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Sarà scorretto, ma è sbagliato selezionare i migliori?

Certo è politicamente scorretto, ma è davvero sbagliata l’idea che si dovrebbero selezionare gli elementi migliori della società, per il bene di tutti e anche per il bene di quelli che sono assai lontani dall’essere i migliori? Ma, si domanderà subito con malcelata diffidenza, per non dire con aperta ostilità: chi stabilisce chi siano i migliori? I migliori in che senso? Inoltre, di che tipo di selezione stiamo parlando: fisica, intellettuale, politica, o cos’altro? Sono domande pienamente legittime e del tutto ragionevoli; proviamo a rispondere. Per migliori, intendiamo quelli che hanno manifestamente sia le attitudini, sia la disponibilità a dare un contributo positivo alla vita della società; e per contributo positivo intendiamo ciò che comunemente s’intende sulla base del buon senso: anziché creare problemi, anziché porre pietre d’inciampo, favorire il bene, la coesione, la generosità, la competenza, il progresso spirituale di tutta la società, e anche un progresso materiale che sia però a misura d’uomo, e non a misura delle macchine o, peggio, delle grandi banche. E per selezione intendiamo quei criteri che consentono a tali persone si trovare uno spazio adeguato, di far sentire la loro voce e di rendere palese il loro buon esempio; dunque tutto ciò che favorisce l’assunzione di un ruolo trainante e dirigente da parte dei migliori, in ogni ambito possibile, ma prima di tutto in ambito educativo, perché una buona scuola forma dei buoni cittadini, mentre una cattiva scuola forma dei pessimi cittadini. Per chi ancora non se ne fosse accorto e non l’avesse capito, oggi c’è una manovra, nemmeno tanto mascherata, da parte dei poteri forti, che si servono di alcune minoranze aggressive e fortemente politicizzate e sindacalizzate, per impadronirsi della scuola e, con ciò, dell’educazione dei giovani: chi riesce ad avere il controllo della formazione scolastica si assicura il dominio mentale sulle prossime generazioni, e quindi pone un’ipoteca pesantissima sul futuro. Riuscire a controllare le menti dei giovani, e soprattutto dei bambini, significa inibire a queste persone, negli anni successivi, la conquista dell’autonomia e della maturità critica e affettiva; significa ridurli a degli individui lobotomizzati, a dei manichini programmati per vivere, pensare, sentire secondo le direttive che hanno ricevuto nei primi anni di vita. Ecco spiegato perché le organizzazioni militanti LGBT sono così alacremente impegnate nell’assalto all’educazione sessuale negli asili e nelle scuole elementari: per gettare le basi del dominio totalitario sulla persona e creare una situazione di non ritorno. Un individuo così programmato, infatti, non giungerà mai a porre in una luce critica quanto gli è stato "insegnato" all’età di quattro, cinque, sei o sette anni, e non solo considererà come normali le più estreme aberrazioni, ma guarderà alla stregua di un nemico pubblico, di un agente provocatore, di un delinquente, chiunque osi esprimere un parere diverso dal suo — da quello che egli crederà essere il suo, mentre sarà solo il microchip incorporato nel suo cervello.

D’altra parte, l’attacco non è diretto solo contro la scuola, ma contro l’insieme della società, a trecentosessanta gradi; ed è diretto, naturalmente, anche contro la società elementare e fondamentale: la famiglia. In che modo? Innanzitutto, facendo leva sulle "nuove famiglie", e particolarmente sulle cosiddette famiglie arcobaleno, cioè quelle formate da una coppia di individui dello stesso sesso, che convivono come se fossero marito e moglie, più i bambini che si sono variamente procurati, anche nelle maniera più turpe e vergognosa, che è quella dell’utero in affitto. Sempre seguendo lo stesso schema: invitando la società, chiesa compresa, a "prendere atto" che le cose sono cambiate, che non sono più come una volta e che ci sono, di fatto, molte situazioni nelle quali si son venuti a creare dei nuclei di convivenza che rappresentano i valori e i sentimenti della società odierna; e si conclude, semplicisticamente e in perfetta malafede, che rifiutarsi di "riconoscere" queste nuove situazioni è come chiudere la porta di fronte alla realtà, senza contare che è poco inclusivo, poco solidale, poco misericordioso. Insomma, il solito ricatto da quattro soldi, che però ha sempre funzionato: in nome delle situazioni estreme, legittimare, anche per via legislativa, prima il divorzio, poi l’aborto, indi l’eutanasia, infine la libertà di drogarsi; e, a maggior ragione, legittimare la "libertà" di vivere la propria vita sessuale come meglio si preferisce, salvo pretendere un riconoscimento ufficiale e perfino esigere che la società si faccia carico delle spese per quei poveri fanciulli o fanciulle i quali, convinti a riflettere sulla loro vera natura, hanno deciso di non trovarsi bene nei panni di maschio e femmina e perciò di voler cambiare sesso, visto che esiste la possibilità chirurgica e medica di farlo e visto che la sanità pubblica è pronta e disposta a sostenere le relative spese.

Vi ricordate, se avete una sessantina d’anni, quando, negli anni ’70, ’80 e ’90 del secolo scorso, vi fermavano dei ragazzi per la strada, sollecitando un’offerta per i giovani dipendenti dalla droga (e non era affatto chiaro se l’offerta fosse per disintossicarsi o per acquistare un’altra dose di eroina: in almeno un caso, noi ci siamo cascati, ed era la seconda alternativa), i quali, di fronte alle vostre perplessità, domandavano un po’ aggressivi: Perché, lei ha qualcosa contro i tossicodipendenti? Così, spostavano comodamente il discorso dal fatto che drogarsi crea dei problemi agli altri, oltre che a se stessi, e rende la vita un inferno ai propri familiari, al tema della vostra durezza di cuore, della vostra insensibilità, della vostra incapacità di essere comprensivi, generosi e disponibili; insomma, dei veri ipocriti borghesi, retrogradi e meschini. È la stessa filosofia che abbiamo sentito esporre, e proprio nella nostra scuola, da un sedicente esperto, invitato a parlare agli studenti della malattia psichica: il problema, diceva, non sono affatto i malati di mente, il problema siamo noi, noi che non abbiamo il coraggio di guardarci dentro e di considerare la nostra zona oscura, che essi ci fanno ricordare. Degno figlio, o nipote della "scuola" di Franco Basaglia, il cattivo maestro che ha fatto smantellare i manicomi senza che si predisponesse nulla per aiutare i malati di mente e le loro famiglie, abbandonate a se stese e ai loro drammi sconosciuti; e che in virtù di questa bellissima impresa è assurto nell’Olimpo dei grandi profeti di libertà degli anni intorno al ’68, insieme ad altri profeti, guarda caso spesso preti ultraprogressisti, come don Lorenzo Milani, padre David Maria Turoldo e diversi altri, di alcuni dei quali si vorrebbe ora fare addirittura dei santi. Come nel caso del gesuita Pedro Arrupe, il caposcuola della degenerazione dell’Ordine fondato da sant’Ignazio di Loyola, che oggi è sotto gli occhi di tutti, da quando un suo seguace, Jorge Mario Bergoglio, è stato indegnamente e illecitamente eletto papa. Ebbene, quella che negli anni ’70, ’80 e ’90 era una solo una tendenza, e poteva sembrare poco più d’un vezzo, di alcune minoranze, avente lo scopo di ribaltare il rapporto fra la parte sana della società e la parte malata, facendo sentire i sani in colpa per il fatto di esser sani, e rivendicando ai malati il ruolo di vittime dell’indifferenza e del pregiudizio dei benpensanti, ora è diventata un fiume in piena, è andata al potere, ha legiferato in parlamento, ha conquistato il favore dei mass media, è considerata vangelo da tutti i politici, costretti a genuflettersi davanti ad essa e a giurare che non avranno altro dio all’infuori di lei. Oggi anzi si nega che i malati siano malati, che gli anormali siano anormali, che le situazioni patologiche siano situazioni patologiche; in nome del relativismo, dell’indifferentismo e di un agnosticismo a tutto campo, si rivendica la completa libertà e la piena liceità di ogni comportamento, di ogni istinto, di ogni aberrazione; e si pretende di mettere la museruola, a suon di denunce, di processi e di condanne penali, a chi non è disposto a far buon viso, a sottomettersi e a tacere.

Dunque, dicevamo che la società deve reagire; che deve tornare al sano concetto di selezionare i suoi membri e di orientarli verso il meglio, non verso il peggio: intendendo per "meglio" il bene dell’insieme, e per "peggio" il supposto bene dei singoli realizzato a danno di tutti gli altri. Stiamo dicendo che fino a quando, in nome di una malintesa tolleranza e di un permissivismo autolesionistico, la società vorrà farsi carico di tutte le anomalie, le patologie, le aberrazioni, partendo dall’assunto che non sono tali, ma sono scelte legittime di vita, e che è un sacro dovere del corpo sociale quello di accettarle, di favorirle e persino di spesarle dal punto di vista economico, non avremo alcuna speranza di uscire dalla crisi in cui ci stiamo dibattendo e che ci sta portando letteralmente al collasso e all’implosione. Qualcuno potrebbe chiederci fino a che punto vorremmo spingere il criterio della selezione; e, naturalmente, a quali soggetti, in concreto, essa dovrebbe essere affidata. Infatti, si potrebbe osservare che, se non si parte dal fatto elementare della riproduzione biologica, ci si trova poi nella situazione di un agricoltore il quale, di fronte a una pianta le cui radici sono marcite, s’illuda di farla guarire, potando qualche rametto qua e là; e quanto a individuare chi dovrebbe sovrintende alla selezione, la cosa appare palesemente problematica, per la difficoltà di individuare dei criteri chiari e universali in un contesto socioculturale dominato dal relativismo più sfrenato. Tuttavia, per quanto ciò appaia estremamente arduo, in tutti i sensi di questo termine, non vogliamo sottrarci a queste legittime domande, per cui proveremo a formulare delle risposte, per quanto possibile.

Cominciamo dal primo punto. Bisogna pensare addirittura a una selezione biologica; cioè, in altre parole, a una qualche forma di vigilanza affinché i soggetti non idonei, tali da poter trasmettere ai propri discendenti delle tare di vario genere, evitino di riprodursi? È un’idea che fa venire i brividi, specie dopo gli orrori che l’eugenetica di alcuni sistemi politici totalitari ha causato nel corso dell’ultimo secolo. E tuttavia, cerchiamo di scrollarci di dosso i condizionamenti del politicamente corretto e tutti i ricatti morali da esso escogitati, e chiediamoci onestamente e spassionatamente: è vero o no che la selezione degli individui migliori è alla base della preservazione di una razza sana e di una popolazione che goda delle migliori condizioni possibili di esistenza? Sfogliando un vecchio manuale di agraria e zootecnia, ecco quel che si dice a proposito della selezione dei bovini (da: Oliviero Laghi, Agricoltura moderna, Milano, Casa Editrice "La Prora", 1949, p. 364): Alla riproduzione vengono destinati soltanto i tori che hanno ottenuto da apposite commissioni di tecnici un giudizio di idoneità. I soggetti maschili non approvati devono essere castrati. Questa è la legge, e qualsiasi allevatore la conosce benissimo. Va da sé che gli esseri umani non sono mucche, o cavalli, o conigli; benissimo: ma proprio perché sono caratterizzati dall’intelligenza, è necessario fare in modo che questa non prenda il sopravvento sulle giuste esigenze della vita. E in cima alle giuste esigenze c’è il rispetto della legge fondamentale: non si può permettere ai peggiori, in questo caso sotto il profilo morale o spirituale, di riprodursi illimitatamente, perché in tal modo si andrebbe verso un peggioramento progressivo dell’intera società. Alla lunga, i soggetti inadatti al vivere civile diverrebbero più numerosi degli altri, quelli buoni, onesti, laboriosi e rispettosi del bene comune. Il che è quanto sta ora avvenendo, con la volonterosa collaborazione di tutte le agenzie sociali, manipolate dal potere occulto della grande finanza, prima fra tutte la magistratura, il cui principale sforzo sembra essere quello di ostacolare al massimo il lavoro delle forze dell’ordine e di proteggere, anche scarcerandoli se arrestati in flagranza di reato, i soggetti che delinquono e rendono insicura l’esistenza di tutti gli altri. Ma un discorso analogo si potrebbe fare anche per altre categorie sociali, le quali, anche se non volutamente, rendono più difficile il lavoro e l’esistenza di tutti gli altri, ma che un buonismo masochista impone di accogliere sempre e comunque, anche se ciò non risulta di alcun giovamento per loro, e di danno palese per gli altri. Ma come riconoscere il fatto che certi soggetti dovrebbero essere tenuti a freno, oppure separati dal resto del corpo sociale? Sono i fatti che lo mostrano: per esempio, se qualcuno dei difensori d’ufficio dei rom, vittime di supposte discriminazioni, sono in grado di mostrare il regolare contratto di lavoro di uno solo dei loro protetti, si faccia avanti: altrimenti è dimostrato che costoro sanno vivere solo di furti e di altre attività criminali, che evidentemente sono di danno a tutti gli altri. Una minorenne che viaggia tutto il giorno borseggiando sulla metropolitana può "guadagnare" anche 1.500 euro in 24 ore, più di quel che porta a casa un operaio dopo un mese di duro lavoro. È giusto? Ed è giusto che questo tipo di persone venga sempre protetto e giustificato, che trovi sempre degli avvocati difensori d’ufficio? Non sarebbe più giusto porli davanti all’alternativa di lavorare, e integrarsi, oppure di andarsene altrove? Ecco quel che intendiamo, dicendo che bisogna perlomeno porre un freno a questa continua elezione all’incontrario, che premia i peggiori e mortifica i migliori. È un discorso ingrato, rude, sgradevole, politicamente scorretto? Certo. Ma lo è solo perché siamo dominati dalla cappa del politically correct, creato proprio per attuare la selezione dei peggiori. Quanto all’altra domanda su chi e come dovrebbe provvedere affinché si passi da una selezione alla rovescia a una selezione sana e benefica, tale cioè da favorire le persone e i gruppi socialmente utili, nel senso anche morale del termine, rispondiamo che ciò non va posto come punto di partenza, ma come punto d’arrivo di un ritorno della società al sano principio della prevalenza del bene su ogni vuota propaganda ideologica. Il che non sarà possibile senza un radicale ripensamento dell’intera strategia educativa…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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