
Dobbiamo riprenderci il nostro passato rimosso
1 Maggio 2019
Sarà scorretto, ma è sbagliato selezionare i migliori?
2 Maggio 2019Non vi è alcun dubbio che Adolf Hitler fu un politico criminale; cioè, per parlare con maggiore proprietà, un uomo politico che adoperava abitualmente e disinvoltamente metodi politici criminali. L’epurazione della Notte dei Lunghi Coltelli, il 30 giugno 1934, nella quale egli si sbarazzò dei suoi vecchi seguaci ai vertici delle SA, e la repressione dell’attentato del 20 luglio 1944, con l’orribile mattanza di ogni individuo sospettato di opposizione al regime, ne sono la prova lampante; ma, naturalmente, si potrebbero citare molti altri episodi, i quali dimostrano tutti la stessa cosa: che, per Hitler, l’assassinio dei suoi avversari politici, veri o anche presunti, era uno strumento di governo assolutamente normale; e se trattava così gli "amici" e i compagni di partito, come Ernst Röhm e Gregor Strasser, è logico che trattasse con ancor meno scrupoli gli avversari di orientamento politico diverso. Questa premessa era necessaria perché non si pensi che ci accingiamo a tentare una improbabile riabilitazione del politico Hitler. E ora che abbiamo chiarito, e ribadito, che Hitler fu un politico criminale, ci sia concesso di svolgere una breve riflessione sulle ragioni per cui egli viene ancora trattato dagli storici di professione, a oltre settant’anni dalla sua morte, come un mostro indecifrabile; per quale ragione, cioè, a lui e solo a lui vengono applicate categorie storiografiche diverse e del tutto anomale rispetto a quelle adoperate nei confronti di qualsiasi altro uomo politico del passato, recente o meno recente. Ci chiediamo, cioè, perché non sia ancora possibile, nella maggior parte dei casi, riflettere pacatamente e oggettivamente sull’uomo politico Hitler, sulle sue idee soprattutto, oltre che sulla sua azione di governo e sulla sua condotta della guerra; perché molti storici e saggisti continuino ostinatamente a negargli quel che non si nega, in sede storica, a nessuno, e cioè una valutazione spassionata della sua coerenza o mancanza di coerenza, della sincerità o meno delle sue convinzioni politiche. Nel caso di Stalin, ad esempio, che provocò nel proprio Paese un numero di vittime perfino maggiore di quante ne attribuiscono a Hitler i sostenitori della tesi "classica" sull’Olocausto, cioè sei milioni di ebrei eliminati nei campi di sterminio, non pesa questa sorta di maledizione: si può tranquillamente discutere se Stalin credeva sinceramente a quel che faceva, se, cioè, decideva di sopprimere i suoi oppositori, veri o presunti, nella convinzione che ciò fosse per il bene del suo Paese e per il trionfo dei suoi ideali, oppure no. A che cosa si deve questa disparità di trattamento? Semplicemente al fatto che Stalin uscì vincitore dalla Seconda guerra mondiale, e Hitler sconfitto; e che i crimini di Stalin vennero denunciato solo anni dopo, quando già era morto, e vennero denunciati proprio da un segretario generale del PCUS, Krusciov, cioè da qualcuno che parlava dall’interno dell’ideologia politica cui lo stesso Stalin era appartenuto, mentre non esiste alcuna possibilità che qualcuno parli di Hitler, e venga preso sul serio, se lo fa stando all’interno dell’ideologia di cui egli fui il rappresentante? In altre parole, è dovuto al fatto che il comunismo ha continuato a esercitare il suo fascino sinistro sull’Europa e sul mondo ancora per alcuni decenni dopo la scomparsa del dittatore georgiano, mentre per il dittatore austriaco non è mai esistita questa possibilità, essendo crollato il nazismo sotto le ceneri del Terzo Reich, definitivamente e irrevocabilmente? A nostro avviso, questa spiegazione è insufficiente, perché si potrebbero citare altri casi analoghi a quello di Hitler, nei quali la comunità accademica, non ha applicato lo stesso atteggiamento che continua a mostrare nei confronti di lui. È come se fosse stato tacitamente proibito discutere di Hitler come di un politico qualsiasi, non perché egli sia stato un politico criminale, ma perché uno dei suoi crimini ha toccato una corda che deve continuare a vibrare nei secoli dei secoli, e nessuno deve azzardarsi a farla tacere: la corda del ricatto morale conseguente all’Olocausto. Se Hitler ha decretato lo sterminio di sei milioni di ebrei, e se da quello sterminio, trasformato, non si sa perché, in olocausto (l’olocausto è l’offerta volontario di un sacrifico alla divinità; quindi, una cosa del tutto diversa da quel che avvenne ad Auschwitz), e se da quel fatto storico si è voluta far nascere una nuova religione mondiale basata sul senso di colpa dell’umanità, la religione dei Sei Milioni di morti, allora è chiaro che quel fatto storico deve diventare qualcosa di unico, di non paragonabile ad alcun altro fatto storico (ed ecco l’imbarazzo, se non il fastidio, di certi storici, a porre il genocidio degli armeni, o quello degli zingari, o quello dei tutsi, sullo stesso piano, storico e morale, di quello degli ebrei). E perché sia e rimanga qualcosa di unico nella storia umana, qualcosa che non è lecito, anzi, che è sacrilego paragonare ad altri fatti storici, allora anche il suo ideatore e massimo responsabile, Adolf Hitler, deve ricevere lo stesso trattamento: non se ne può parlare come si parla di un altro uomo politico, criminale o no; anche Hitler deve rimanere unico, assolutamente diverso e speciale: deve rimanere, nei secoli dei secoli, una incarnazione del male. Bisogna che Hitler sia il male affinché l’Olocausto sia il Male assoluto: un male così grande che non ce n’è mai stato uno simile, né se ne può immaginare uno maggiore. Ed ecco allora spiegato il fastidio della comunità accademica, dominata anch’essa dal senso di colpa, per qualsiasi tentativo di studiare il fenomeno Hitler come si fa con qualsiasi altro fenomeno della storia, cioè applicandogli le stesse categorie di giudizio e gli stessi metodi di ricerca.
Ne avevamo già parlato a commento dell’opera, rara ed encomiabile, di uno dei pochi storici, tedesco per giunta, che, già molti anni fa, volle studiare le idee di Hitler con la stessa imparzialità con cui si studiano le idee di qualsiasi uomo politico importante, il quale abbia fortemente inciso sulle vicende del proprio tempo: Eberhard Jäckel (cfr. il nostro articolo: La Weltanschauung di Hitler come problema storiografico, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 22/07/2009 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 09/11/2014). Ora vogliamo riprendere quel ragionamento, portando ad esempio uno storico, o piuttosto un saggista di storia moderna, l’ebreo americano Ron Rosenbaum (casse 1946, vivente), del quale già ci eravamo occupati (cfr. il nostro articolo La storia fatta coi "com’è potuto accadere?", pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 18/09/17), quale esemplificazione della nostra tesi: che si vuol tenere sempre viva la interpretazione di Hitler come di un mostro, e un mostro incomprensibile, che sfugge a qualsiasi categoria di giudizio, affinché anche il crimine dell’Olocausto continui stagliarsi al di sopra di qualsiasi altro crimine, e faccia impallidire, al confronto, qualunque genocidio o atrocità si siano mai verificati nel corso della storia; al punto che filosofi come Jürgen Habermas hanno potuto chiedersi, senza essere prontamente contesati, se sia ancora lecito parlare di Dio, dopo Auschwitz. A riprova del fatto che l’Olocausto deve diventare la nuova religione dell’umanità e che quindi anche il vecchio Dio, il Dio cristiano, che non ha saputo o che non ha voluto impedire l’Olocausto, deve cedere il passo a un’altra divinità, molto più forte e molto più esigente: il senso di colpa incarnato dai Sei Milioni di vittime.
Citiamo questo brano del libro di Ron Rosenbaum Il mistero Hitler (titolo originale: Expalining Hitler. The Search for the Origins of His Evil, 1998 [ma il sottotitolo non è tradotto nell’edizione italiana]; traduzione dall’inglese di Aldo Serafini e Tania Gargiulo, Milano, Mondadori Editore, 1999, pp. 129-131):
Nella ricostruzione di Trevor-Roper, Hitler NON era un commediante, ma un convinto sostenitore delle proprie idee; non era cinico, ma terribilmente "sincero". È un punto di vista che lo storico precisò in modo ancor più sorprendete quando gli chiesi se, a suo parere, Hitler fosse cosciente della malvagità delle sue azioni."Oh, no" rispose fermamente. "Hitler era convinto della propria rettitudine." CONVINTO DELLA PROPRIA RETTITUDINE. Bisognava sentirlo Trevor-Roper! Pronunciava la parola "rettitudine" con tanta rettitudine che riusciva quasi a dotare di una certa dignità una sincera convinzione nella necessità del genocidio. Non intenzionalmente, certo. Egli pensava — ma non riteneva necessario dire — che Hitler fosse spaventosamente, erroneamente, convinto della propria rettitudine: sinceramente, onestamente, convinto che gli ebrei fossero il nemico mortale della razza ariana e dovessero essere distrutti per permettere alla razza superiore di sopravvivere. La sincerità non è una scusa, un’assoluzione dal crimine di genocidio. Non per Trevor-Roper. Ma, per la giurisprudenza anglosassone, la sincerità può essere una circostanza che attenua la colpevolezza. Poco dopo il mio colloquio con lui, ebbi l’impressione di sentir riecheggiare il suo giudizio su Hitler nelle parole che – in un processo di primo grado — un giudice californiano rivolse alla giuria a proposito dell’imputazione a carico di Lyle ed Erik Menendez, accusati di aver ucciso i propri genitori. Spiegando ai giurati ciò di cui essi avrebbero dovuto essere convinti per poter ottenere un’imputazione meno grave, di quella di omicidio volontario, il giudice disse loro che se avessero riconosciuto nei due fratelli la convinzione sincera – anche se erronea — di essere minacciati dai genitori, allora l’uccisione del padre e della madre avrebbe potuto essere considerata una forma "imperfetta" di legittima difesa, e non un assassinio. Metà dei giurati, nel processo di primo grado, votarono per il riconoscimento dell’imputazione meno grave, perché ritennero che i due fratelli fossero effettivamente "convinti della propria rettitudine".
Secondo questa logica, se Hitler fosse sopravvissuto e fosse stato processato, poniamo il caso, in California, avrebbe potuto teoricamente sostenere di essere stato "sinceramente convinto" che gli ebrei avevano cercato di distruggerlo, e che lui li aveva distrutti per legittima difesa. Si tratta, certo, di una "reductio ad absurdum" della tesi di Trevor-Roper (anche se non del tutto dissimile dalla linea adottata dagli storici neonazionalisti tedeschi intorno alla metà degli anni Ottanta, alcuni dei quali sostennero, nella famosa "Historikstreit", la "battaglia degli storici", che le atrocità commesse da Hitler furono una sorta di autodifesa preventiva contro le atrocità di Stalin e contro una supposta "dichiarazione di guerra" degli ebrei nei confronti di Hitler.
Sicuramente Trevor-Roper non voleva che la sua provocatoria tesi secondo cui Hitler "era convinto della propria rettitudine" fosse portata fino a tali estremi. Ma egli sinceramente riteneva che Hitler credesse davvero alle proprie idee. (…)
Molte volte, nel corso della conversazione, Trevor-Roper tornò ad attaccare la pervicace interpretazione di Hitler come avventuriero e saltimbanco: l’interpretazione che, a suo parere, Bullock aveva lasciato n eredità al mondo postbellico [cfr. Alan Bullock, Hitler: uno studio sulla tirannide, 1952]. Come se l’Hitler di Bullock, il "falso" Hitler, fosse il vero nemico. "NON era un avventuriero" mi ripeté a un certo punto. "Alla fine della guerra, gli Alleati pensarono che Hitler fosse stato un avventuriero, un irresponsabile opportunista ma questo NON BASTA. "
"Perché, dopo la guerra, gli Alleati avrebbero preferito questo Hitler all’Hitler di Trevor-Roper o ad altri Hitler?" Perché era più conveniente. Dovendo legittimare, nel clima della guerra fredda, il regime della Germania occidentale, i cui cittadini avevano, in maggioranza e senza riserve, seguito Hitler, era più conveniente credere che i tedeschi fossero stati ingannati da un saltimbanco, anziché pensare che avessero CONDIVISO le perverse illusioni di un individuo convinto delle proprie idee. Ma ciò "non basta" per Trevor-Roper. "Sorge spontanea la domanda: i tedeschi seguoirono soltanto un irresponsabile opportunista? Se lo fosse stato, sarebbe potuto andare così lontano? Bisogna tener presente che fu quasi sul punto di vincere la guerra; per un pelo non la vinse. SE avesse vinto (e credo che vi siano stati tre o quattro momenti nei quali era nelle condizioni di farlo), gli storici oggi direbbero che egli fu, e pensò di essere, un grande personaggio storico."
Mi parve affascinare che Trevor-Roper si potesse tanto appassionare a quell’argomento: sembrava qualcosa di più di un acceso dibattuto accademico, quasi un articolo di fede…
Se volessimo fare un’esegesi di questa pagina, frase per frase, riga per riga, potremmo mostrare facilmente come ogni concetto e ogni singola parola siano stati concepiti per accreditare la tesi ideologica della mostruosità di Hitler (altrove l’Autore non si perita di tirar fuori anche l’argomento del testicolo mancante, come sostennero i sovietici dopo l’autopsia del cadavere); e come egli sprechi un’ironia del tutto gratuita nei confronti di Trevor-Roper, colpevole di credere che Hitler fosse sincero. Significativa l’analogia col tribunale della California: per scrittori come lui, la storia, quando si parla di Hitler, deve diventare un tribunale che emette le sentenze per direttissima, col giudice e l’accusatore riuniti nella stessa persona. Ma non vale la pena di soffermarsi sull’estrema faziosità di questo modo di procedere, tanto essa è palese. La domanda, semmai, è un’altra: fino a quando gli storici subiranno il ricatto sotteso a un tal modo di considerare Hitler e il nazismo? Fino a quando seguiteranno a mortificarsi sul piano scientifico in omaggio alla religione dei Sei Milioni? Non sarebbe tempo di studiare ogni aspetto di quel nodo della storia del ‘900 senza dover sottostare a una pregiudiziale ideologica che impedisce di valutarla e di comprenderla nei suoi termini esatti?
Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio