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Eppure è semplice: perché non si vuol capirlo?

La felicità è possibile? Perché, si dice, l’uomo è fatto per la felicità: tale almeno è il pensiero finalista, secondo il quale le cose sono ordinate ad un fine, e il fine dell’uomo non può essere che la felicità; perché la felicità è il bene, e non si vede perché l’uomo, se ha un fine, dovrebbe avere un fine diverso dal bene. Se avesse come fine il male si sarebbe già auto-distrutto; non si conserva ciò che non ha un po’ di amore per se stesso. Ma se l’uomo si ama, se cerca di soddisfare il desiderio di bene che è in lui, allora la felicità è possibile, deve essere possibile: se non lo fosse, vorrebbe dire che l’uomo è fatto in modo da aver bisogno di qualcosa che non può raggiungere, il che vorrebbe dire che sarebbe pazzo per natura. E chi, se non un dio malvagio, potrebbe creare l’uomo, ponendo in lui il germe di una inevitabile follia? Ma un dio malvagio non può essere il vero e unico Dio, perché un dio malvagio è la sorgente del male, e il male dà sempre e solo male; e da dove verrebbero, allora, tutte le cose buone, a cominciare da quel bene che consiste nel fatto di esistere? Se non ci fosse il bene dell’esistenza, non ci sarebbe la vita. E lasciamo che i Leopardi e gli Schopenhauer lamentino il fatto che la vita esiste, e dicano che sarebbe meglio se non ci fosse, così non ci sarebbe neppure il dolore: se la vita esiste, nonostante tutto, cioè nonostante il fardello di dolore che indubbiamente è presente in essa, vuol dire che, alla fine, il bene prevale; quel bene che è il fatto di esistere, rispetto a quel male che il fatto di non esistere, o di cessare di esistere. Tutto questo è secondo la logica, e non contro di essa. Immaginare un dio malvagio è contro la logica; e anche immaginare un universo nel quale le cose esistono per un fine cattivo, cioè per il proprio male, che è contro la loro esistenza, anziché per il proprio bene, che consiste nel difendere e, se possibile, accrescere quel bene, cioè nel rendere la propria esistenza più perfetta e di conseguenza anche più felice.

Dunque, tutte le cose che esistono, sono ordinate a un fine, e quel fine è il bene; anche l’uomo è ordinato al bene, e il bene dell’uomo è la felicità, ossia una condizione di vita piena e perfetta. Ma una tale condizione, in concreto, non si è mai vista: nessuno ha mai conosciuto la felicità, o, se pure l’ha conosciuta, non ha potute restarvi domiciliato stabilmente. Che cosa concludere da ciò? I casi, evidentemente, si restringono a due: o la condizione umana è un’ironia, una beffa, oppure la felicità cui l’uomo aspira esiste, però non si trova, o non si trova compiutamente e stabilmente, in questa vita. Ma Dio, origine e causa di tutte le cose e loro meta finale, essendo il Bene, non può averci ingannati: la vita umana non può essere una beffa, ché tale sarebbe se in noi vi fosse il desiderio della felicità, ma non esistesse il modo di soddisfarlo. D’altra parte, quando parliamo della felicità, non dobbiamo pensare solo a quella dell’uomo, ma anche a quella delle altre creature intelligenti e a Dio stesso, dato che abbiamo definito la felicità come il conseguimento della piena perfezione della propria natura; mentre quella delle creature meno intelligenti, o prive del tutto di ragione, evidentemente si riduce — se pure possiamo ancora chiamarla felicità – a uno stato di appagamento meramente materiale, del quale esse forse non sono neppure coscienti. Per gli Angeli, creature più intelligenti e più sapienti degli uomini, la felicità consiste nella visione di Dio, causa e sorgente di ogni perfezione e meta ultima di ogni desiderio e aspirazione. Per Dio, la felicità è l’auto-comprensione della propria perfezione, che basta perfettamente a se stessa (ovvio, quindi, che l’affermazione del signor Bergoglio, secondo il quale Dio non è più Dio senza l’uomo, è una pura e semplice eresia, e, come al solito, una vera e propria bestemmia, oltre che una assurdità logica: che cos’era dunque Dio, prima della creazione dell’uomo?). Ricordiamo i celebri versi di Dante (Par., XXXIII, 124-126): O luce etterna che sola in te sidi, / sola t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi! E per l’uomo, in che cosa consiste la felicità? Esattamente nella stessa cosa che per gli Angeli: la visione di Dio; ma non la sua comprensione, perché quella non la raggiungono neppure gli Angeli, bensì Dio soltanto, godendo in Se stesso e di Se stesso.

Scrive san Tommaso d’Aquino nella Summa teologica (I-II, qu. 1, art. 8; cit. in: Umberto Curi, Il coraggio di pensare, Torino, Loescher Editore, 2019, vol. 1, pp. 638-640):

SEMBRA che la felicità dell’uomo non sia nella visione dell’essenza stessa di Dio. Infatti:

1. Dionigi (Pseudo-Dionigi Aeropagita, Teologica mistica, I) dice nella "Teologia mistica" che l’uomo, in virtù di ciò che è supremo della propria intelligenza, si unisce a Dio come a un essere del tutto ignoto. Ma ciò che si vede nella sua essenza non è del tutto ignoto. Dunque, l’ultima perfezione dell’intelletto, cioè la felicità, non consiste nel vere Dio nella sua essenza.

2. Inoltre, la perfezione di una natura superiore è superiore. Ma questa è la perfezione propria dell’intelletto divino, di vedere la propria essenza. Dunque, l’ultima perfezione dell’intelletto umano non arriva a questo, ma resta al di sotto.

MA IN CONTRARIO: Nella Prima Lettera di Giovanni si dice: "quando egli (Dio) si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è (3, 2).

RISPONDO: L’ultima e perfetta felicità non può essere che nella visione dell’essenza di Dio. Per averne l’evidenza bisogna considerare due verità. La prima è che l’uomo non è perfettamente felice, finché gli resta qualcosa da desiderare e da cercare. La seconda è che la perfezione di ciascuna potenza si considera in base alla natura del suo oggetto. Ora, l’oggetto dell’intelletto è CIÒ CHE UNA COSA È [quod quid est], cioè l’essenza di una realtà, come si dice nel libro "L’anima" di Aristotele (III, 6, 430b, 28). Onde, tanto c’è e progredisce la perfezione dell’intelletto, in quanto conosce l’essenza di una realtà. Se, dunque, un intelletto conosce l’essenza di un effetto, da cui non può conoscere l’essenza di una causa, in modo, cioè, da sapere della causa CHE COSA È, non si dice che l’intelletto raggiunge la causa assolutamente, benché per mezzo dell’effetto può conoscere SE È. E perciò rimane all’uomo naturalmente il desiderio, quando conosce l’effetto sa che esso ha una causa, di conoscere anche della causa CHE COSA È, o l’essenza. E quel desiderio scaturisce dalla meraviglia e causa la ricerca, come si dice all’inizio della Metafisca di Aristotele. Per esempio, se uno, conoscendo un’eclisse di sole, considera che scaturisce da una causa della quale, poiché non conosce che cosa sia, prova meraviglia, si impegna nella ricerca. Né questa ricerca ha fine a appagamento fino a quando non arriva a conoscere l’essenza della causa.

Se, dunque, l’intelletto umano, conoscendo l’essenza di un effetto creato, conosce di Dio solo SE È; la sua perfezione non ancora arriva, sotto tutti gli aspetti, alla causa prima, ma ancora gli rimane il desiderio naturale di indagare sulla causa. Perciò non perfettamente felice. Dunque per la perfetta felicità si richiede che l’intelletto arrivi a conoscere l’essenza stessa della prima causa.

E così avrà la sua perfezione in virtù dell’unione a Dio come al proprio oggetto, nel quale soltanto consiste la felicità dell’uomo, come sopra si è detto (cfr. Summa theol., I-II, qu. 3, art. 7).

RISPOSTE ALLE OBIEZIONI

ALLA PRIMA: Dionigi parla della conoscenza di coloro che sono in via, tendendo alla compiuta felicità.

ALLA SECONDA: Come si è detto sopra, il fine può essere inteso in due modi. In un modo, in quanto è la realtà stessa che è desiderata: e in questo modo è lo stesso il fine superiore e inferiore, anzi di ogni realtà, come sopra si è detto (Summa theol., I-II, qu. 1, art. 8). In un altro modo, in quanto è il conseguimento di questa realtà: e così è diverso il fine della natura superiore e di quella inferiore, in base al diverso rapporto con tale realtà. Dunque, così la felicità di Dio, che con l’intelletto comprende la propria essenza, è superiore a quella dell’uomo o dell’angelo, che vedono quell’essenza ma non ne hanno la comprensione.

In conclusione: l’uomo è fatto per la felicità, perché aspira naturalmente al proprio bene. Come dice Aristotele nell’Etica Nicomachea (1097 a-b), la felicità è il bene perfetto, perché mentre gli altri beni — l’onore, il piacere, l’intelligenza – li scegliamo, sì, a motivo di se stessi, ma anche in vista della felicità, la felicità soltanto viene desiderata per se stessa, e dunque è il bene superiore a tutti gli altri, il bene perfetto. Il bene dell’uomo consiste nella felicità, e la felicità è godere di ciò che rende l’uomo perfettamente appagato e realizzato in quanto c’è di meglio nella sua natura. È evidente, pertanto, che i beni inferiori devono essere posposti ai beni superiori; e che i falsi beni devono essere assolutamente evitati, perché allontanano l’uomo da ciò cui egli aspira, cioè la felicità. Nei falsi beni non vi è la felicità, ma il male, e il male produce, presto o tardi, in una forma o nell’altra, l’infelicità, o fisicamente, o moralmente, o su entrambi i piani di esistenza. I beni inferiori, poi, devono essere perseguiti come se fossero i gradini di una scala che conduce verso i beni superiori; e di bene in bene, l’uomo deve arrivare al Bene supremo, al Bene in sé, che è quello in cui troverà la felicità, perché è quello nel quale egli si potrà realizzare pienamente. E quale bene più grande può esserci, per l’uomo, di questo: vedere, contemplare, godere della presenza viva di quel Dio che è l’origine di tutto e la meta di tutto, e quindi anche l’origine del suo esistere e la meta cui tende la sua vita terrena? Contemplare e gioire, non contemplare e comprendere: perché, come abbiamo detto, la comprensione di Dio non appartiene all’uomo e neppure agli Angeli; la comprensione di Dio è riservata a Lui solo, e a nessun altro. Vi è un mistero abissale, in Dio, che la mente umana, anche la più sottile, la più geniale, non arriverà mai neppure a sfiorare: è questo il limite ontologico che separa la creatura dal suo Creatore, e che l’Incarnazione del Verbo e la divina Rivelazione riescono, sì, a colmare sul piano della vita pratica, ma non possono colmare sul piano intellettuale, E qui si vede bene la distinzione fra la vera e la falsa filosofia, fra la buona e la cattiva teologia: perché è buono e sano il pensiero umano che riconosce l’esistenza di quel limite, s’inchina davanti ad esso e chiede a Dio i mezzi per procedere nella ricerca del Bene, senza tuttavia pretendere di arrivare alla piena comprensione di quel mistero, che per l’uomo, almeno in questa vita, rimarrà pur sempre tale.

In fondo, sarebbe tanti semplice, se solo volessimo vederlo: siamo fatti per la felicità e la felicità è possibile. Mettiamoci però d’accordo sul concetto di felicità: non uno stato di benessere quantitativo e non coincide con l’uso o il possesso di un singolo bene, anzi è il contrario della pratica del possesso, e presuppone la capacità di aprirsi e lasciar andare le cose, le brame, e ogni volontà e desiderio egoistico, per abbacinarsi interamene alla Volontà di Dio. La felicità è qui, vicino a noi, a portata di mano; ma non la vediamo, perché la cerchiamo altrove e perché la cerchiamo nella maniera sbagliata; non la vediamo, perché siamo accecati dal riflesso del nostro io insaziabile, che sempre desidera qualcosa, e non si accorge di essere ossessionati dal proprio desiderio e non più dalla cosa desiderata. Gli uomini moderni sono letteralmente ossessionati: desiderano, desiderano tutto, desiderano sempre, e desiderano il proprio desiderio, e desiderano il desiderare: a tal punto sono preda di una vera e propria forma di autoipnosi. Se uscissero dall’ipnosi, comincerebbero a vedere e a capire, e si renderebbero conto che si son messi per una strada che non porta verso la felicità, ma verso l’infelicità. È difficile, però, che si ridestino: esistono delle forze maligne ed estremamente potenti le quali esercitano tutta la loro capacità di persuasione e di condizionamento per tenere gli uomini immersi nella loro realtà artificiale, che li separa da se stessi e li rende stranieri alla propria umanità. Dispersi nella babele del relativismo, soggiogati dalla mentalità edonista, materialista e consumista, ipnotizzati dal miraggio delle cose e dalle proprie inesauribili brame, gli uomini moderni subiscono anche il lavaggio del cervello da parte di una pseudo-cultura, disumana e autolesionista, che riesce a persuaderli della impossibilità di essere felici. E come il bambino cui la maestra, fin dalla prima elementare, dice o fa capire che è negato per la matematica, e poi se lo sente ripetere dai professori delle medie, cresce con la convinzione che la matematica, per lui, è e resterà sempre un qualcosa d’incomprensibile, mentre invece, forse, con un’altra maestra e degli altri professori, avrebbe potuto conseguire gli stessi risultati di tanti altri suoi compagni; così l’uomo moderno, a forza di sentirsi dire e ripetere che il mondo è brutto, che la vita è male, e che la verità non esiste, ha finito per rinunciare alla verità, non scorge più la bellezza del mondo e ha perso l’incanto del vivere. Vi è una congiura, da parte di quasi tutta la cultura moderna, finalizzata a una precisa strategia: rendere l’uomo estraneo a se stesso, diffidente verso tutto e quindi anche verso se stesso (la cultura del sospetto), scoraggiato e rinunciatario verso i più alti obiettivi cui potrebbe aspirare, primo fra tutti il Bene, che realizza il suo bene personale e quindi la sua personale felicità. Ma a forza di sentirsi dire che la felicità non esiste o è irraggiungibile; oppure che consiste nel soddisfare le sue voglie passeggere e tutti i suoi capricci, si è auto-convinto che non vi sia niente di meglio a cui aspirare, che questa vita cieca, da talpa, che non vede mai il sole. Infatti non vede Dio…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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