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21 Febbraio 2006
Berenice: realtà storica di un personaggio letterario
26 Febbraio 2006Articolo pubblicato sul numero 42, anno XIII (aprile 1988) della rivista "Tuscia", mensile edito a cura dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo, pp. 12-13.
Il Lago di Bolsena, l’antico Lacus Volsinius dei Romani,è quanto resta del cratere allagto di un vulcano. Vi sorgono due piccole isole in un paesaggio incantevole d’acque e di boschi, la Bisentina e la Martana.
Ed è su quest’ultima che si consumò, nel lontano 535 d. C., uno dei più oscuri delitti politici della storia d’Italia, quello che ebbe per vittima illustre la figlia del grande Teodorico, Amalasunta, regina dei Goti. Delitto dal quale sarebbero derivate sciagure senza fine per la nostra Penisola: da esso, infatti, prese pretesto l’imperatore bizantino Giustiniano per muovere guerra agli Ostrogoti, guerra che durerà diciott’anni (535-553) in un crescendo di devastazioni, massacri, carestie e pestilenze; vi furono persino dei casi di cannibalismo.
Alla fine i Bizantini vinsero, ma fu una vittoria di Pirro; e l’Italia, giunta al punto più grave della sua crisi economica e demografica (si parla di un crollo della popolazione al livello minimo di 5 o 6 milioni d’abitanti in tutto!), era ormai matura per cadere preda di un popolo ben più duro e "barbarico" dei Goti: i Longobardi, condotti dal re Alboino, nella primavera del 568, attraverso i valichi delle Alpi Giulie.
Del delitto di Amalasunta la rivista Tuscia ha già avuto modo di occuparsi, con un articolo di A. Tarquini apparso sul numero 12 del 1977. Ora vogliamo tornare sull’argomento, per cercar di lumeggiare gli aspetti oscuri della vicenda: poiché gli storici sanno che la morte di Amalasunta continua ad essere ancor oggi, a quindici secoli di distanza, un "giallo" non risolto.
Chi era, dunque, Amalasunta? Una donna di carattere vitile e di notevole bellezza, profondamente imbevuta di cultura latina, innamorata dell’Italia, desiderosa di cancellare il brutto ricordo degli ultimi anni di regno di suo padre Teodorico, quando uomini illustri come Boezio e Simmaco erano stati mandati a morte sotto l’improbabile accusa di cospirazione anti-gota.
Questa donna eccezionale, che parlava il greco e il latino con la stessa scioltezza del suoi idioma natale, aveva governato con saggezza durante la minorità di suo figlio Atalarico, dal 526 al 534, appoggiandosi sul Senato e specialmente sul fedele ministro Cassiodoro. Ma poi il ragazzo era morto di tubercolosi, anchea causa degli strapazzi a cui l’avevano sottoposto i maggiorenti Goti, dopo averlo srtrappato alla madre.
Allora era cominciato il dramma.
Amalasunta, in teoria, non aveva alcun diritto di regnare, perché la successione dei sovrani ostrogoti avveniva esclusivamente per linea maschile. Ella non era mai stata regina, ma soltanto reggente per il figlio minorenne; e, ora che questi era morto (suo marito l’aveva lasciata vedova ancora durante il regno paterno), avrebbe dovuto andasene. Ma dove?
Troppi nemici si era fatti nel partito goto nazionalisrta, a causa della sua politica filo-romana. C’erano stati dei morti, e i parenti avevano giurato di vendicarli. Doveva dunque restare, per potersi difendere; e scelse di associarsi al trono il cugino Teodato, l’ultimo erede maschio della casa di Teodorico. Non vi fu matrimonio, come qualche storico afferma, perché Teodato aveva già moglie, Gudelina, ed essa vien chiamata "regina" negli atti ufficiali della raccolta di Cassiodoro.
Teodato era un uomo inetto ed imbelle, ma avido e senza scrupoli. Si era già scontrato, in passato, con Amalasunta, che lo aveva costretto a restituire le terre da lui abusivamente occupate in Etruria. Ora, aveva l’occasione per vendicarsi e per compiacere, ad un tempo, il partito goto nazionalista e, forse, la corte di Costantinopoli, ansiosa di un pretesto per la guerra.
Ci fu tutto un misterioso lavorio diplomatico, fra Amalasuntae Giustiniano e fra Giustiniano e Teodato. Lo storico bizantino Procopio di Cesarea fornisce due versioni contrastanti, una"pubblica", nella Storia della guerra gotica, l’altra "segreta", nella Storia inedita (che egli osò pubblicare solo dopo la morte di Giustiniano). Come andarono, in realtà, le cose?
Di certo noi sappiamo che, pochi mesi dopo l’associazione al trono di Teodato, questi fece arrestare Amalasunta e la relegò nell’isola Martana, ove sorgeva un munito castello. Una prigione dorata per Amalasunta, che ingenuamente (e fu, forse, il suo unico errore) aveva creduto di poter continuare a regnare, servendosi di un uomo di paglia; una prigione in mezzo al lago, da cui era impossibile fuggire o fare appello agli amici.
La relegazione, del resto, non fu lunga: nel maggio o nel giugno del 535 alcuni sicari la sorpresero nel bagno e ve la strangolarono (Jordanes, Getica, LIX). Tutto si svolse così in fretta che la sventurata, forse, non ebbe neanche il tempo di intuire il pericolo. Ma fu un delitto maldestro e frettoloso, non si ebbe nemmeno l’astuzia di simulare una morte accidentale. E fu la guerra.
Teodato agì di propria iniziativa, o fu manovrato da Giustiniano? O, addirittura, da Teodora, la moglie dell’imperatore, che – dice Procopio – gelosa della "rivale", voleva scongiurare una sua venuta a Costantinopoli, secondo gli accordi segreti intercorsi fra la bella regina gota e Giustiniano, prima che ella venisse impriginata nell’isola Martana? Nel carteggio diplomatico della cancelleria ostrogota, pubblicato in seguito da Cassiodoro, vi è una frase che suona come un preciso indizio a carico della corte bizantina.
"Quanto poi a quella persona, circa la quale ci è giunta sussurrata qualche mezza parola, sappiate che è stato disposto secondo i vostri desideri" (Cass., Variae, X, 20): così rispondono Teodato e Gudelina a una lettera di Teodora. Che "quella persona" fosse Amalasunta, e che le "parole sussurrate" fossero una istigazione all’omicidio, è – se non certo – probabile. Ma una conclusione assolutamente sicura non è possibile nemmeno oggi; e, verosimilmente, il "caso" rimarrà aperto.
Questa, dunque, fu la fine di Amalasunta, all’età di circa trentasette anni (era nata verso il 498), e con essa ebbe inizio la fine del regno ostrogoto.
Che fosse bella, oltre che intelligente e colta, lo testimoniano non solo le parole di Procopio, ma anche il ritratto che di lei si conserva, a Roma, nel Palazzo dei Conservatori. Aveva occhi grandi, il viso pieno, il naso all’insù; col diadema in capo, il suo portamento appariva fiero e deciso (confronta anche il dittico nel Museo del Bargello di Firenze). Fra le sue molte virtù, un solo difetto, ma che le fu fatale: un amore forse smodato per il potere. Ella volle esercitare sino in fondo l’esercizio del potere regale, per completare la fusione tra Romani e Goti: ma l’impresa era superiore alle forze di un singolo, e la sua sconfitta fu pure la sconfitta di un ambizioso e magnanimo progetto politico.
Francesco Lamendola
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