiuto di rimanere nel suo amore), esso è propriamente non-essere, privazione radicale dell’Essere. Ma in quanto le menti individuali sono metafisicamente sospese tra l’Essere e il fenomeno, dunque tra l’Essere e il non-essere, il male ha un suo peso all’interno del mondo fenomenico. A questo punto, l’obiezione più ovvia e immediata alla nostra teoria, dovrebbe essere la seguente: "Come va che noi sentiamo nella nostra vita il bene ed il male (ma soprattutto il male!) come terribilmente reali?". La vita all’interno del fenomeno – si dirà – è illusione, e va bene; ma intanto, non è forse vero che noi gioiamo e soffriamo, come se non lo fosse?". E proprio questo è il punto: come se non lo fosse, ma in realtà lo è. Infatti se io, nel sogno, vengo inseguito e azzannato da una tigre, provo terrore e sofferenza. Nondimeno, al risveglio, constato che non mi è accaduto, in realtà, proprio niente. E la stessa cosa avviene nella nostra vita quotidiana, che crediamo fatta di realtà materiale, mentre in essa non vi è che l’illusione del fenomeno e la sola realtà della nostra coscienza etica.
Dal momento che io sono, profondamente anche se erroneamente, convinto che questo corpo di carne e sangue esista e sia mio – molto più mio, ad esempio, dei vestiti che indosso, o della casa che abito – avviene che se la tigre mi azzanna veramente (intendiamo dire non nel sogno), provo terrore e sofferenza. Ma è un credere di soffrire, proprio come lo era nel sogno; e un credere di morire. "Eh no – dirà qualcuno a questo punto -, vada per il credere di soffrire; ma morire, si muore davvero! Non è una sensazione soggettiva. Non possono testimoniare tutti gli altri, se una persona è viva o mota?". Ahimé, non lo possono; perché tutto quel che possono dire tutti gli altri (cioè, le altre menti individuali) è che io sono stato ucciso da una tigre. Ma del mio mondo coscienziale, essi ne sanno tanto quanto prima. In realtà, nulla ne sapevano prima, perché le menti individuali riproducono, ciascuna per proprio conto, la creazione fenomenica la cui origine è dall’Essere, e sono quindi – le une verso le altre – come altrettante monadi senza porte e senza finestre, per dirla con Leibniz; o come altrettanti universi formati, per dirla con Spengler. Di conseguenza, gli altri non sapevano nulla del mio mondo coscienziale prima che la tigre mi assalisse, e nulla ne sapranno dopo che essa mi avrà, secondo la loro (e mia) illusione, ucciso. Illusione perché non v’è materia: dunque né tigre, né corpo, né occhi con i quali osservare, dall’esterno, la scena: lo spirito, infatti, non può essere ucciso. Ma perché affermiamo che le singole menti individuali sono reciprocamente isolate e che ricreano – con la mediazione della mente divina – il mondo fenomenico, l’una indipendentemente dall’altra?
Proviamo a considerare la cosa. Il dato di base, dal quale non è possibile prescindere, è la differenziazione strutturale, non eliminabile, dei singoli spiriti finiti. Negare questo dato, significa sostenere che non v’è alcuna differenza costituzionale fra un essere e l’altro, fra la mente di un infelice ritardato e quella di Leonardo da Vinci. Quel che a Dio importa, però, non è il grado di perfezione contingente delle singole menti individuali – che non dipende da esse – ma l’uso che ciascuna, concretamente, ne fa. La parabola dei talenti sottolinea l’importanza dell’impegno morale individuale, a dispetto della distribuzione diseguale dei talenti operata dal padrone (cfr. Mt., XXV, 14-30). Il fatto che la punizione ricada proprio sul servitore che aveva ricevuto un unico talento, vuole ammonirci che tale diseguale distribuzione non può essere invocata come scusante per l’inerzia morale da parte di alcuno, nemmeno da chi è stato oggettivamente meno favorito. Ancora una volta, quel che conta – al cospetto di Diuo – è l’intenzione. Ora, se le menti individuali sono strutturate in maniera diversificata tra loro, la creazione del mondo fenomenico che Dio compie all’interno di esse, dovrà necessariamente riprodursi sotto forma di modificazione soggettiva. Impropriamente, potremmo dire che si tratta di una ri-creazione del fenomeno da parte del singolo soggetto, ossia della singola mente individuale, volendo con ciò significare che il suo ruolo non è esclusivamente passivo, ma anche – in parte – attivo. È passivo nella misura in cui, effettivamente, riceve dalla mente divina la creazione del mondo fenomenico; è attivo nella misura in cui lo recepisce all’interno della propria struttura, particolare e irripetibile, e tende ad agire su di esso, modificandolo, a partire da tale struttura.
La realtà, dunque, è che le singole menti individuali non percepiscono una "realtà esterna" uguale per tutte e alla stessa maniera, bensì che si rappresentano, e in una certa misura si creano, tanti mondi fenomenici quante sono esse menti individuali. Se noi avessimo una coscienza sufficientemente chiara di codesto fatto, potremmo almeno cercar di lavorare per ovviare agli inconvenienti più gravi che produce nella sfera della prassi. Ma, in generale, siamo fermamente convinti che esista, al di fuori di noi "spettatori soggettivi", un mondo in sé e per sé, dato una volta per tutte e dunque identico per ciascuno di noi. Crediamo, cioè, che le differenze nella nostra percezione del mondo esterno dipendano in parte dalla nostra diversa collocazione, gli uni rispetto agli altri, nella sfera spazio-temporale; e in parte dal fatto che i nostri organi percettivi e le nostre coscienze, che unificano i dati da essi fornitici, sono simili ma non perfettamente identici; ma non dubitiamo che la realtà esterna sia unica e indipendente, insomma "oggettiva". A causa di questa convinzione, le difficoltà aumentano: è come se credessimo che le nostre difficoltà di comunicazione dipendano semplicemente da un fatto contingente (ad esempio, linguistico) e non da un fatto strutturale (da una diversa concezione del mondo).
Quando due menti individuali parlano di codesto "mondo", ossia del fenomeno, sono pertanto convinte di designare una realtà oggettiva, recepita come tale da entrambe; mentre, in realtà, parlano – senza avvedersene – non già dello stesso mondo, ma di due mondi completamente diversi. "Non ti riconosco più", esclama la moglie delusa al marito, in un matrimonio che si sta sfasciando; e lui, come chi sia stato defraudato di qualche cosa: "Non sei più quella di prima". Questo è un esempio abbastanza tipico, e speriamo possa servire a chiarire quel che stiamo dicendo. La realtà è che nessuna mente individuale conosce l’altra (se la conoscenza è un fatto, per così dire, oggettivabile); viceversa, può ri-crearla per mezzo del coinvolgimento affettivo. E questo avviene nei due sensi, dell’amore e dell’odio. In entrambi i casi la mente individuale getta, per così dire, un ponte in direzione delle altre menti individuali – normalmente inaccessibili -, dipingendosele con colori molto luminosi o molto scuri, a seconda del grado di empatia o di avversione. I due coniugi dell’esempio precedente credevano di conoscersi, ma in realtà non si erano mai conosciuti, perché mai una mente finita può conoscere un’altra mente finita (ed è perfino dubbio che possa arrivare a conoscere veramente sé stessa). Si erano, bensì, creati l’immagine l’uno dell’altra, in virtù dell’amore; poi, venuto meno l’amore, anche la creazione è venuta meno, ed essi si sono scoperti reciprocamente per quello che in realtà erano: due perfetti estranei.
Invero, conoscere il prossimo è impossibile, perché noi non sappiamo nulla del suo mondo; possiamo, però, ri-crearlo per mezzo dell’amore (o dell’odio, che è semplicemente amore capovolto, cioè amore frustrato e inconsapevole). Questo, ci sembra, è il significato dell’esortazione di Gesù, che non fa appello alla ragione e alla nostra capacità di comprendere solo per via razionale: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni con gli altri: come io ho amato voi, anche voi amatevi gli uni gli altri" (Gv., XIII, 34). La sola possibile forma di conoscenza, dunque, è l’amore, benchè si tratti più di una vera creazione che di una semplice conoscenza (e anche l’odio: amore e odio sono i sentimenti che più ci avvicinano a cogliere l’intima realtà dell’altro, presentandocelo però, come si disse, con opposte lenti deformanti). Il fatto che una persona sia oggetto di tante forme di conoscenza quante sono le persone con cui entra in contatto (diceva Pirandello: "uno, nessuno e centomila") dimostra che non v’è conoscenza possibile e oggettiva tra le diverse menti individuali. E il fatto che quella medesima persona, indifferente a tutte le altre, possa diventare la somma di tutte le beatitudini (o il concentrato di tutti i rancori) per un’ altra ed una sola altra, dimostra che l’amore (e, paradossalmente, l’odio) può compiere il "salto" dall’una all’altra, oltrepassando le insufficienze della conoscenza grazie a quella forma di intuizione che è l’amore (o l’odio). L’amore infatti è superiore al pensiero, perché esso può comprendere anche il pensiero, ma il pensiero non potrà mai comprendere in sé stesso anche l’amore. Il pensiero è una forma di conoscenza "fredda", l’amore è una forma di conoscenza "calda" (come lo è l’odio). Il pericolo, d’altra parte, è che tale conoscenza "calda", essendo – come si è detto – piuttosto una forma di nuova creazione dell’oggetto (una creazione di secondo grado; quella di primo grado è il pensiero dell’oggetto creato dallo Spirito Infinito nei singoli spiriti finiti), finisca per creare più equivoci e malintesi della pura e semplice non-conoscenza. La peggior delusione che può darsi, nel rapporto fra due menti individuali, è quella della scoperta che l’altra non corrisponde affatto all’immagine che ci si era creati all’inizio; essa genera una specie di sofferenza assai più grande della pura e semplice incomprensione fra due menti che non riescono a comprendersi, e quindi a conoscersi, fin dall’inizio).
L’amore, dunque, è una forma di creazione; ed è di tanto superiore alla conoscenza, quanto l’intuizione lo è rispetto al nesso causale. E così come vi sono tre piani della conoscenza (uno solo dei quali reale), il fenomeno, la mente individuale l’Essere, così vi sono tre forme della intuizione. L’intuizione del fenomeno è quella che si realizza nei confronti della materia e culmina nella creazione estetica, la quale mira a realizzare il massimo valore che la materia offra: la bellezza. La seconda forma d’intuizione è quella reciproca fra le menti individuali, che culmina nell’amore disinteressato; essa tende a concretizzare il massimo valore di cui gli spiriti finiti siano capaci: la bontà. La terza ed ultima forma d’intuizione, la più alta, è quella che ci mette in rapporto a Dio. La sua categoria fondamentale è la verità, ma essa comprende pure le altre due sintesi: la bontà e la bellezza; così come l’intuizione della seconda forma – la bontà – comprende anche la prima: la bellezza.
Ora, è ben vero che fra le tre diverse forme d’intuizione v’è un salto, come voleva Kierkegaard, ma occorre subito aggiungere che se il loro rapporto di subordinazione reciproca viene rettamente inteso, esse possono costituire l’una il trampolino nei confronti della successiva, fino all’ultima: ove, per misteriosi canali, Dio opera in noi la riconciliazione finale fra le loro apparenti contraddizioni. Non sappiamo come ciò avvenga: ma siamo ben certi che verità, bontà e bellezza – come pensava Jakob Burckhardt – sono sorelle inseparabili, e che dunque ciò che ora, in esse, ci appare contrastante, non ha valore sul piano dell’Assoluto. Forse, l’errore nasce allorchè noi attribuiamo un valore autonomo ed autosufficiene alle prime due forme d’intuizione, bellezza e bontà. La bellezza, considerata in sé e per sé, libera da ogni legame dialettico con la verità e la bontà, non può che condurre all’idolatria della materia, cioè a una forma degradante di schiavitù. Ma quando il rapporto reciproco fra di esse viene compreso, cadono gli elementi di confusione, e ogni cosa riacquista i suoi autentici contorni. Allora apparirà evidente, per esempio, che la vera bellezza non è separabile dalla bontà, né quest’ultima dalla verità; e ritroveremo nella bellezza il suo significato più pieno, e nella bontà la sua dimensione più vera e profonda.
La realizzazione completa dell’ultimo stadio, l’intuizione del nostro intimo rapporto con Dio, non è cosa però di questo mondo. Spiriti grandi, quasi sovrumani, hanno potuto – al massimo – sfiorarla fugacemente. Ma ciò che per ora può realizzarsi solo come balenìo istantaneo della coscienza, a suo tempo sarà gioia perfetta: la fine di un sogno e la riunificazione ineffabile col Tutto.
CONCLUSIONE.
Ma non congediamoci così dal fenomeno, quasi con un senso di amara prigionia. Non calunniamo la vita, come fece Platone quando disse che il corpo è la tomba dell’anima, o come fece e fa la filosofia indiana, quando lamenta che il mondo è dolore senza fine. La realtà fenomenica è creata nelle nostre menti da Dio: e, anche se i suoi disegni ultimi ci restano imperscrutabili, non malediciamo la sua creazione! Poiché viene da lui, deve essere buona; e se è un’illusione, è illusione a fin di bene, non crudele inganno. Ricordiamo che la materia ci allontana dall’Essere solo se noi, per colpevole idolatria, la innalziamo al grado dell’autosufficienza. Come già ben sapeva la religiosità medioevale, amare la creatura è male solo se dimentichiamo il rapporto necessario che la lega al creatore. Ma in quanto egli l’ha creata, non può essere che un bene.
Invero, vi sono una bellezza e un’armonia meravigliose nella materia, se considerata nel suo giusti rapporto con il Tutto. Vi sono dei tesori tali in essa, dalla timida primula che si affaccia all’ombra dei fossi di marzo, su su fino alla vòlta immensa del cielo azzurro, che solo la sbadatezza dell’abitudine ci impedisce di tornare a gioirne con sorpresa sempre nuova. L’abitudine e un pusillanime bisogno di vittimismo hanno chiuso i nostri occhi alla bellezza, hanno indurito come pietra i nostri cuori. Ma Dio disse. "Darò a voi un cuore nuovo, e porrò in voi uno spirito nuovo; toglierò il cuore di pietra dal vostro corpo e vi darò un cuore di carne" (Ez., XXXVI, 26). Ed è veramente tempo di riappropriarci del nostro cuore di carne. Un cuore di carne, che sente; non un cuore di pietra.
A tutti coloro che calunniano la vita, siano essi filosofi o uomini della strada, vogliamo far vedere il mondo così come lo sapeva vedere una fanciulla sofferente, che una rara e crudele malattia ha portato via con sé all’alba della vita: "Oh che bellissime nuvole si affacciano alla finestra! Vengono a salutarmi e a farmi festa perché oggi sto bene, oggi respiro respiro respiro respiro, ed è meraviglioso!" (dal Diario di una bambina, Cittadella, 1981, p. 17).
Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione