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Che cos’è la vera scienza?

Da quando il borioso Galilei, nei primi decenni del XVII secolo, si proclamò annunciatore di una scienza nuova, la locuzione scienza nuova è passata a designare, grazie alla dominante cultura scientista e neopositivista, nell’immaginario collettivo, la scienza tout-court; e neppure la Scienza nuova di Vico, il grande isolato del secolo successivo, è riuscita a smuovere l’idea che la rivoluzione scientifica di Bacone, Cartesio, Galilei, Newton, ci abbia regalato un immenso progresso rispetto alla "vecchia" scienza, quella di matrice aristotelica. Ma cos’è, in effetti, la scienza? In che cosa consiste la vera scienza? Per i greci, scienza è l’epistème, la conoscenza certa e oggettiva, contrapposta alla doxa, la mera opinione, che è, per definizione, una conoscenza soggettiva e discutibile. È a Galilei che si deve la convinzione (una doxa, appunto) che delle cose scientifiche, e specialmente delle proposizioni matematiche, noi sposiamo avere una conoscenza certa, e quindi scienza, intesa come conoscenza delle cause e del perché. A partire da quel momento, la cultura europea ha identificato la scienza della natura con il sapere oggettivo e certo, perché Dio, secondo Galilei, ha scritto il gran libro dell’universo in caratteri matematici; di tutto il resto non possiamo che avere opinione. La svalutazione della metafisica e il declassamento della teologia erano impliciti in questa prospettiva; e infatti Kant, sullo scorcio dell’età dei lumi, si è affrettato a tagliar via il ramo secco: il noumeno, la cosa in sé, della quale nulla possiamo sapere e nulla conoscere, perché quel che rientra nella nostra sfera di conoscenza passa attraverso di noi, è un processo della nostra mente, non qualcosa che stia realmente fuori di essa, e che sia sussistente in sé e per sé. Una volta fatto questo passo, era altrettanto inevitabile che si procedesse oltre lungo la medesima strada: che si riducesse l’essere a pensiero, e quindi tutto il reale a un processo del pensiero; e infine che si dubitasse di tutto, perché un pensiero sussistente, eterno alla mente che lo pensa, è altrettanto arbitrario e indimostrabile, date le premesse, della vecchia metafisica e del vecchio noumeno; e d’altra parte riducendo il pensiero a pensiero pensante del soggetto individuale, quale mai garanzia abbiamo che per mezzo di esso si possa giungere ad un sapere certo, anzi, a ben guardare, ad un pensiero che non sia mera illusione?

Il cristianesimo, da parte sua, ha dato un contributo decisivo alla definizione del concetto di scienza, riallacciandosi alla tradizione biblica oltre che alla filosofia greca. Per i Padri della Chiesa, per i grandi teologi e i Santi dei primi secoli della civiltà cristiana, la scienza nuova, che è anche la vera sapienza, è quella che il mondo disprezza, ma è conforme all’amore e al volere di Dio; mentre la scienza che il mondo cerca e loda, è una scienza fallace e ingannevole, che non avvicina alla verità, ma allontana da essa. Gesù ha detto: Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai savi e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli.. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a Te (Matteo, 11, 25-26). E san Paolo (1 Corinzi, 18-31):

La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: "Distruggerò la sapienza dei sapienti
e annullerò l’intelligenza degli intelligenti". Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini. Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio. Grazie a lui voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione^;^ perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore.

La vera scienza, dunque, coincide con la vera sapienza; e la vera sapienza è la conoscenza di Dio, che non si consegue con la sola ragione umana, tanto meno con il metodo logico-matematico e con l’esperimento, ma che possiede un grado di assoluta certezza proprio perché non viene dall’uomo, ma da Dio. È un dono di Dio per coloro che sono umili di fronte al suo mistero, è la grazia divina che fa risplendere le tenebre dell’umana ignoranza e offre una guida sicura nel labirinto delle cose transitorie, caduche. Il solo Pascal, nel pieno dell’ubriacatura scientista del XVII secolo, aveva intravisto questa verità e aveva cercato di armonizzare le due forme di "scienza" con la formula dell’esprit de géometrie e dell’esprit de finesse. Ma per il pensiero cristiano, resta certo e indiscutibile che il vero conoscere, dunque la vera scienza, è quella per cui l’uomo si avvicina alla Verità divina, e non lo fa coi suoi mezzi, ma in parte con il retto uso della ragione naturale (questo punto è essenziale: perché la ragione naturale, svincolata dal timor di Dio e orgogliosa di se stessa, non serve a nulla e anzi conduce l’uomo fuori strada) e in parte, la parte decisiva, con l’ausilio della fede, la quale, a sua volta, è un dono della grazia. Si ricordi l’itinerario dantesco nei regni dell’Aldilà: all’Inferno e nel Purgatorio lo guida Virgilio, simbolo della ragione naturale; ma per salire al Cielo è necessario che giunga ad accompagnarlo Beatrice, simbolo della grazia.

Scrive Mauro G. Lepori, abate generale dell’ordine cistercense, in un articolo dedicato al significato della figura e dell’opera di San Benedetto da Norcia (A scuola di un maestro: scienter nescius et sapienter indoctus, in Vita Nostra, riv. dell’Ass. Nuova Cîteaux, Roma, 2018, n. 2, pp. 4-5):

È da sottolineare il fatto che è anzitutto nell’ambito degli studi, della scienza, che Gregorio che Gregorio situa la conversione iniziale di san benedetto. È come se, per lui, la rinuncia a tutto per seguire Cristo inizi essenzialmente dal disprezzo degli studi mondani. Nella conversione di benedetto non si sottolinea e descrive tanto l’abbandono delle ricchezze familiari per scegliere la povertà, come per esempio in un sant’Antonio abate o in san Francesco d’Assisi, ma piuttosto il disprezzo della scienza narcisistica del mondo per scegliere l’umiltà come via di comunione con Dio, come introduzione allo scambio di desiderio, di compiacenza amorosa, fra l’uomo e il suo Creatore e Redentore.

Ci si attenderebbe allora la descrizione di una vita da ignorante, da sempliciotto incolto. Invece, la rinuncia agli studi animati dall’orgoglio e dalla vanagloria non implica la scelta dell’ignoranza, ma di una scienza diversa, opposta a quella mondana. Benedetto rinuncia alla scienza e sapienza del mondo, al fine di scegliere un’altra scienza, un’altra sapienza in opposizione a quelle del mondo.La scelta iniziale di san Benedetto è come un crinale, un crinale fra un abisso di perdizione e la salvezza, e su quel crinale il fattore cosciente di scelta, di determinazione e conversione della libertà, è l’ambito della conoscenza, della scienza, dello studio. Non dimentichiamo che il peccato originale è avvenuto mangiando il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, non, per esempio, di un albero della ricchezza o della bellezza o della concupiscenza carnale.

La scelta dunque di san Benedetto non fu fra l’intelligenza, la scienza, la sapienza e la stoltezza, l’ignoranza e l’insipienza. Fu fra due generi diversi, e opposti, di scienza, di sapienza, di intelligenza.

San Gregorio esprime questa distinzione con una delle sue frasi geniali, capaci di sintetizzare in un gioco di parole il nocciolo di una questione: "Recessit igitur scienter nescius et sapienter indoctus" — Si ritirò pertanto consapevolmente ignorante e sapientemente incolto (Dial. II, Prol.). Questa espressione descrive la coscienza con cui Benedetto è passato dal modo alla vita monastica. L’espressione fa capire che la scienza e la sapienza dipendono dalla stima o dal disprezzo con cui sono considerate, e la stima e il disprezzo dipendono dal punto di vista dal quale si guardano. Benedetto disprezza la scienza che il mondo stima, e stima la scienza che il mondo disprezza.

Si percepisce che la scelta di Benedetto comporta un disprezzo del mono che si espone al disprezzo del mondo verso di lui. Chi è "nescius" — ignorante e "indoctus" — non istruito, attira il disprezzo del mondo, la derisione del mondo, Benedetto assume questo disprezzo del mondo vero chi ne rifiuta i falsi valori. La libertà di chi lascia tutto per Cristo consiste anche nel disprezzare il disprezzo del mondo superbo verso la propria persona, e per questo la rinuncia ai valori mondani comporta anche una rinuncia a se stessi, al valore che diamo a noi stessi, per inoltrarsi in un cammino teso ad apprezzare e ad amare Dio più che se stessi. Ma è proprio lì che l’uomo scopre il vero valore di se stesso: la compiacenza di Dio, l’essere amato da Dio con predilezione.

Questa conversione al livello del valore che perseguiamo, al livello del tesoro verso cui è teso il nostro cuore, permette di inoltrarsi nella scoperta della realtà rivoluzionaria del regno di Dio, rivoluzionaria nel senso letterale del termine, cioè rivoltata, capovolta. Al baratro, al precipizio, all’abisso in cui giace la scienza del mondo, corrisponde la montagna su cui si ascende per incontrare Dio, scoprendo che la realtà vera non è nell’abisso, ma sulla montagna.

Nell’autentica prospettiva cristiana, dunque, esistono due scienze e due modi d’intendere la ricerca del vero: quello che desidera l’applauso del mondo, e che si pratica più per ambizione di gloria, e quindi per appagare il proprio io, che non per un desiderio disinteressato di conoscenza; e quello che comporta l’umiltà, il nascondimento, il farsi piccoli e il farsi indotti, perché non si cura di piacere al mondo, anzi, disprezza l’approvazione del mondo, ma desidera piacere solamente a Dio e cercare solamente Lui. Naturalmente, il pensiero cristiano ha elaborato la propria posizione rispetto alla scienza nel corso dei secoli, e la posizione di San Gerolamo o di sant’Agostino non è la stessa di san Benedetto, così come quella di san Francesco non è la stessa di san Tommaso d’Aquino, e così via; però sull’essenziale tutti sono d’accordo: non si dà alcuna scienza che possa prescindere dalla verità divina; non si dà vera sapienza che non sia aperta sul mistero ineffabile di Dio, Creatore e Redentore, ma che si chiuda in una superba pretesa di autosufficienza. Se la scienza vuole procedere staccata dalla grazia e se la ragione pretende di porre da sé le proprie basi, arrogante, narcisista, orgogliosa, per stupire il mondo e per affermare la superiorità dell’io, perde il contatto con la realtà vera e impazzisce, portando gli uomini non già alla conoscenza, ma alla rovina.

Scrive ancora san Paolo (Romani, 1, 21-25):

Essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi,poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli.

Così come Gesù dona agli apostoli la pace, ma specifica che la dà non come la dà il modo, così il cristiano sa che la vera scienza non è la stessa scienza che il mondo ricerca, coltiva e apprezza. Da ciò non consegue affatto che il cristianesimo sia nemico della scienza o del progresso del conoscere: questa è una leggenda forgiata per ragioni ideologiche dai nemici del cristianesimo o da una pletora di semi-intellettuali ignoranti, accecati dai pregiudizi. Al contrario, non si ripeterà mai abbastanza che la scienza prende in Europa uno sviluppo così impetuoso proprio perché il cristianesimo ha valorizzato al massimo la ragione, rivendicandone l’autonomia. Ma autonomia non è indipendenza e meno ancora separazione. Ciò che ha fatto Machiavelli con la politica e Galilei con la scienza, ciò che hanno fatto i filologi con le Scritture e gli economisti con loro dottrine, non ha nulla a che fare con la vera scienza, che si fa una cosa sola con la ricerca di Dio. Da una tale scienza non può venire alcun male; il male viene da una scienza che vuol decidere da se stessa cosa siano il bene e il male…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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