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Ma che c’entrano gli dèi

(Articolo pubblicato sul n. 5 del 2005, Anno XVI, dei "Quaderni" dell’Associazione Eco-Filosofica, già Associazione Filosofica Trevigiana, pagg. 33-37, e corredato da una pagina illustrata che qui non viene riprodotta.)

C’è un episodio del famoso eroe dei fumetti, Tex Willer (volume intitolato "La Bufera"), parzialmente riprodotto nel citato "Quaderno" dell’Associazione Eco-Filosofica, ambientato nelle nevose foreste del Canada, in cui Tex, Kit Carson e il loro amico Gros-Jean hanno modo di soccorrere un Indiano che veniva inseguito da un gruppo di pellirosse d’una tribù ostile, decisi ad ucciderlo perché in possesso di informazioni compromettenti. Ma, nel corso di una violenta bufera, un enorme branco di lupi affamati si è posto sulle tracce dell’inseguito e dei suoi inseguitori; e, mentre il primo fa in tempo a rifugiarsi nella baracca di un fortino abbandonato, sotto la protezione dei tre uomini bianchi, i secondi, che si erano asserragliati entro la precaria difesa di un recinto semidiroccato, non riescono a far fronte all’assalto delle bestie fameliche e finiscono, uno dopo l’altro, miseramente sbarnati sotto i loro artigli. Al che Tehyuk, l’Indiano scampato miracolosamente a una morte quasi certa (anche il suo fucile era rimasto senza munizioni, proprio al culmine dell’inseguimento), levando le braccia in alto, in una sorta di ringraziamento alle potenze celesti, esulta con queste parole: "Ugh! Gli dèi hanno punito i nemici di Tehyuk!", niente affatto impressionato dal crudele spettacolo di quanto sta avvenendo a pochi metri di distanza. Ma Tex, che lo ha udito, si sente in dovere di apostrofarlo piuttosto rudemente, zittendolo in questi termini: "Non dire scempiaggini, amigo! Quei lupi erano già sulle nostre tracce, e gli dèi non c’entrano per niente!". Non sappiamo quale sia stato il corso dei pensieri di Tehyuk a tale uscita dell’implacabile ranger, anche se un’espressione di stupore gli compare sul volto nell’udire tali irriverenti parole.

Da qui desideriamo partire per svolgere qualche semplice riflessione sul tema del caso e della necessità, che è già stato da noi considerato nel corso delle Conversazioni filosofiche precedentemente pubblicate sui "Quaderni" dell’Associazione.

Sono stati gli dèi a lanciare un grosso branco di lupi famelici contro gli Indiani "cattivi", o è stata l’opera del caso? La mentalità spiritualista (delle società tradizionali, compresa quella contadina, ma anche delle evolute culture dell’Asia Orientale) non dubita che nulla avviene "a caso", che ogni evento umano o naturale fa parte di una trama, di un disegno, che trascende le singole volontà o i semplici meccanismi fisici. Resta poi da vedere se l’origine degli eventi va ricercata in un orizzonte olistico , in una catena di azioni-reazioni (legge del karma) per cui "non puoi cogliere un fiore senza che vi sia una riprecussione fin sulla stella più lontana; oppure se detta origine, almeno nei casi più importanti (o sollecitati da umane preghiere e umane maledizioni) non solo sia senz’altro di natura extranaturale, trascendente (e anche in questo caso si può optare per uno o più esseri divini o per un insieme di forze cosmiche trascendenti e non personali). La prima spiegazione è di ordine spirituale, ma immanente; la seconda (nelle due varianti personale e impersonale) è di ordine spirituale e trascendente. È a quest’ultima che spetta, più propriamente, l’attributo di "religiosa", almeno nell’ambito specifico qui considerato; vogliam dire che la legge del karma, ad esempio, non esclude affatto un piano divino e tuttavia non lo chiama in causa quale origine dei singoli aspetti del divenire.

Completamente diversa è la prospettiva razionalista e materialista (stavamo per dire: occidentale; ma giustamente è stato osservato che esistono più Occidenti e più Orienti, e non si deve schematizzare arbitrariamente). Per essa, gli eventi della sfera contingente (che è poi l’unica sfera ammessa) hanno sempre e solo una spiegazione naturale e non coinvolgono l’intero piano della realtà, ma solo i fattori più vicini (riduzionismo contro olismo). Inoltre, le forze naturali (compreso il cervello umano) sono solo di natura materiale (o, tutt’al più, elettrica) e quindi, posto che si potesse disporre di un computer infinitamente sofisticato, sarebbero infallibilmente riconducibili a leggi fisiche calcolabili, misurabili e, al limite, predicibili. Un singolo evento, perciò, potrebbe essere predetto in qualsiasi momento, a condizione di conoscere tutto lo spazio-tempo e le forze in esso operanti..

Comunemente si crede che questa sia la posizione "ufficiale" della scienza, invece lo è solo di un rozzo e attardato scientismo, poiché la fisica delle particelle sub-atomiche ha rinunciato, e da molto tempo, a una tale presunzione predittiva e a un quadro del reale così esaustivamente razionalizzabile.

Un altro luogo comune è che risalga alla Rivoluzione scientifica del XVII secolo il sopravvento della visione materialistica e meccanicistica su quella spiritualistica (con Cartesio, Galilei, Francesco Bacone e, un po’ dopo, Newton, contro la filosofia precedente e il suo epigono Leibnitz, che ancora nel 1600 sosteneva, dopo lo spazio, il tempo e la causalità, una quarta categoria fondamentale del reale: la corrispondenza, o "armonia prestabilita"). Invece è molto probabile che la frattura irreparabile fra le due visioni della realtà si sia prodotta, in Europa, molto prima; il Medioevo, per esempio, ha visto il trionfo di una concezione del mondo estremamente razionalistica e immanentistica (anche se ci son voluti alcuni secoli perché i filosofi ne traessero le logiche conseguenze).

Secondo noi, tale frattura risale alle filosofie presocratiche e, in particolare, alla scuola di Mileto. Montaigne ricorda che Teodoro l’Ateo, invitato a riflettere sugli ex-voto dei marinai greci che ringraziavano gli dèi per essere scampati a innumerevoli naufragi, rispose: "Peccato che non possiamo, però, sapere più nulla di tutti quei marinai – certo assai più numerosi – che non lasciarono alcun ex-voto, per il semplice fatto che perirono tra i flutti." Gli dèi, a suo parere, non avevano ascoltato le preghiere di quegli infelici, per il semplice fatto che non esistono.

L’argomento ha una certa apparenza di plausibilità, ma a ben guardarlo, è terribilmente fragile: è fin troppo facile ribattere (come fanno le religioni superiori) che l’azione divina si esplica secondo modalità a noi incomprensibili, perché "le vie del Signore non sono le vie degli uomini". In altre parole, il fatto che qualcuno anneghi nel mare in tempesta, o che le sue preghiere rimagano (apparentemente) inesaudite, non significa che gli dèi (per usare il linguaggio di Teodoro) non esistano, o siano distratti, o impotenti, o addirittura malvagi. Forse quel qualcuno è stato "salvato dal male a venire" (per dirla col Lee Masters dell’Antologia di Spoon River); forse quello è stato, per lui, il vero bene, che solo da una prospettiva superiore all’umana può essere riconosciuto tale.

E allora? Non c’è una conclusione, ovviamente. Una concezione del mondo (checché ne dicano i "filosofi di professione") non è il risultato di una determinata filosofia; ne è all’origine. La concezione olistica e spiritualistica, così come quella meccanicistica e riduzionista, hanno elaborato ciascuna quelle filosofie che permettono di razionalizzare, a posteriori, la propria intuizione fondamentale.

Così, tornando a dove eravamo partiti, Tehyuk è libero di credere che gli dèi sono intervenuti, castigando duramente i suoi persecutori, servendosi di un branco di lupi affamati; e Tex Willero, gonfio di "buon senso" a un tanto il chilo, lo è di sentenziare senza appello che "gli dèi non c’entrano per niente", e che pensarla diversamente vuol dire abbandonarsi alle "stupidaggini" (l’oppio dei popoli di marxiana memoria?). A ciascuno la sua verità. Che rimanda, poi, a quell’altra (e, per noi, suprema domanda, che risuona per tutto il De Rerum Natura di Lucrezio: la vita dell’uomo, la vita di ogni essere, l’esistenza di ciascuna cosa, non sono altro che il frutto del caso? Siamo tutti "gettati nel mondo", siamo tutti "esseri-per-la-morte", siamo tutti assurdi personaggi di un’assurda commedia che chiamiamo vita, in un assurdo teatro che chiamiamo mondo?

Forse sì e forse no. Ma una cosa, crediamo, è certa: che tentare di rispondere a un tale interrogativo senza voler uscire, anche solo per ipotesi di lavoro, dall’orizzonte razionalistico, scientista e materialista significa precludersi a priori la possibilità di pervenire a una conclusione. Perché la conclusione, in quel caso, è già contenuta nelle premesse: la ragione (umana) non dà altro che ragione (umana), tertium non datur. Viceversa, ammettere (anche solo in via ipotetica) che vi siano piani di realtà superiori all’umano e superiori alla natura intesa come meccanismo, lascia impregiudicato il valore della ragione (nell’ambito che le è proprio), pur socchiudendo la porta di un cosmo vivo, animato, ove tutto è così come dev’essere, compresa la nostra (eventuale) presunzione di poter tutto comprendere e tutto spiegare secondo il nostro metro.

(Ci sia consentito segnalare al lettore, desideroso di approfondire le tematiche qui trattate, un interessante articolo apparso qualche mese dopo

quello da noi proposto: "Perché il cervello non può essere l’organo della nostra conoscenza del mondo", di Erminio Rizzi, su "Filosofia oggi", nr. II-III di aprile-settembre 2005, pagg. 181-194).

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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