
Spunti per la decrescita sostenibile 1: il nostro problema, e il loro
9 Maggio 2006
L’unità dell’essere: una metafisica per la vita
18 Maggio 2006Questo articolo è un estratto dalla Parte Prima del libro "L’unità dell’Essere. Una metafisica per la vita" di F. Lamendola, Lalli editore, Poggibonsi (Siena), 198).
(N. B.: il libro è da tempo esaurito. Chi fosse eventualmente interessato, può mettersi in contatto con l’Associazione Eco-Filosofica).
A) [SECONDO IL REALISMO.**
I termini del problema della conoscenza sono, da un punto di vista logico — non necessariamente dal punto di vista ontologico — almeno tre: il soggetto della conoscenza o conoscente; l’oggetto della conoscenza o conosciuto; l’atto conoscitivo medesimo, il conoscere considerato in quanto tale.
Esamineremo ora brevissimamente alcune posizioni filosofiche in merito al problema della conoscenza (senza la pretesa di condurre una rassegna esauriente e sistematica). Ci sarà facile constatare che il disaccordo verte, sempre da un punto di vista logico, sull’ordine di concatenazione di tali fattori.
La posizione realista parte da questa sequenza:
OGGETTO
SOGGETTO
ATTO.
Per fare un esempio concreto: io sto guardando un albero; conosco dunque che innanzi a me c’è una realtà esterna, che io chiamo albero. Il realismo sostiene che tutte le mie conoscenze provengono dall’esterno e che, prima della conoscenza, la mia mente era una "tabula rasa". Di conseguenza, la mia mente non è concepibile fuori della conoscenza, poichè essa e l’atto del conoscere sono un’unica cosa. Appare dunque che se la mia mente è conoscenza, deve essere conoscenza di qualche cosa: ora, non può essere puramente e semplicemente conoscenza di sé, perché in tal caso si cadrebbe in un circolo vizioso senza uscita. Bisognerebbe infatti dire: che cos’è la mia mente? Conoscenza. Ma conoscenza di che cosa? Conoscenza della conoscenza. Per evitare questo circolo chiuso, non resta che fondare noumenicamente, cioè come dato di per sé non solo esistente ma anche sussistente, la realtà cosiddetta "esterna". Che cosa conoscerà allora la mente del suo conoscere? L’alterità, ciò che è di per sé dato e che non ricade entro la mente del soggetto conoscente: in una parola, l’oggetto. Ma dunque è evidente che l’oggetto non è affatto presupposto dal soggetto: esso gode di vita propria affatto indipendente; e, se il soggetto non ci fosse, esso tuttavia sarebbe. Sarebbe a dispetto del fatto che, venendo meno il soggetto, non sarebbe conosciuto da alcuno. Alla sua esistenza, dunque, non sono necessari né il soggetto conoscente, né l’atto conoscitivo medesimo. L’albero continuerebbe ad esistere anche se nessuno lo stesse guardando, anche se nessuno lo guardò né lo guarderà mai. Esisterebbe sempre e comunque, perché l’oggetto sarebbe un dato e il dato è sussistente: ha in sé la propria ragion d’essere, e non la deriva da alcuno. Ciò che non potrebbe dirsi per il soggetto conoscente. Come si è visto, nella prospettiva realistica il soggetto conoscente è tale in quanto conosce qualcosa; ma se non conoscesse nulla sarebbe "tabula rasa". Pura potenzialità, pensiero astratto, non realtà effettiva ed attuale. In altre parole, per passare dalla potenza all’atto il soggetto ha bisogno di un oggetto. Se la mia mente non avesse nulla da conoscere – né l’albero, né alcun altro dato esterno – precipiterebbe nel vuoto, tornando a scivolare dalla sfera dell’essere a quella del non essere. È la conoscenza che la fa vivere, che le dona la sostanza esistenziale.
Riassumendo: l’albero può esistere benissimo senza la mia mente che lo conosce, ma la mia mente cessa effettivamente di esistere se non ha degli oggetti da conoscere. L’albero è, la mente può essere. Di qui il primato dell’oggetto rispetto al soggetto nella conoscenza empiristica. Prima cè l’albero, che esiste in sé e per sé; poi c’è la mente, che esiste in quanto ha un albero o degli altri oggetti qualsiasi da conoscere; infine c’è, in tutt’uno con la mente, l’atto conoscitivo medesimo, che rappresenterà l’albero alla mente e che è come un ponte fra le due realtà.
Questa non è solamente la posizione gnoseologica del realismo, ma anche del così detto "senso comune". A tutta prima si presenta come la più ovvia, la più sicura forma di conoscenza proprio per questo suo attaccarsi al dato, per questo porre il dato come preesistente al conoscente, fermo e immutabile come una roccia. I nostri sensi confermano una tale impostazione. E tuttavia, prima di andare avanti, non sarà male soffermarci un attimo sulle implicazioni logiche di tale posizione conoscitiva.
Dire che il dato, cioè il sussitente, l’Essere, non risiede nel soggetto bensì nell’oggetto della conoscenza è, a ben gusrdare, molto più bizzarro di quanto a prima vista possa sembrare. Significa infatti che il dato subisce l’azione dell’atto conoscitivo, mentre resta passivo di fronte a colui che lo vuol conoscere. Ma se l’Essere subisce l’azione del non-essere (tale, abbiamo visto, è in ultima analisi il conoscente), non si cade in una strana contraddizione? È naturale che l’oggetto sia passivo di fronte al soggetto, che è attivo. Ma allora come fondare la pretesa priorità del conosciuto sul conoscente, del dato sull’azione? Se veramente l’oggetto esiste in sé e per sé, allora è esso, e non il conoscente, che deve essere considerato il soggetto. Il soggetto di che cosa? Di sé medesimo, della propria sussitenza. E il conoscente diviene non più il soggetto, ma un mero attributo del conosciuto, un attributo accidentale e non essenziale. In altri termini, diviene l’oggetto. Oggetto di che cosa? Oggetto dell’azione vivificante del conosciuto, che solo con la sua presenza lo trae dalla potenza all’atto, dal non-essere all’Essere. E l’atto in senso proprio non sarebbbe più quello del conoscere, che va dal conoscente al conosciuto, e che ha carattere effimero in quanto non necessario; bensì appunto quello del manifestarsi del conosciuto al conoscente, che a quest’ultimo dà vita e realtà effettuale.
Tornando all’esempio di prima, dovremmo concludere che l’albero è il soggetto, io che lo conosco sono l’oggetto (del suo manifestarsi), e l’atto propriamente detto è quello che parte dall’albero e viene vcrso di me (il suo farsi presente alla mia mente). Ma, lo ripetiamo, se il soggetto è l’"altro", ossia il dato (in questo caso, l’albero), come è possibile che conosca l’azione del mio conoscere? Si dovrà allora precisare che l’albero è soggetto, in quanto esiste in sé e per sé, e contemporaneamente oggetto in quanto io lo conosco; e che io sono oggetto in quanto esso mi manifesta il suo essere, e, manifestandomelo, mi realizza, e al tempo stesso sono soggetto in quanto compio l’azione di conoscerlo. Quanto all’azione conoscitiva, si dovrà dire che essa può essere considerata come partente dall’albero e diretta verso di me, in quanto l’essere effettuale si manifesta all’essere puramente potenziale; e che può essere considerata anche come uscente da me e diretta verso l’albero, in quanto io lo faccio oggetto di conoscenza.
Ma pur con queste necessarie precisazioni, resterà il fatto che il soggetto principale è l’albero; che l’oggetto in senso proprio sono io; che l’atto essenziale è quello compiuto dall’albero nei miei confronti. Né potrebbe essere diversamente, dal momento che nella prospettiva realistica la conoscenza ha il suo punto fermo nel conosciuto e non nel conoscente: il primo certo, il secondo soltanto possibile. Ora, se il soggetto "vero" è l’alterità, mentre il conoscente è in sostanza un suo oggetto, su che cosa fondare la veridicità del mio conoscere? Essenzialmente, io subisco l’azione dell’altro, il suo manifestarsi; e in quanto lo subisco, devo rimettermi a lui per ogni criterio di verità della mia conoscenza. Ma se è da lui che il mio essere viene tratto fuori dal non-essere, se è da lui che apprendo e conosco non solo l’altro, bensì il mio stesso io e il mio stesso conoscere, allora il criterio di verità della mia conoscenza risiede fuori di me, come risiede fuori di me il mio essere. Ma se io non posso verificare la verità della mia conoscenza, non posso nemmeno verificare la verità del mio essere. Esso riceve la sua ragone di esistere da ciò che è altro; e in che modo potrò mai dire: questo è un albero così e così, se non posso avanzare una sola definizione certa del mio essere e del mio conoscere? Dovrò piuttosto dire: quest’albero, che mi si manifesta così e così, vuol essere recepito da me così e così. Ma sull’albero in sé non potrò dire nulla: esso comprende il mio conoscere, ma il mio conoscere è parziale e passivo di fronte ad esso. Non può rendere ragione del suo conosciuto, ma solo subirlo. Ora, subire non è conoscere, perché conoscere è un atto, una azione che parte dal conoscente. L’esistenza del soggetto, è ovvio, implica di per sé quella dell’oggetto, come l’agente implica che vi sia colui che subisce l’azione. Ma se il soggetto che agisce è sempre, essenzialmente, l’"altro", e l’oggetto che subisce è sempre, sostanzialmente, l’io, si potrà poi dire che l’io conosce davvero qualcosa? Come può divenire l’"altro" oggetto della mia conoscenza, se è piuttosto il presupposto di essa, anzi addirittura del mio essere attuale?
Già Cartesio aveva ammonito che, nel problema della conoscenza, bisogna dubitare di tutto, anche dei nostri sensi, perché un demone potentissimo e maligno potrebbe tessere intorno a noi un mondo di finzione, al solo scopo d’ingannarci. Ma senza arrivare a tanto: che altro è il sogno, se non oggetto "dato" che s’impone alla nostra mente e pretende convincerla della sua realtà oggettiva, esterna, indipendente dal nostro volerla o non volerla? Quando il potere contrattuale della nostra conoscenza è ridotto a zero perché essa dipende totalmente da una sorgente esterna, è ovvio che la nostra pretesa conoscenza si riduce a un fatto ipotetico: una ipotesi è un dato possibile ma, se rimane tale, non verificabile.
Le stesse considerazioni possono farsi a proposito dell’errore. Io vedo una sagoma nera muoversi nelle ombre della notte. Può essere un uomo, può essere un animale. La mia mente non ha partecipato alla coscientizzazione del dato, per il semplice fatto che non lo ha riconosciuto: solo i miei sensi vi hanno, parzialmente, partecipato. Che valore posso dare a una tal forma di conoscenza? Soltanto quello di una ipotesi. Anche la realtà oggettiva del sogno è una ipotesi, che nello stato di veglia, beninteso, ci affrettiamo a lasciar cadere come fallace ed erronea.
B. SECONDO L’ IDEALISMO.
La filosofia occidentale antica e medioevale è stata essenzialmente la filosofia dell’Essere o dell’oggetto; quella rinascimentale e moderna, a partire almeno da Campanella fino a Kant, è stata per lo più la filosofia del conoscere o del soggetto. Con Kant, che ha negato la conoscibilità del noumeno ossia della cosa in sé, la metafisica è definitivamente tramontata nel cielo della speculazione filosofica, la quale ultima si è rivolta unicamente al fenomeno. L’idealismo moderno, iniziato da Fichte e sviluppato da Schelling e da Hegel, ha tentato una sintesi dei due indirizzi speculativi "classici" e ha reintegrato il noumeno ovvero l’essere nella filosofia, ma al prezzo di soggettivizzarlo secondo le categorie del pensiero. Hegel ha fatto di più e si è spinto fino ad anteporre allo Spirito l’Idea in sé, il Logos. Nella sua ultima impennata metafisica, l’idealismo ha dunque assunto come principio filosofico universale il Pensiero: prima del soggetto (Spirito) e poi dell’oggetto (natura).
Di conseguenza, la posizione gnoseologica dell’idealismo può essere così sintetizzata:
ATTO
OGGETTO
SOGGETTO.
Ossia, per dirla con Hegel: al principio vi è l’Idea in sé,o Logos; da essa si origina, nel processo dialettico, l’Idea fuori di sé o natura, e infine l’Idea rientra in sé stessa, divenendo autocosciente sotto forma di Idea per sé o Spirito.
Dunque, tornando all’esempio precedente, dapprima vi è l’idea indifferenziata di albero e di soggetto conoscente, spirito puro, atto mentale anteriore a qualsiasi divenire; poi l’idea di albero si concretizza nello spazio e nel tempo, assume delle caratteristiche fisiche, si pone oggettivamente; indi l’albero materiale torna all’idea originaria e in tal modo prende coscienza di sé e diviene soggetto conoscente.
Certo, sembra bizzarro porre a fondamento di tutto l’esistente un puro pensiero, che non sia pensiero di qualche cosa né da qualche cosa; e ancor più bizzarro è immaginare che da questo cilindro di prestigiatore esca fuori tutt’a un tratto, già bello e fatto, un albero vero e proprio, fatto di legno duro, solidamente affondato nel terreno con le radici, proteso al cielo coi suoi rami. E poi, come già osservava lo Spaventa, come si mette in moto il meccanismo dialetto, se esso ha origine nel Logos anteriormente allo spirito? Come può la tesi generare l’antitesi e la sintesi, se essa tesi è l’Essere che, per sua natura, dà soltanto Essere e giammai divenire? Si potrebbe pensare che Hegel identifichi il Logos con Dio; ma non è così: egli stesso ci dice che Dio è niente di meno che l’ultimo anello della triade dello Spirito: ossia l’ultima fase dell’ultima fase dell’Idea: l’Idea che "finalmente" (sic) si libera da ogni condizionamento di spazio e di tempo per realizzarsi nello Spirito Assoluto! Il Dio di Hegel diventa Dio, per gradi e con fatica; molto prima di esso vi è l’Idea pura; ma come accade che codesta Idea pura cada nel mondo materiale, divenga codesto mondo materiale? Questa sarebbe, precisamente, la concezione degli antichi sistemi gnostici: lo spirito cadde, e diventò natura; ora deve faticosamente uscirne e risalire alla sua purezza originaria. Ma l’Idea non cade; l’Essere non può cadere, né compiere alcun altro movimento fuori di sé. E allora?
Diciamolo francamente: l’idea che il conoscere venga prima del conoscente e prima del conosciuto fa a pugni non soltanto col cosiddetto senso comune (che può basarsi su concezioni erronee, come prima si disse), ma anche con le leggi del pensiero razionale. Dire che l’idea di albero e di soggetto conoscente precede sia l’albero, sia il soggetto conoscente dell’albero, significa mettere il carro avanti ai buoi. Gli idealisti, certamente, osserveranno che l’Idea in sé di Hegel non è affatto conoscenza (e di che cosa, infatti?), ma Logos astratto che ha in sé, virtualmente, tutte le determinazioni del reale. Ma, a parte il fatto che questo Logos ben poco si differenzia dall’Assoluto di Schelling ("l’infinita notte — ironizzava lo stesso Hegel — in cui tutte le vacche sono nere"), tranne che a parole; non sono aberranti le conseguenze di un tale panlogismo? Se il principio di tutto è l’Idea, "tutto ciò che è razionale è reale, e tutto ciò che è reale è razionale". Orbene: chi vorrà negare che l’albero, che io vedo in sogno, è razionale? Possiede radici, fusto, rami, foglie e frutti come un qualsiasi altro albero; è solido, mi ci posso appoggiare ed esso mi sostiene; gli uccelli vi fanno il nido. Ma non è un po’ strana la conclusione che un tale albero, essendo razionale, debba essere anche reale? Oppure immaginiamo uno studente che sogni, alla vigilia dell’esame, di sostenere effettivamente l’esame, e di superarlo prendendo 6. Vi è qualcosa di irrazionale nel 6 del sogno? Non è un 6 proprio tale e quale quello pensabile nello stato di veglia? Hegel sosteneva che l’essenza dell’Idea è la pensabilità del reale. Ma allora dobbiamo concludere che lo studente ha effettivamente superato l’esame, solo perché il, 6 che ha preso in sogno è pensabilissimo?
Questo per quanto riguarda la realtà del razionale; pensiamo un attimo a esaminare l’altro versante, la razionalità del reale. Se tutto ciò che è reale è per ciò stesso razionale, dovremo durare fatica a distinguere fra i diversi gradi della razionalità — ammesso che ve ne siano. Uno Stato, in cui convivano etnie diverse, può prendere atto di tale diversità e fondare su di essa un principio di convivenza e di reciproco rispetto; si dirà che ha scelto una soluzione razionale. Ma può anche decidere di sterminare qualche milione di persone considerate "inferiori". O non può? Certo che può; e lo ha fatto (anche di recente: in Ruanda, per esempio, nel 1984). Ma se siamo degli idealisti coerenti dovremo dire che anche questa seconda soluzione, in quanto effettivamente attuabile, è razionale. Così pure, la via più breve che collega Milano con Torino è quella passante per Novara. Sembrerebbe dunque che essa debba essere preferibile a quella passante per Tokyo; ma non è del tutto vero: entrambe sono realizzabili e dunque entrambe sono razionali. Si potrà allora andando da Milano a Torino passando per il Giappone con tutti i crismi della razionalità. Ma fermiamoci qui: dal punto di vista gnoseologico, l’assunto hegeliano che ci interessa è quello riguardante la realtà di tutto ciò che è razionale. L’altra faccia della medaglia, ossia la razionalità del reale, dal punto di vista conoscitivo non è che un misero senno del poi, in quanto accetta e subisce il dato così com’è, qualunque esso sia. Certo, è piuttosto grave che lo gratifichi automaticamente del crisma della razionalità. Ma la gravità di questo servilismo nei confronti del "dato" si palesa nella sfera della prassi: teoreticamente, esso è semplice impotenza del pensiero. E quando il pensiero rinuncia a pensare, può accadere che si vada da Milano a Torino passando per Tokyo, convinti di seguire una strada perfettamente logica. O che si faccia, anche in altri campi, qualche cosa di peggio.
PROBLEMATA. PERCHE’ IL DUALISMO?
Realismo e idealismo, come abbiamo visto, hanno due posizioni alquanto differenti nell’approccio gnoseologico alla realtà. Il primo pone al centro della conoscenza l’oggetto, il secondo il pensiero. Eppure, singolarmente, per quanto riguarda le conclusioni ontologiche, l’uno e l’altro indirizzo di pensiero giungono alla medesima conclusione: il dualismo.
Per quanto riguarda il realismo, la cosa è di per sé abbastanza evidente: c’è innanzitutto una realtà oggettivamente data; poi c’è un soggetto che la percepisce. Come poi questa conoscenza avvenga; come, cioè, abbia luogo il passaggio — o piuttosto il salto — dall’una all’altra sfera, visto che esse non hanno nulla di sostanziale in comune, rimane un punto oscuro. Condillac, per esempio, paragonava il soggetto conoscente a una statua, priva di qualsiasi rapporto con il mondo circostante, cui veniva dischiusa la conoscenza aprendo attraverso di essa, uno dopo l’altro, i cinque sensi. Ma quando poi si trovò a dover rendere ragione di come le sensazioni del mondo esterno si mutassero in autocoscienza del soggetto, non potè far altro che tirar fuori l’anima e porla come substrato delle sensazioni medesime.
Per quanto poi riguarda l’idealismo, dobbiamo distinguere fra idealismo oggettivo e idealismo soggettivo. Quando Platone contrapponeva al mondo delle cose il mondo delle pure Idee, allontanandolo al tempo stesso negli spazi remoti dell’Iperuranio, fondava un realismo di tipo oggettivo, poiché considerava l’essenza dell’essere in sé e per sé, indipendentemente dal soggetto pensante. Quando invece Fichte, eliminando definitivamente il noumeno di Kant, ponevaa fondamento di tutta la realtà l’Io puro, egli soggettivizzava il reale poiché lo riduceva a conoscenza o fuunzione del sogetto pensante. Nel primo caso – quello di Platone- abbiamo il più lacerante dualismo a livello ontologico. Nel secondo caso – quello di Fichte – sogetto e oggetto, io teorico (individuo riflettente) e non – io – (natura) scaturiscono entrambi dalla medesima fonte dell’Io puro, traverso il processo dialettico tesi – antitesi – sintesi: ma la loro ricomposizione nella sintesi dell’Io puro è meramente verbale. Se il noumeno era il "caput mortuum" della filosofia di Kant, la natura è il "caput mortuum" della filosofia di Fichte. Di fatto, la natura rimane esclusa dal processo dialettico, nel quale non ha parte se non in forma puramente negativa; e viene poi lasciata indietro dall’Io puro allorchè esso, presa coscienza del contrasto fra io e non-io, lo supera (o meglio, Fichte dice che lo supera) nella fase della sintesi.
Schelling ripescò questo "caput mortuum", questo incidente del processo dialettico, e ne fece una fase inconscia, ma sempre positiva, del processo dialettico dell’Assoluto. La natura spodestata reclamava i suoi diritti, e Schelling cercrò di soddisfarli mantenendola sempre all’interno di un unico processo evolutivo, che dall’indistintoAssoluto si risolve nello spirito autocosciente. Ma allora, se la natura è, per usare l’espressione di Schelling, "uno spirito gigante pietrificato nei suoi sensi", ecco ricomparire precisamente il dualismo platonico di mondo materiale e mondo ideale. Lasciamo per ora perdere la questione di come lo Spirito abbia potuto, ad un bel momento, restar pietrificato; Schelling parla bensì della natura come dell’"intelligenza che diviene", ma il divenire dell’intelligenza fa a pugni col concetto di una sua pietrificazione. Resta il fatto che se la natura è un momento dialetticamente autonomo dell’Assoluto, essa si contrappone allo spirito con tutto il suo peso; né vale, come pretendeva lo Schelling, tentar di riconciliarli nella folgorazione dell’intuizione estetica. Anche ammesso che una tale sintesi di natura e spirito, di finito e infinito, sia possibile, resta comunque il fatto che si tratta di una sintesi "a posteriori". Ontologicamente, cioè considerata nella sua genesi dall’unità originaria dell’Assoluto, la natura resta una fase a sé del diveniure – sostanzialmente, proprio come in Fichte. Non giova ribattere che si tratta di una fase metafisica e non cronologica, come voleva Fichte, perché questo vuol dire far filosofia con le parole e non coi concetti; quanto a Schelling, egli stesso definiva la natura come "la preistoria dello spirito", tanto era convinto del suo valore autonomo e cronologico. Ma ecco allora, inevitabile, il dualismo.
Hegel tentò, è ben vero, di chiudere il cerchio – ossia di ricondurre la Natura (che egli chiamava l’Idea fuori di sé, ossia fuori del Logos) nello Spirito (ossia nell’Idea per sé), traverso la sintesi degli opposti, mutuata da Fichte. Ma in pratica, per poter realizzare la sua tranquilizzante -per non dire trionfale – sintesi finale, egli non potè fare altro che idealizzare la natura (L’Idea fuori di sé!), sostentendo che l’Idea in sé o Logos, si faceva natura, materializzandosi nello spazio e nel tempo. Una volta che aveva posto il Logos come principio universale, era inevitabile che Hegel idealizzasse la natura, altrimenti poi non sarebbe mai riuscito a riconciliarla col pensiero stesso. Senonchè, come abiamo visto prima, non è chiaro in qual modo il Logos a un certo punto uscirebbe da sé per farsi natura. Non è certo sufficiente dire che l’Idea si manifesta nello spazio e nel tempo, per idealizzarla; in effetti, tutto quello che si può fare a codesto modo è piuttosto materializzare l’Idea. Strani esiti dell’idealismo hegeliano! Ma l’Idea non si materializza, così come non si pietrifica l’intelligenza schellinghiana, e valgono qui, del resto, le obiezioni già mosse alla dialettica di Fichte. La natura, anche nella filosofia hegeliana, occupa una fase eminentemente negativa. Essa è l’Idea fuori di sé, dunque la terra dell’esilio per il pensiero, l’errore che dev’essere superato tornando in sé. Anche qui, in conclusione, un dualismo; che nella sintesi dell’Idea per sé viene superato soltanto a parole. Se non era chiaro come il pensiero avesse potuto uscir da sé per farsi natura, ancor meno chiaro è come esso possa rientrare in sé per farsi spirito. Qui ci vuole un doppio miracolo; e uno è già troppo per una filosofia che voglia esser credibile. Se la nostra mente fatica alquanto a concepire un pensiero che si materializza, non può assolutamente adattarsi all’idea che la materia si possa spiritualizzare. Il circolo dialettico di Hegel è chiuso solamente a parole: di fatto, per dirla con Antonio Rosmini, esso ha introdotto la pazzia nel mondo; ma più grave ancora, per dirla con Sören Kiekegaard, esso si è dimenticato della nostra vita concreta di singoli, immersi nel qui e ora.
Ora, se il compito della filosofia è quello di guidarci traverso il tumulto delle ombre inquietanti del divenire ,fino alla luce e alla pienezza dell’Essere, non possiamo accontentarci di compiere il movimento nella sola sfera speculativa. Sempre Kiekegaard ricordava, in polemica con l’hegelismo, che ogni movimento si compie nella passione e che non c’è movimento capace di attuarsi per la sola via della riflessione. Il sistema di Hegel spiega tutto a parole, eppure ci lascia con un senso di amaro in bocca, di profonda insoddisfazione. Esso ha spiegato tutto: e non ha spiegato niente. Se il suo approdo effettivo è – come le altre correnti dell’idealismo – una concezione dualistica del reale, si può dire che esso ha sciolto i nostri dubbi? Che ha placato la nostra ansia di comprendere? Che altro è il dualismo, se non una maniera piùo meno elegante, più o meno esplicita di dire: non lo so? Qui c’è la natura, lì c’è lo spirito; qui il sogetto, lì il soggetto; qui il divenire, lì l’Essere. Ma come questa divisione abbia avuto inizio; come si spieghi, logicamente e cronologicamente; che senso abbia; come si possa risolvere: a tutte queste domande il dualismo non sa rispondere. Se proprio ci vede angosciati a causa di questa lacerazione, con una familiare pacca sulla spalla pretende di rassicurarci, dicendo: "Nessun problema: tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale", con il che ci mette una bella pietra sopra.
Ma nemmeno il realismo può tentar di rispondere a quelle domande fondamentali. Non lo potrebbe, a meno di andare contro le proprie premesse e di negare sé medesimo. Anch’esso ci lascia soli coi nostri dubbi, con la nostra sete inappagata di comprendere e di riconciliarci. Di qua la natura, di lì lo spirito – ammesso che vi sia, uno spirito.
Esamineremo adesso brevemente due posizioni filsofiche che hanno tentato maggiormente di avvicinarsi alla soluzione di questa antinomia. Che lo hanno tentato non per amore di conciliazione puramente verbale, ove è possibile risolvere tutto senza aver spiegato nulla, ma perché sentivano la conciliazione come una esigenza fondamentale dell’essere in quato tale. Con ben altra umilità e profonda consapevolezza dell’idealismo, hanno piegato le esigenze della filosofia alla natura dell’Essere e non hanno tentato di adattare la natura dell’Essere alle esigenze della loro filosofia. In altre parole, hanno tentato di riconoscere il retto cammino fuori della "selva oscura" del divenire, senza la pretesa d’ inventarselo là dove non c’era. Nemmeno esse, però, hanno avuto la coerenza logica di spingere fino alle ultime conseguenze la loro giusta esigenza di verità e si sono fermate, su posizioni diverse, a metà strada. Queste due posizioni filosofiche sono il panteismo e il solipsismo.
C. [SECONDO IL PANTEISMO.**
Non ci è possibile, per non uscire dai limiti del presente lavoro, prendere in esame il pensiero di tutti i filosofi che si sono rifatti, più o meno esplicitamente, a una concezione panteistica del reale. Ci limiteremo perciò a esaminare brevemente uno fra i più significativi di essi, Spinoza, con particolare riguardo ai riflessi della sua concezione in campo gnoseologico.
L’intuizione centrale della visione panteista è questa: che se la natura è infinita, Dio e la natura sono la medesima cosa, perché solo ciò che è divino possiede l’attributo della infinità. Noi troviamo questa intuizione consapevolmente formulata, per la prima volta, nella filosofia di Giordano Bruno; a Spinoza va il merito di averla ripresa e trasformata in una delle componenti fondamentali della filosofia moderna, le cui tracce sono agevolmente rintracciabili sino a Fichte, Schelling e oltre. Spinoza parte da Cartesio e si pone il seguente problema: come è possibile risolvere il doppio dualismo esistente fra sostanza finita e sostanza infinita, fra res extensa e res cogitans? Riflettendo su tale questione, scopre che è proprio Cartesio ad offrirgli la chiave della soluzione. Non aveva definito Cartesio la sostanza come ciò che ha in sé stesso la propria ragion d’essere, senza bisogno del concorso di alcun’altra cosa? È evidente che, in tal caso, solo alla sostanza infinita, cioè solo a Dio, spetta la qualifica di sostanza, perché solamente Dio è, a rigor di termini, causa sui. Cartesio aveva bensì operato la distinzione fra l’autosufficienza assoluta della sostanza infinita, e quella relativa della sostanza finita; distinzione vana e puramente verbale: se la sostanza finita trae da Dio la causa ultima del suo essere, in che senso si potrà dire che essa è autosufficiente? Spinoza, dunque, conclude che solo la sostanza infinita è, propriamente, sostanza, ma si spinge oltre, e compie il passo decisivo. Se la sostanza è ciò che esiste con piena autosufficienza, non può che darsi una ed una sola sostanza, perché l’Essere non è divisibile, non è molteplice, ma unico. Dio è dunque la sola vera sostanza che si possa dare: è lui la sostanza infinita.
E la natura? Se Spinoza fosse stato rigorosamente coerente con le proprie premesse, avrebbe dovuto concludere che la natura non è che la manifestazione illusoria della sostanza infinita nei confronti dei suoi modi, ossia delle sue manifestazioni particolari e contingenti; e, ancora più coerentemente, avrebbe dovuto subito aggiungere che anche codesti modi non sono che manifestazioni illusorie della sostanza infinita che, essendo unica, non ammette emanazioni fuori di sé, e tanto meno emanazioni materiali. Ma una tale coerenza lo avrebbe condotto all’assurdo: come conciliare, infatti, l’infinità, l’eternità, la libertà e la necessità della sostanza infinita, col fatto ch’essa si manifesti contingentemente in forme illusorie, se non c’è altra sostanza al di fuori di essa? In altri termini: se Dio è tutto; se i singoli enti sono illusori; può essere allora che Dio illuda sé stesso? Certamente non può essere: e Spinoza, pur affermando che i modi sono, in fondo, anch’essi eterni ed infiniti, perché fanno pur sempre parte di Dio, prudentemente si tiene alla larga da una tale coerenza logica. Dopo aver fatto la scoperta, sulle tracce di Cartesio, che la sostanza non può che essere unica, e che quindi è infinita e coincide con la sostanza infinita, egli vien fuori a dire che tale sostanza infinita è contemporaneamente Dio e natura: Deus sive natura. Egli salva così tanto l’unità della sostanza, quanto l’esistenza reale e autosufficiente della natura; elimina il doppio dualismo cartesiano di sostanza inifinita e finita, di res cogitans e res extensa: ma a quale prezzo?
Innanzitutto, possiamo osservare che il suo panteismo non è molto coerente dal punto di vista logico. Se Dio e la natura sono la medesima cosa, o anche due facce della medesima realtà, dovrebbe risultarne che i suoi modi sono infiniti; ma, se sono infiniti, non sono più modi: perché la sostanza, così come non ammette molteplicità, neppure ammette complessità. Egli sostiene che la nostra conoscenza sensibile, incapace di cogliere il vero rapporto esistente fra i modi e la sostanza, si illude che le cose particolari esistano in modo finito. Ma se Dio è tutto, torniamo a ripetere: anche noi siamo in Dio, anzi anche noi siamo Dio. Che cosa è dunque codesta conoscenza sensibile, di cui parla Spinoza, che cosa mai siamo noi; come possiamo pensare, e addirittura illuderci, se siamo tutt’uno con Dio? Ma c’è un’ altra gravissima contraddizione in cui cade Spinoza, e che è il retaggio fatale di ogni panteismo. Dopo aver identificato Dio e natura, Spinoza afferma – di contro a Cartesio – che questa sostanza non è duplice, ma possiede bensì molteplici attributi. Ne possiede anzi un numero infinito (essendo infinita essa stessa), dei quali però noi, che siamo solo dei modi, non ne possiamo cogliere che due, e cioè il pensiero e l’estensione. Strana combinazione!, sono proprio – sotto mentite spoglie – le due sostanze di Cartesio: la sostanza pensante e la sostanza estesa. Così Spinoza reintroduce, senza avvedersene, il deprecato dualismo cartesiano, e anzi arriva a sostenere che esiste un parallelismo ben preciso fra l’"ordo idearum" e l’"ordo rerum". Dobbiamo allora concludere che egli ricade nell’occasionalismo di un Malebranche, postulando un continuo intervento diretto di Dio nella nostra sfera esistenziale, tale da risolvere in Dio il nostro stesso pensare ed agire? Nemmeno per idea: Spinoza nega che il pensiero e l’estensione abbiano una loro esistenza reale ed autonoma, e ribadisce che essi sono soltano due attributi della sostanza infinita, che in ultima analisi coincidono. Cioè, a noi appaiono come attributi distinti: ma, in effetti, l’uno e l’altro sono la stessa cosa. Ma allora rispunta fuori l’obizione: chi siamo noi, che cadiamo vittime di una siffatta illusione? Spinoza risponde: siamo modi della sostanza; ma oscilla continuamente egli stesso fra l’alternativa di considerarli come finiti e contingenti, oppure infiniti ed eterni. Dalla identificazione della natura con Dio, dovrebbe scaturire la conclusione che anch’essi sono parte di Dio, e quindi infiniti ed eterni; ma in tal caso, come spiegare che gli attributi della sostanza – ossia il pensiero e l’estensione – ci appaiono invece come distinti?
Questa è la contraddizione capitale e irrisolvibile, nella quale il panteismo di Spinoza – come del resto qualunque panteismo – invanoo si dibatte. Se vi è un’unica sostanza, essa dev’essere semplice, altrimenti si reintroduce dalla finestra il dualismo cartesiano, già cacciato dalla porta. Ma se la sosatanza è semplice, non ha attributi: o, se li ha, allora essi sono illusione, come lo sono del resto i singoli modi. Ma illusione di chi? Non di Dio, perché Dio non può illudersi, e men che meno illudere sé stesso. A questa domanda il panteismo non può rispondere, perché si è messo da sé medesimo in un vicolo cieco.
Se ora torniamo sul terreno concreto dell’esemplificazione, e ci domandiamo: come spiega il panteismo il fenomeno della conoscenza, ad esempio la mia conoscenza di codesto albero che ho di fronte, dovremo rispondere: io e l’albero siamo la stessa cosa. Anzi, tutte le menti e tutti i corpi sono un’unica realtà, la realtà totale, sostanza infinita. Questa suprema identità, però, dovrebbe annullare ogni differenziazione pensabile; e come va, allora, che io conosco l’esistenza distinta dell’albero, e mi rapporto ad esso come soggetto a oggetto? Il panteismo risponde: tu credi di essere qualche cosa di distinto dall’albero, ma è solo illusione, perchè in realtà tu ed esso e tutto quanto siete una cosa sola. Una cosa al tempo stesso pensante e infinita. Ma come pensare che ques’unica cosa abbia del reale, cioè di sé medesima, delle percezioni distinte e, come se non bastasse, illusorie? Se c’è illusione, qualcuno o qualcosa devono averla prodotta. Ora, se non esiste altra realtà fuori della sostanza di cui anch’io e l’albero facciamo parte – o crediamo di far parte -, si dovràò dire che l’illusorietà è l’attributo fondamentale della sostanza, come lo sono il pensiero e l’estensione? Una eterna illusorietà, una infinita illusorietà, anzi una eterna e infinita autoillusorietà? La mente vacilla ed arretra davanti a un tale pensiero. E non senza motivo: un Dio che eternamente ed infinitamente erra, non è più certamente un Dio. E un panteismo che voglia essere coerentemente sviluppato finisce per negare e annullare sé stesso.
Il panteismo afferma che Dio e la natura sono una stessa cosa: dunque, che la natura è il corpo di Dio. Ma Dio non ha né può avere un corpo. Un corpo è, per definizione, qualche cosa di finito. Ora, la geometria (euclidea) può prendersi il lusso di sostenere che una retta si prolunga all’infinito, solo perché si guarda bene dal tentare di dimostrarlo. Ma una qualsiasi retta reale, e non meramente pensabile, avrà sempre un inizio e una fine, checché ne dica la geometria.
D 1. SECONDO IL SOLIPSISMO: OCCIDENTALE.
Il solipsismo è la posizione filosofica di chi riduce tutta la realtà al soggetto pensante e considera le cose esterne come sue percezioni o rappresentazioni, in realtà prive di una loro esistenza effettiva ed autonoma.
Tracce di una visione solipsistica sono riconoscibili in numerosi sistemi filosofici, anche se nella filosofia occidentale il solpsismo non è stato eretto a sistema autonomo, né tanto meno coerentemente sviluppato. Il pensatore europeo che più di ogni altro è stato suggestionato da esso è Berkeley, quantunque gli esiti della sua filosofia finissero per ripudiarne le premesse, poiché egli si tenne sempre fermo all’idea di Dio quale realtà ultima e assoluta. Del solipsismo lo attraeva l’ambizione di farla finita col dualismo di soggetto e oggetto, dualismo che è il più serio ostacolo alla spiegazione del fenomeno conoscitivo. Infatti, come abbiamo già avuto occasione di dire, se il soggetto e l’oggetto sono realtà non solo distinte, ma separate, come è possibile il passaggio dall’uno all’altro, che ha luogo nell’atto conoscitivo? Era un po’ il vecchio problema di Cartesio, che Malebranche aveva tentato di superare con la teoria dell’occasionalismo e Spinoza con la sua filosofia panteista.
Berkeley, uomo del XVIII secolo, benchè pastore anglicano e poi vescovo, significativamente non parte da Cartesio, ma da Locke, il distruttore della metafisica. Locke aveva distinto le qualità dei corpi in primarie e secondarie, oggettive le une, soggettive le altre, e in un certo senso era venuto riproponendo la distinzione cartesiana fra res cogitans e res extensa. Infatti, se le qualità primarie sono inerenti ai corpi ed esistono oggettivamente al di fuori di noi, vi è qualche cosa che non è riducibile a nostra sensazione. Ma non aveva Locke posto a fondamento di tutta la sua filosofia l’assunto che tutte le idee (cioè le conoscenze) derivano dall’esperienza, e che anteriormente ad esse la nostra mente non è che una tabula rasa? Ora, se noi conosciamo soltanto le nostre idee, come va che fuori di esse vi è una realtà esterna indipendente, che non è riconudicibile in alcun modo ad esse?
Con più coerenza e con più coraggio concettuale, Berkeley prende d’assalto la cittadella di questo noumeno ante litteram, di questa misteriosa raltà esterna indipendente. Come aveva Locke distinto le qualità primarie dalle secondarie? Approssimativamente così: aveva affermato che le qualità secondarie sono i colori, i sapori, i suoni, e insomma quelle relative ai cinque sensi; primarie tutte le altre, quali l’estensione, il movimento, la figura e il numero. Con una critica rigorosa e implacabile, Berkeley demolisce la distinzione lockiana fra qualità primarie e secondarie e dimostra che sono tutte secondarie, perché tutte soggettive. Oppure c’è qualche cosa d’altro, nel cosiddetto oggetto che noi percepiamo, oltre al suo venir percepito dalla nostra mente? Belkeley dimostra che non c’è, che non potrebbe in alcun modo esserci, in quanto ogni percezione è percezione dei sensi, ossia del soggetto. Di qui il motto esse est percipi, esistere è l’esser percepito, in cui egli potè scutoreamente sintetizzare il nucleo della sua dottrina.
Ora, se l’essere si riduce all’essere percepito, è chiaro che non si dà alcun oggetto reale, ma soltanto un soggetto percipiente; tutto il resto sono sue idee, alle quali soltanto spetta la qualifica di reali. Non v’è alcun mondo esterno fuori delle sensazioni. Quando io dico: questo è un albero, intendo propriamente dire che questa è una mia idea di albero. Il colore, la forma, l’odore, la stessa solidità, insomma tutto quel che di esso conosco è una mia idea, idea percepita dalla mia mente, dentro la mia mente: non fuori. Il suo colore, la sua forma, il suo odore, la sua solidità non sono in esso, ma in me; se fossero in esso, che ne saprei io? Ma poiché ne ho una mia idea, questa idea deve essere una funzione della mia mente; nulla mi aurtorizza a dire che vi sia qualcosa d’altro oltre ad essa, di esistente oggettivamente fuori di me (l’albero in sé e per sé).
Se Berkeley fosse stato coerente con tali premesse, avrebbe dovuto naturalmente approdare al più rigoroso solipsismo. Avrebbe dovuto ammettere che anche l’origine delle nostre idee è dentro di noi, e concludere che tutto il resto, Dio compreso, è una idea della nostra mente; e, d’accordo con Locke, avrebbe ribadito l’impossibilità della metafisica. Ma se le nostre idee hanno origine in noi, noi da dove abbiamo origine? Ecco l’obiezione cruciale, di fronte alla quale il solipsismo viene colto in flagrante reato d’insufficienza logica. Negando una realtà oggettiva alla natura, Berkeley aveva sì eliminato il dualismo di soggetto e oggetto, riducendo tutto al solo soggetto; ma come spiegare, allora, l’origine della conoscenza, e per di più di una conoscenza fallace, che si illude circa l’esistenza reale degli oggetti materiali? Solo Dio è autocoscienza nel senso pieno della parola, perché lui solo può essere causa delle proprie rappresentazioni; ma se queste sono illusorie? Berkeley si trova qui, più o meno, alle prese con lo stesso genere di problema posto dal panteismo di Spinoza; ossia con la crux che è caratteristiuca di ogni filosofia la quale, eliminato l’oggetto, si trovi poi a dover rendere conto di come la nozione di oggetto abbia fatto la sua comparsa nella coscienza. E, prudentemente, arretra.
La conoscenza da parte degli spiriti finiti, egli afferma, è certamente illusoria, perchè postula l’esistenza reale di un mondo fisico che non c’è; ma, di contro alla percezione degli spiriti finiti, si leva quella dello Spirito Infinito, Dio. Egli pensa le cose esterne nella nostra mente e, per mezzo di tale nostra conoscenza, dona loro un’esistenza provvisoria; la quale, quando la nostra percezione cessa, cessa essa pure, ritornando allo stato di esistenza oggettiva, ma solo nella mente divina. Per tornare all’esempio dell’albero: io lo vedo e lo conosco, perché Dio lo pensa in me e, pensandolo, lo crea; ma se io chiudo gli occhi, l’albero cessa di esistere relativamente alla mia mente (l’essere è solo l’esser percepito!); d’altra parte, continua ad esistere nella mente di Dio. E poiché anche la mia mente, in ultima analisi, non è che un pensiero di Dio, possiamo dire che l’esistenza relativa delle cose inizia quando Dio le pensa per mezzo di noi, mentre l’esistenza assoluta di esse è eternamente presente alla sua mente.
Come arriva Berkeley all’idea di Dio? Ripercorrendo il cammino di Locke, allorchè quegli aveva cercato di fondare, a dispetto di tutta la sua filosofia empiristica, una metafisica. Vi sono in noi delle ide che è in potere della nostra mente creare, come nel sogno e nella fantasia, come ad esempio l’ idea di albero. Ma vi sono delle idee che non sta in noi evocare o dissipare; per esempio, l’ idea di questo albero che ho qui davanti a me, e che non è in mio potere modificare in alcun modo. Berkeley ne conclude, sulle tracce di Locke, che tali idee devono avere la loro origine fuori di noi: ma fuori anche della materia, perché la materia, come si è visto, non esiste. Ora, chi altri se non Dio è fuori di noi e fuori della materia? E tanto noi, spiriti finiti, quanto le cose esterne, che crediamo materiali, siamo null’altro che idee della sua mente.
Berkeley non illumina come Dio, spirito infinito, dia luogo a noi, spirtiti finiti, né come avviene che noi abbiamo delle cose una nozione fallace; né, in definitiva, perché Dio pensi le cose all’interno delle nostre menti. In un certo senso, si potrebbe dire che la sua filosofia finisce proprio là dove ci si aspetterebbe che incominci. Perché il problema ontologico ripropone fatalmente il problema gnoseologico: se tutto il reale è Dio, donde nasce l’errore? Si suol diore che le coerenti conseguenze del pensiero di Berkeley furono tratte da Hume, il quale condusse l’empirismo a sfociare nello scetticismo, ossia a un punto tale dove la filosofia deve fatalmente arrestarsi per non precipitare nel vuoto, e fare marcia indietro.O, almeno, è la vita che deve fare marcia indietro, perché con lo scetticismo la vita diviene impossibile, e Hume era il primo a riconoscerlo.
In realtà, se vogliamo cercare gli sviluppi più coerenti e interessanti delle premesse di Berkeley, dobbiamo uscire dal panorama della filosofia occidentale, perché – come si disse – nessun pensatore occidentale ha sviluppato il solipsismo fino alle sue estreme conseguenze. Getteremo quindi un rapidissimo sguardo su alcune filosofie orientali, che intorno a questo problema si sono lungamente appassionate, senza pretendere di fornire un quadro completo e tanto meno esaustivo di esse. Forse potremo arricchirci di qualche spunto prezioso per un ulteriore sviluppo della nostra indagine.
D 2) SECONDO IL SOLIPSISMO. ORIENTALE.
Una concezione proterva e arrogante del sapere – e non solo del sapere – ci porta a identificare la filosofia occidentale senz’altro con la filosofia. Di quella orientale i nostri professori, il più delle volte, non parlano, per il semplice fatto che non la conoscono; quasi che non si trattasse del medesimo sforzo speculativo della mente umana. Questo tipo di ignoranza non è scusabile. Esso implica il disprezzo ed è, quindi, una manifestazione di arroganza. Nelle università dell’Asia la filosofia occidentale viene studiata con estrema attenzione. Perché non si fa altrettanto, in Europa e in America, con la filosofia orientale?
Per ragioni di spazio, ma anche di metodo, noi limiteremo per ora il nostro sguardo alla filosofia indiana. In essa, contrariamente a quanto il vasto pubblico europeo è incline a pensare, le scuole filosofiche che negano l’esistenza del mondo fenomenico, dell’oggetto, non sono molte. Esse si riducono in sostanza a due: il buddhismo del Grande Veicolo o Mahayana; e una parte – ma non tutta – del Vedanta. All’interno della filosofia Mahayana, poi, la corrente più interessante al fine di istituire un parallelo col solipsismo berkeleyano, è quella dei Vijnanavadin o Yogacara. Essa identifica la realtà tutta intera col pensiero e lo definisce l’Assoluto, o il Principio, attribuendogli il carattere di coscienza cosmica. Codesto Assoluto non va in alcun modo identificato con le singole manifestazioni del pensiero, le quali hanno origine da una "maculazione spontanea" nella fase di obiettivazione di esso. Come ciò esattamente avvenga, non è chiaro (vedremo che nel Vedanta si tenterà una spiegazione razionale); certo è che da questa sorta di caduta o peccato originale del pensiero, hanno origine le menti individuali e l’illusione dei sensi. Sono i pensieri, dunque – non il Pensiero Assoluto – che danno vita all’inganno della realtà materiale; ma non c’è alcuna realtà materiale, come non c’è, del resto, alcuna mente individuale. Ed è la catena dei pensieri, di conseguenza, che va fermata: una volta fermata, l’illusione del divenire cadrà, e il Pensiero potrà riacquistare la propria libertà.
I filosofi del Yogacara – Maitreya, Asanga e i due Vasubandhu – riducono quindi tutta la realtà alla assoluta soggettività del pensiero; pensiero che però concepiscono in forma creativa. Con le sue illusorie creazioni, esso dà origine all’oggetto: ma l’oggetto, ontologicamente parlando, non ha consistenza reale, è bensì irreale, il vuoto. Reale è solo l’Assoluto, che è soggettività assoluta e che vien chiamato sunya, il vuoto, con ben altra accezione del termine: perché esso è il vuoto quanto al mondo delle sue rappresentazioni, ma è il Principio considerato in sé stesso.
Come si vede, l’Assoluto del Yogacara e il Dio di Berkeley hanno alcuni punti in comune, in particolare l’intonazione solipsistica del fatto conoscitivo. Hanno anche in comune, però, l’impotenza a spiegare l’origine dell’auto-illusione gnoseologica. Il cristiano Berkeley, naturalmente, può invocare la creazione degli spiriti finiti da parte dello Spirito Infinito, anche se non spiega, mi sembra, le ragioni per le quali quest’ultimo pensa nelle menti finite il mondo cosiddetto materiale, e pensandolo lo crea. Lo Yogacara non spiega invece l’origine, metafisica e cronologica, della serie individuale dei pensieri. Esso prende le mosse dal Mahayana del filosofo Nagarjuna, così come Berkeley prende le mosse da Locke. Nagarjuna aveva negato l’esistenza materiale delle cose partendo da un ragionamento abbastanza simile a quello di Spinoza nei confronti della sostanza cartesiana. Solo ciò che è causa di sé medesimo, aveva sostenuto Nagarjuna, possiede natura propria, ossia è nel senso specifico della parola; e poichè le cose appaiono condizionate, nella loro esistenza, le une dalle altre, bisogna concludere che esse non hanno esistenza reale. Così egli aveva concluso che il mondo materiale è un velo di mere apparenze, oltre il quale c’è l’assolutamente indifferenziato, né essere né non-essere: il vuoto. Lo Yogacara, dunque, aveva sostanzializzato codesto concetto di vuoto, riconoscendo in esso la pienezza autentica dell’Essere. In effetti, la logica di Nagarjuana era tale che doveva necessariamente finire per distruggere sé stessa: se l’essenza ultima del reale è il vuoto, allora il pensiero cade e ogni filosofia diventa impossibile.
Se il buddhismo è, nel contesto storico della filosofia indiana (al pari del jainismo) , una scuola eterodossa, il Mahayana può considerarsi una eresia nell’eresia, e come tale venne stigmatizzato dal clero buddhista, tradizionalmente arroccato sulle posizioni dottrinarie del Piccolo Veicolo (ma il termine è piuttosto spregiativo, meglio dire Hinayana o Theravada).
Consideriamo ora come il problema gnoseologico viene considerato nella scuola del Vedanta, l’unica delle sei scuole ortodosse dell’India classica che nega esistenza reale al mondo fenomenico e si avvicina, quindi, a una visione solipsistica dell’esistenza. Nella filosofia Vedanta giganteggia la figura di Sankara, un maestro col quale si dovettero misurare tutti i successori, anche coloro che si opposero aspramente alle sue dottrine. Nel pensiero di Sankara, a sua volta – nonostante la polemica con le scuole buddhiste contemporanee – è evidente l’influsso della ontologia Mahayana, con la quale presenta molte affinità.
La realtà ultima e assoluta, secondo Sankara, è il Brahaman, l’Uno, il totalmente indifferenziato, che è anche l’Atman o coscienza cosmica universale. Il preciso rapporto intercorrente tra Brahaman e Atman, invero, non è lumeggiato con sufficiente chiarezza, onde sin dall’inizio la filosofia Vedanta si trova impigliata in una notevole ambiguità. Se infatti l’Atman è un attributo o anche uno stadio metafisico del Brahaman, quest’ultimo cessa di essere l’Indifferenziato; se è una sua emanazione, poi, si crea addirittura un dualismo: e la lotta contro ogni concezione dualistica del reale è l’anima della speculazione di Sankara. Ciò osservato, andiamo avanti. Caratteristica fondamentale del reale è l’Essere, dunque tutto ciò che diviene è irreale: tale il mondo delle nostre percezioni e delle nostre rappresentazioni, tale il nostro crederci distinti dal Brahaman.
Da che cosa dipende che noi attribuiamo un’esistenza reale all’oggetto, che è invece puro non-essere? Dalla maya, che è a un tempo potere creativo del Brahamn e velo alla sua realtà ultima, inganno dei sensi, illusione. Maya è dunque un velo che va rimosso per dissipare il sogno della vita fisica e per riportare il nostro essere nel seno del Brahaman, fuori dalla ruota d’Issione – come avrebbe detto Schopenhauer – della avidya, causa delle rinascite. La nostra destinazione finale è l’Advaita, l’essere non duale, l’Uno, nel quale risiede la suprema beatitudine. E balza allora in primissimo piano la preoccupazione soteriologica del Vedanta, che è caratteristica d’altronde di tutta o quasi tutta la filosofia indiana, ad eccezione di alcune scuole materialistiche.
Il pensiero di Sankara ha avuto una tale risonanza in tutta la cultura indiana, anche per le sue implicazioni anti-settarie e liberatrici, che è da molti considerato come la massima espressione della filosofia dell’induismo. Ciononostante, sono evidenti le aporie nelle quali esso cade sul piano logico. Sankara manifesta una costante preoccupazione religiosa: dalle Upanishad egli muove, soprattutto dal concetto che l’Io è l’unico essere reale, e alla dottrina della salvezza approda, configurandola come una lotta metafisica con l’avidya o ignoranza esistenziale. I punti deboli della sua filosofia, oltre alla già accennata oscurità del rapporto fra Brahaman e Atman, sono essenzialmente due: come si origina l’errore della nostra conoscenza? E in che rapporto stanno, esattamente, la maya e lo stesso Brahaman?
Al primo interrogativo il sistema di Sankara non risponde, e non risponde in sostanza nemmeno la successiva filosofia Vedanta. Prendendo a prestito una tipica proposizione del buddhismo mahayamico, ci vien detto – sorvolando sui particolari – che l’errore gnoseologico non ha inizio, ma può avere fine, una volta che sia stato smascherato. Il secondo interrogativo, poi, è direttamente collegato al primo. Se la maya è, oltre che inganno, potere creativo, bisognerà immaginare il Brahaman come l’autore di una tale creazione. Ma come può l’assolutamente indifferenziato essere creatore? La creazione implica il concetto di divenire, e Sankara, che tien fermo alle antiche Upanishad, considera tutto ciò che diviene come puro e semplice non-essere. E allora?
La sua filosofia esce dall’imbarazzo postulando – in accordo con una concezione già assai diffusa in India – che la maya non è propriamente creazione del Brahaman, anche perché se la maya finisce per identificarsi con la natura (prakrti), ossia col nulla, sarebbe essa stessa creazione del nulla: un concetto, questo, insostenibile. La maya è un attributo, allora, del Brahaman, un suo potere illusionante, grazie al quale esso vela la sua autentica apparenza, e si maschera da ciò che non è. Si potrebbe a questo punto già osservare che il Brahaman, in quanto Uno, non può avere nemmeno attributi; ma non è questa la difficoltà maggiore che scaturisce da una tale definizione della maya. Infatti, il Brahaman crea l’illusione del mondo sensibile; ma a chi crea codesta illusione?A noi; ma chi siamo noi? Non è forse Brahaman il tutto? Se noi siamo nel Brahaman, sia pure inconsapevolmente, come possiamo illuderci e ingannarci nelle nostre rappresentazioni, dato che il Brahaman è verità assoluta? Si dovrebbe pensare che il Brahaman inganna sé stesso. Ed è precisamente lo scoglio innanzi al quale abbiamo già visto scantonare sia la filosofia di Spinoza, sia quella di Berkeley. Né vale argomentare che noi ci inganniamo, precisamente perché il Brahaman ha steso fra sé e noi il velo di maya. Dunque noi saremmo altro dal Brahaman?
Non siamo altro, risponde il pensiero Vedanta primitivo (non tutti però gl’indirizzi successivi), ma poiché crediamo di essere altro, è come se lo fossimo agli effetti della nostra conoscenza, che sarà anch’essa, evidentemente, errata. Ma qui diviene evidente il circolo vizioso. Noi crediamo di essere distinti dal Brahaman, dunque sbagliamo; e poiché sbagliamo in questo, sbagliamo nell’attribuire esistenza reale al mondo fisico. Oppure sbagliamo nell’attribuire esistenza reale al mondo fisico perché ci crediamo distinti dal Brahaman? Ma se non c’è altro al di fuori del Brahaman, noi siamo parte di esso, anzi siamo esso medesimo; ed è possibile che la suprema verità inganni sè stessa? È impossibile uscire da codesta contraddizione, date le premesse. Ma soffermiamoci a considerare un istante, prima di passar oltre, come i successivi pensatori del Vedanta cercarono di districare tale arduo problema.
Sankara aveva costruito una rigorosa filosofia del monismo non dualista o monismo assoluto (advaita vedanta); Ramanuja cercò di superare lo scoglio del rapporto fra anime individuali e Brahaman fondando il cosiddetto monismo differenziato (visistadvaita vedanta). Ramanuja parte anch’egli dalla letteratura upanisciadica e osserva innanzitutto che Dio, essendo il Tutto, possiede sia l’attributo dell’intelligenza che della non-intelligenza, ossia tanto lo spirito che la materia. Di qui perviene al più rigoroso panteismo (si noti che gli attributi divini sono gli stessi che per Spinoza: pensiero ed estensione), affermando senza mezzi termini che il mondo fenomenico è come il corpo di Dio stesso. Contro quanto Sankara aveva insegnato, dunque, Ramanuja nega che il mondo sia mera illusione: esso è sostanziale, è parte di Dio, così come lo sono le anime individuali. In questo modo egli può concludere che le anime individuali non sono coscienza pura che "soltanto" ignora di esserlo, e dunque soggetto fittizio di conoscenza, ma bensì soggetto reale, e sia pure soggetto di ignoranza (avidya), in quanto incapaci di staccarsi dalla materia e di puntare alla riunificazione con la divintà.
Secondo Ramanuja, tre sono i modi del Tutto: Dio, le anime individuali e la materia. Compito della bhakti (o abbandono fiducioso in Dio)è il passaggio delle anime dal piano materiale al piano divino. Fin qui, sembrerebbe che Ramanuja – introducendo la differenziazione in seno a Dio (che vale il Brahaman del suo predecessore) – abbia effettivamente superato le difficoltà della filosofia di Sankara. Ma, a prescindere dal fatto che un "monismo differenziato" è, da un punto di vista rigorosamente logico, una debolezza del pensiero o una concessione al duale, le contraddizioni rispuntano quando Ramanuja affronta il rapporto metafisico tra Dio e il mondo. Perché egli non si limita a dire che essi sono diversi attributi di una stessa unità; né lo potrebbe: l’unità, in origine, non può che essere semplice. Afferma invece che Dio crea il mondo, e sia pure servendosi della materia sua propria. Ora, se Dio è creatore delle anime individuali e della natura (prakrti), bisogna dedurne che, anteriormente alla creazione, il pensiero preesisteva alla materia. Se il pensiero preesisteva alla materia, allora pensiero ed estensione non sono – propriamente – due attributi dell’unità divina, ma due fasi anche soriche, cronologiche, e non solamente metafisiche, di Dio. Ma allora ecco ricomparire il dualismo! È inevitabile: se pensiero e materia non si corrispondono esattamente sullo stesso piano, con pari dignità e pari valore, ma il pensiero precede la materia, quest’ultima ha introdotto più che una semplice modificazione, per così dire interna, dell’Uno: ha introdotto il due. E il monismo differenziato tenta invano di sottrarsi alle logiche conclusioni dualistiche delle sue premesse.
Da questa fatale contraddizione tutta la filosofia del Vedanta tenta invano di districarsi, in una lotta ciclopica ma senza speranza, simile al Laocoonte che si contorce drammaticamente fra le spire dei draghi da lui stesso, involontariamente, evocati. Perché il Vedanta parte dal monismo, e al monismo vuol fare ritorno: ma come spiegare allora il sorgere del dualismo – vero o fallace che sia – nella nostra conoscenza, che ci fa rapportare come soggetto a oggetto?
Degli altri tre grandi filosofi di questo indirizzo dell’India classica – Bhaskara, Madhva e Vallabha – le vie d’uscita volta a volta proposte o ripercorrono vie già tentate, oppure finiscono per restare intrappolate in altrettanti vicoli ciechi. Bhaskara critica l’illusionismo fenomenico di Shankara, affermando che all’Essere si confanno tanto la determinatezza che l’indeterminatezza. Di conseguenza, il mondo fenomenico è e non è una cosa sola col Brahman: lo è dal punto di vista dell’assoluto, non lo è dal punto di vista del relativo. Ma insomma, questo relativo ha o non ha consistenza reale sua propria?, incalzano i fedeli seguaci di Sankara. E Bhaskara, messo alle strette, risponde: ce l’ha, fin tanto che dura l’illusione; ma fino a quel momento, l’illusione non è illusione: è realtà. Ma se è realtà, come va che a un certo punto, grazie alla conoscenza che libera l’anima individuale dalla schiavitù dell’azione (karman) e dal ciclo delle rinascite (samsara), essa scompare nel nulla? Ma è vano incalzare il sistema di Bhaskara su questo punto: avendo postulato fin dall’inizio che il Brahaman è sia essere che non-essere, esso si è messo al riparo in anticipo – per così dire – da qualsiasi critica. Però, al tempo stesso, ha anche confessato la sua impotenza: perché, per il pensiero, ciò che è, è, e ciò che non è, non è; e se il reale è l’uno e l’altro insieme (o anche nessuno dei due, come voleva Nagarjuna), allora concepirlo è impossibile e la filosofia si arresta.
Madhva, dal canto suo, opera un ritorno puro e semplice al dualismo — anzi, addirittura al trialismo. Dio, anime individuali e natura sono per lui altrettante realtà distinte,e non aspetti o modi diversi d’una realtà unica. Tutte le difficoltà implicite nella filosofia di Sankara sono, così, eliminate d’un colpo, ma il problema dell’unità dell’Essere non fa che spostarsi più a monte, mentre si riaffaccia quello del problematico rapporto tra le distinte realtà cosmiche. Madhva si rifugia nell’argomentazione che Dio è causa efficiente, ma non causa metriale delle anime e della natura. Risposta inadeguata: se Dio non è creatore, come si spiega l’origine della realtà fenomenica? A quest’ultimo, decisivo interrogativo la dottrina di Madhva non sa e non può rispondere.
Infine Vallabha, l’ultimo grande filosofo del Vedanta classico, in uno sforzo magnifico e possente per sollevarsi al di sopra delle contraddizioni del monismo, ricade in pieno nella ontologia e quindi nella gnoseologia di Sankara. Vallabha muove da Ramanuja: con lui mette in chiaro, sin dall’inizio, che il mondo fenomenico è reale, per il semplice fatto che coincide con Dio. Ma subito dopo, con Ramanuja, si contraddice affermando che Dio è non solo causa efficiente (come per Madhva), ma anche causa materiale. Ma se Dio ha creato il mondo, vuol dire che il mondo non è Dio, ma qualche cosa che Dio ha tratto fuori, e sia pure da sé medesimo. A questa obiezione Vallabha risponde che la causa e l’effetto sono uguali, ossia che Dio-mondo crea sé stesso; e riaffiora qui la concezione di Bhaskara, secondo la quale il Brahaman è sia indifferenziato che differenziato. Resta il fatto che, alla rappresentazione individuale, il mondo e le cose sensibili non appaiono come facenti parte di Dio, ma come realtà a sé stanti. La colpa di codesta illusione, spiega Vallabha, è però, ancora una volta, la maya, ignoranza e illusione. E donde nasce codesta maya, se Dio e mondo sono la stessa cosa, e dunque anche noi non siamo altro che una parte di Dio? A questo punto, Vallabha non può fare altro che tornare all’argomentazione ormai classica di Sankara: a causa della maya, Dio si manifesta come altro da sé. Ma non spiega come, esattamente, si generi la maya. Dice che proviene da una conoscenza erronea, un po’ come quei sofisti ai quali Socrate domandava, per esempio: "Che cosa è la bontà?"; ed essi si mettevano a elencare svariate cose buone, ma sfuggivano alla definizione della bontà in sé stessa.
Proviamo allora a continuare noi, con gli argomenti che Vallabha ci mette a disposizione. Donde ha origine la maya? Dal momento che tutto è Dio, dovremo di necessità rispondere: da Dio. E chi è l’ingannato? Dal momento che tutto è Dio, dovremo anche questa volta rispondere: Dio medesimo. Proprio come avrebbe dovuto fare, se messo alle strette, il caposcuola Sankara. Ma Dio è verità, non può ingannare e non può ingannarsi. E così il Vedanta, passando dal monismo assoluto di Sankara al monismo differenziato di Ramanuja a quello inesprimibile di Bhaskara, sfocia nel dualismo di Madhva oppure nel panteismo di Vallabha — che è in fondo, dal punto di vista gnoseologico, poco meno che un ritorno puro e semplice al monismo assoluto e alle sue intrinseche aporie. Il cerchio si chiude, i dubbi e le incertezze permangono. Eppure nessun pensatore europeo, tranne forse Spinoza e Berkeley, si è spinto così lontano sulla strada della metafisica non-dualistica. La filosofia indiana, che si postula anzitutto come filosofia della salvezza, ha compiuto uno sforzo immenso per ricomporre le dolorose lacerazioni del dualismo, in una unità di pace ineffabile.
È possibile che più oltre non si possa andare?
E) [SECONDO IL NICHILISMO.**
Abbiamo visto come sia Nagarjuna, affermando che il reale è né essere né non essere, sia Bhaskara, per il quale Brahman è differenziato e indifferenziato al tempo stesso, si sono spinti —per vie opposte — alle estreme soglie del pensiero. Entrambi hanno ipotizzato in modo tale la natura dell’Essere, che la mente umana è impossibilitata a concepirla, pur se con vuoti concetti la può ancora definire.
Sempre nell’ambito della filosofia orientale, ma piuttosto di quella estremo-orientale che di quella indiana, altri pensatori hanno compiuto il passo successivo e sono pervenuti a una dissoluzione "logica" del pensiero in quanto tale, adducendo la necessità, per lo spirito umano assetato di verità e redenzione, di battere altre strade. Anche nella filosofia occidentale c’è stato qualche indirizzo, specialmente dopo Hume, più o meno influenzato da una concezione nichilistica della conoscenza. Citiamo per tutti il caso di Kierkegaard, il quale esplicitamente ha affermato che la Rivelazione incomincia là dove il pensiero finisce, o meglio, là dove esso si arresta ed è tentato di arretrare di fronte alla drammatica scelta posta dalla realtà dell’Assurdo. Ma è bene sottolineare che si tratta di nichilismo gnoseologico, non ontologico; del conoscere, non dell’Essere. Inoltre, per Kierkegaard — come per altri pensatori europei, Nietzsche compreso — il nichilismo era solo una faccia della medaglia della sua filosofia, l’altra faccia essendo di carattere positivo e costruttivo. E quanto all’esistenzialismo (specialmente quello di Sartre, meno quello di Heidegger) il suo conclamato nichilismo si riduce più a un atto d’accusa contro l’assurdità dell’esistenza, che non a uno sforzo di affrontare una indagine organica e razionale circa il "vuoto" dell’Essere in quanto tale. Al contrario, in Cina e in Giappone si sono consolidate, attraverso i secoli, delle intere scuole di pensiero animate dalla convinzione che il nulla non è solo del conoscere, ma dell’Essere medesimo. Noi ci soffermeremo brevissimamente, a conclusione di questa panoramica sul pensiero monistico, su due di esse: il buddhismo Zen e il taoismo.
Lo Zen è una particolare forma di Mahayana elaborata dapprima in Cina e compiutamente sviluppata in Giappone, che nel Medioevo divenne il credo caratteristico della classe dei samurai. Taluno ha considerato paradossale questo esito, considerate le istanze pacifiste e non-violente del buddhismo originario; vedremo tra breve se la sorpresa per una tale involuzione possa considerarsi realmente giustificata. In primo luogo dobbiamo osservare che lo Zen, per esplicita ammissione dei suoi seguaci, non è propriamente una filosofia, né una religione. Sarebbe uno sforzo vano pretendere da esso più di quanto ci possa offrire, il che accadrebbe se tentassimo di cercare in esso una assoluta consequenzialità logica nelle sue affermazioni. Questo, però, non ci deve impedire di considerare quale sia l’assunto fondamentale della sua teoria gnoseologica.
Il centro di essa risiede nel concetto di satori, che è in effetti l’interpretazione estremo-orientale del concetto originario buddhista della "illuminazione". Il satori, secondo lo Zen, è paragonabile a un "risveglio", e con una immagine plastica e immediata si dice che è come l’aprirsi di un terzo occhio. Per mezzo del satori noi possiamo giungere a gettare uno sguardo sulla realtà dell’Essere in sé. Come si giunge al satori? Non con la riflessione razionale: l’intelletto, dice uno dei massimi esponenti moderni della dottrina Zen, il Suzuki, deve essere lasciato da parte, perché esso non ha a che fare coi problemi veri della vita, ed offusca la retta comprensione del reale. Vi è, di contro all’intelletto — generatore di confusione e di errore – una "ragione interiore" che si disvela direttamente al nostro essere, a patto che noi la teniamo ben separata dalle false immagini create dalla mente. E, svelandosi al nostro essere, ci rivela al tempo stesso la natura ultima dell’Essere, per il semplice fatto che, al di là della confusione di cui è responsabile il pensiero, il divenire coincide con l’Essere, o meglio con l’assenza di un Essere in quanto tale: il samsara e il nirvana sono cioè una medesima cosa. E per giungere al nirvana, alla pace del nulla, è necessario passare proprio attraverso il samsara.
Qui vi è un autentico capovolgimento della concezione buddhista originaria. Il satori si consegue spegnendo il vano affannarsi del pensiero attorno alle cose; ma codesto risultato implica non già uno sforzo per liberarsi dal pensiero – ché, altrimenti, si resterebbe sempre prigionieri nel circolo del pensiero stesso -; bensì un affondarsi della coscienza nelle cose, nei dati immediati della percezione che ad essa si presentano. È nel quotidiano, nel concreto, nel piccolo che si svela la natura dell’eterno. Di qui l’amore, caratteristico di tutte le forme di vita ispirate dallo Zen, per gli aspetti qualitativi del mondo fenomenico, piuttosto che per quelli quantitativi. Creare un delizioso giardino servendosi di pochissime piante fiorite; ritrarre un intero paesaggio dipingendo appena qualche filo d’erba; vincere la lotta con l’avversario ricorrendo a una sola mossa di judo o a un solo, micidiale colpo di spada: tutte queste sono coerenti applicazioni della dottrina Zen. "Studia attentamente un granello di sabbia — disse un maestro Zen — e vi troverai fedelmente riprodotta la struttura del mondo intero."
Così, mediante il sentimento della profonda unità dell’Essere, lo Zen ritorna all’amore per il fenomeno, per la natura, proprio come Berkeley — nei Dialoghi tra Hilas e Philonous – , dopo aver negato l’esistenza autonoma del mondo materiale, riconquistava la gioia del profumo d’un fiore, dello spettacolo delle nuvole nel cielo azzurro. Ma vi è una differenza fondamentale tra i due indirizzi di pensiero. Per Berkeley, che poneva lo spirito infinito di Dio a fondamento dell’Essere, era logicamente giustificato coglierlo anche nell’umile filo d’erba. Ma per lo Zen lo spirito infinito non coincide con l’Essere, bensì con il nulla. Per Berkeley Dio è tutto, dunque ogni cosa esiste nella sua mente; per la dottrina Zen, propriamente parlando, nulla esiste.
D’altra parte, come prima si disse, sarebbe vano cercar di mettere con le spalle al muro lo Zen, incalzandolo sul terreno della coerenza logica. Esso esige di essere accettato all’interno della sua logica, che non è — o è solo in parte, e comunque sempre in via strumentale — strettamente razionale; oppure di essere rifiutato. Se dunque non possiamo accusare d’incoerenza il suo amore per il fenomeno (che in fondo, come per Hume, è la naturale reazione provocata da ogni forma di scetticismo radicale), possiamo però domandarci ove porti la concezione del nirvana come espressione ultima dell’Essere. La risposta non può che essere una: al mondo feudale, guerriero, violento dei samurai. Se la realtà ultima è il vuoto, non è solo la metafisica a cadere, ma anche l’etica. Diventa allora più che logico il processo attraverso il quale la dottrina buddhista, pacifica e non-violenta, divenne la filosofia militante dei samurai, ai quali insegnava lo sprezzo per la morte, nel tempo stesso in cui li addestrava alla concentrazione interiore, rendendoli spietatamente efficienti anche nel tumulto di una battaglia. Non intendiamo certamente, con questo, "criminalizzare" lo Zen: ci limitiamo a seguire con coerenza il filo rosso che congiunge le sue dottrine ontologiche con il concreto suo sviluppo storico. E una volta chiarito tale rapporto, capiremo che la squisita raffinatezza dell’ikebana o arte del disporre i fiori, e il fanatismo suicida dei kamikaze che si gettano coi loro aerei sui ponti delle navi nemiche, sono le opposte facce di una medesima medaglia. Ivan Karamazov (se ci è lecito questo richiamo fra culture diversi e concetti a volte analoghi solo in apparenza) "se Dio non c’è, allora tutto è permesso." Dove tutto significa proprio tutto: così il bene come il male.
Il taoismo ha una visione filosofica generale schiettamente solipsistica, mentre è sul terreno della prassi che approda al nichilismo più rigoroso. Le sue vedute circa il problema della conoscenza sono efficacemente illustrate nell’aneddoto di Chuang-tzu (ma il vero nome è Chuang Chou). Egli sognava di essere una farfalla: volava tra i fiori felice, proprio come una vera farfalla. Ma poi si destò, gravato dalla forma, e ridiventò Chuang-tzu. Pure, non avrebbe saputo dire se era Chuang-tzu che aveva sognato di essere una farfalla, oppure una farfalla che sognava ora di essere Chuang-tzu.
Anche per il taoismo, dunque, l’origine della conoscenza fallace è individuata nel pensiero, anzi – più esattamente – nelle generica volontà di agire e di conoscere che viene ancor prima del pensiero, e che lo produce. Come liberarsi da essa? Seguendo l’esempio della natura, che non agisce ma si lascia passivamente trasportasre dal flusso del tao, principio cosmico anteriore alla differenziazione fra yin (principio femminile, freddo, passivo) e yang (principio maschile, caldo, attivo).Quindi tutta la dottrina del taoismo si può riassumere nella formula del wu wei: non agire. Preferendo la passività all’azione, la piccolezza alla grandezza, l’ignoranza alla sapienza libresca, l’essere torna ad immergersi senza più sforzo nella pienezza del tao e, attraverso vari stadi ascendenti di perfezione, raggiunge l’immortalità. Caratteristicamente, l’immortalità non è intesa dal taoismo come immortalità spirituale, bensì come eterna sopravvivenza del corpo fisico, trasformato in "corpo di giada". Anche determinate pratiche sessuali, oltre alla magia e soprattutto all’alchimia, cooperavano — secondo il taoismo antico — al conseguimento di siffatta immortalità. Quanto all’esigenza di rientrare nel Grande Tutto, concepito come assoluta pace e assoluta passività, il taoismo si avvicina al buddhismo, ma il suo radicale individualismo etico, o per meglio dire la sua amoralità — conseguenza del solipsismo gnoseologico — lo distinguono nettamente da esso.
Sul piano logico, si potrebbe in primo luogo contestare al taoismo la concezione passiva della natura. Esso afferma che l’uomo deve essere passivo, a imitazione della natura; ma è proprio vero che la natura è sostanzialmente inattiva? Se davvero lo fosse, non giungerebbe a una sorta di "suicidio cosmico", come quello ipotizzato dalla filosofia di Eduard von Hartmann? Sul piano ontologico, poi, si potrebbe allargare ulteriormente il discorso: se il Grande Tutto è quiete indifferenziata, chi siamo noi che costantemente siamo portati ad agire e a conoscere, avvertendoci come differenziati dall’Essere? Noi, si dice, dobbiamo rientrare nel Grande Tutto: ma come va che ne eravamo usciti? Dal Tutto non si esce, al massimo si crede di uscire. E, se la causa della separazione è l’illusione fenomenica, come nell’episodio del sogno di Chuang-tzu, donde ha origine, a sua volta, codesta illusione?
Del taoismo antico non si sa molto, tanto che lo stesso suo fondatore, Lao-tzu, pare debba intendersi come fondatore mitico più che come personaggio storico. Al giorno d’oggi, una rielaborazione del taoismo che ha riscosso un certo successo in Occidente, specialmente fra i giovani, sincretisticamente mescolata ad elementi cristiani, zen e yoga, è quella di Bhagwan Srhree Rajneesh, poi meglio noto come Osho. Per lui, lo stadio definitivo della illuminazione non è il satori (quarto stadio), ma il samadhi (quinto stadio), che è il punto senza ritorno, la dissoluzione definitiva dell’Io. Solo in questo stadio, dice Osho in polemica con Krishnamurti, l’individuo può aprirsi alla suprema consapevolezza. Perché per lui, come per il taoismo classico, scopo finale della vita umana è la liberazione, ed essa non si consegue con la meditazione astratta, ma con la meditazione legata all’esperienza sensibile, nella quale le condizioni dell’organismo hanno grande rilievo. È qui evidente l’influsso delle concezioni yoga sul pensiero di Osho. Egli, di conseguenza, compie una piena rivalutazione del corpo in genere, e dell’atto sessuale in particolare, e afferma — ad esempio — che il sesso è divino, perché in esso, nella felicità dell’orgasmo, è già presente una forma di realizzazione nell’Essere, e sia pure di durata effimera.
Caratteristico è poi quello che dice intorno alla santità e al problema etico. È un errore cercar di essere santi, cioè di sforzarsi di reprimere il male per cercare il bene: il pensiero del male richiama ancora, fatalmente, il male, e la coscienza sprofonda nel senso del peccato. Significativamente, a sostegno di tale punto di vista Osho cita le Confessioni di S. Agostino e non certo i Fioretti di S. Francesco. Quanto a Dio, è del pari un errore concepirlo unicamente come sommo bene, mutilandolo del male, perché Dio è tutto, il male e il bene insieme. Un Dio solamente buono, dice ancora Osho, è un Dio senza sale. La liberazione non deve reprimere nulla, deve valorizzare tutto; dunque è perfettamente coerente con essa codesta concezione extra-morale della divinità. Ma poi Osho si spinge oltre e nega la stessa divinità, almeno così come viene comunemente intesa. Coerente col suo maestro Lao-tzu che non usa mai (nel Tao te ching) la parola Dio, egli afferma che Dio e diavolo, in quanto opposti, sono concetti schizofrenici. Pensare a Dio vuol dire pensare subito anche al diavolo, e viceversa. Ma questa, egli dice (caratteristico altresì l’influsso della psicanalisi occidentale), è schizofrenia, divisione irreale, e la causa di ciò sta nel pensiero. Bisogna sopprimere il pensiero perché esso è la radice della scissione. Infatti del principio assoluto, il Tao, egli ripete con la sapienza antica che "il Tao di cui si può parlare non è il Tao assoluto".
Infine, Gesù Cristo. Osho afferma di provare per lui una profonda empatia, come del resto per Zarathustra, Buddha e soprattutto Lao-tzu (che egli crede realmente esistito) e a differenza di Mosè e Maometto ("singole tonalità, non armonie") e di Krishna ("pettegolezzo cosmico"). Di Gesù vorrebbe condividere la sofferenza, ma solo per un poco; portare la sua croce, ma solo per un poco: quel che lo spaventa è la serietà di Cristo, "gravato dalle sofferenze di tutta l’umanità"; una serietà – egli dice – senza sorriso. "Un alone cupo lo circonda": e poiché alla liberazione, edonisticamente intesa, è essenziale il benessere, non si può proseguire lungo la sua medesima strada. La teoria della conoscenza di Osho, basata sul concetto di "esplosione spirituale", è extra-logica, e quindi al riparo da ogni critica sul piano strettamente razionale. La sua concezione dell’Essere è più contraddittoria.
Egli nega Dio come creatore, poiché la creazione implica una dicotomia; ma, al di fuori del concetto di creazione, identifica Dio come ciò che avviene, la realtà in divenire. Ma quale realtà? Per Osho l’io individuale non esiste, è parte del tutto, quindi di Dio impersonalmente inteso. In ciò, la sua posizione è simile a quella mahayanica e a quella del Vedanta. Torna allora la domanda: donde ha origine l’illusione del mondo fenomenico? Osho dice che la vita non ha alcun fine da realizzare, e che quindi è un leela, ossia un gioco. Ma donde nasce questo gioco? Insomma, se Dio è il divenire, come è nato il divenire? Perché Dio, propriamente parlando, non diviene e non può divenire. Deve esserci qualcosa di anteriore al divenire, per lo meno la cosa che diviene; e, dunque, deve esserci qualche cosa di superiore a questo Dio ognora cangiante. Dire che la vita è un gioco non spiega nulla. Il concetto di gioco implica quello di giocatore. Le pedine possono anche essere immaginarie: in questo senso non è difficile ammettere che l’io singolo non esista. Ma per essere pedine immaginarie, bisogna pure che siano immaginate da qualcuno. Non si può rispondere che sono immaginate dal gioco, ciò che si fa quando si dice che Dio è il divenire. Eppure Osho sostiene che Dio è "l’eterno accadere". Ma l’accadere non può essere eterno: ciò che accade è il fenomeno, e il fenomeno ha un inizio e una fine.
Questi sono, a nostro avviso, i punti deboli della filosofia di Osho. Ma, forse, si tratta di debolezze strutturali, inevitabili in ogni forma di prospettiva nichilista. La parola "nichilismo" viene dal latino nihil: nulla. Ma, col nulla, non si spiega nullla, e men che meno la vita.
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