La razza, la storia, gli italiani
20 Novembre 2018
Omaggio alle chiese natie: via Cisis, 2° intermezzo
21 Novembre 2018
La razza, la storia, gli italiani
20 Novembre 2018
Omaggio alle chiese natie: via Cisis, 2° intermezzo
21 Novembre 2018
Mostra tutto

Mussolini Speaks

Siete incerti se acquistare una enciclopedia del cinema o un dizionario dei film e state cercando di capire se potete fidarvi che sia un testo obiettivo e imparziale, e non servilmente sdraiato sulle posizioni del politicamente corretto, care alla odierna cultura dominante? Ebbene, c’è una maniera pratica e semplicissima per saperlo, che vi richiederà non più di tre o quattro secondi: a nessuno piace perdere mezz’ora o un’ora per capire che razza di prodotto abbia per le mani. Sfogliate l’indice o cercate la pagina che si riferisce a un film documentario del 1933, prodotto negli Stati Uniti d’America e, ovviamente, girato in lingua inglese: Mussolini Speaks. Era in bianco e nero, perché utilizzava i documenti cinematografici ufficiali del regine, e durava 74 minuti (un’ora e un quarto: un vero lungometraggio); la voce del narratore era quella dello sceneggiatore, il celebre scrittore, attore e sceneggiatore americano Lowell Thomas (1892-1981), autore di qualcosa come una sessantina di libri di grande successo. Se quel film c’è, allora potete fidarvi della equanimità dell’opera che state sfogliando. Se non lo trovate, vi diamo un consiglio: lasciate perdere; perché una enciclopedia del cinema o un dizionario dei film che si ostina a censurare un film documentario prodotto ottantacinque anni fa, non vale nulla. È roba compilata dai soliti servi di regime, gente che non vale niente, che non possiede la benché minima onestà intellettuale. Gente che continua a mettere i mutandoni agli affreschi di Michelangelo, come si faceva nel tardo 1500; oppure che copre i dipinti e le sculture che rappresentano dei corpi nudi, come si usa oggi, se viene in vista di Stato un presidente del consiglio iraniano. E mi raccomando, niente vino in tavola, per carità: costui potrebbe scandalizzarsi. Solo acqua: acqua e la deliberata, impudica ostentazione della propria autocensura.

Ma che cos’è questo Mussolini Speaks che pretendiamo di adoperare come se fosse una cartina al tornasole per verificare il grado di serietà e attendibilità di un dizionario dei film? Scommettiamo che non ne avevate mai sentito parlare; tranne, forse, nel caso che voi apparteniate a quell’1% scarso della popolazione che possiede un forte interesse per le cose del cinema e che, pertanto, si sia costruita una discreta cultura specialistica in materia. Altrimenti, questo "buco" nella vostra cultura di cinefili è abbastanza scusabile, visto che proprio i produttori del film, che erano, guarda caso, due ricchi ebrei americani del sistema hollywoodiano, Harry e Jack Cohn (il primo come produttore ufficiale e il secondo quale autore del montaggio), quando poi le vicende della politica internazionale misero l’Italia e il Tripartito, di cui essa faceva parte, in rotta di collisione con gli Stati Uniti, fecero il possibile e l’impossibile per far dimenticare quello che, a posteriori, non poteva che apparire all’opinione pubblica statunitense come un disgraziatissimo incidente. Come dire che gli scheletri nell’armadio non sono una specialità italiana, ma sono una merce che abbonda anche nelle migliori famiglie, e persino nei salotti buoni della democrazia che, allora non meno di oggi, pretende di porsi come il paradigma di tutte le democrazie del passato, del presente e del futuro.

Ecco cosa ne dice la voce di Wikipedia ad esso dedicata (abbiamo incorporato le note per comodità del lettore):

MUSSOLINI SPEAKS (Mussolini parla) è un film documentario del 1933 dedicato ai primi dieci anni del mandato di Benito Mussolini come Presidente del Consiglio dei ministri. Il film è narrato dal giornalista statunitense Lowell Thomas, che interpreta i discorsi del Duce. Il documentario include delle riprese della Marcia su Roma, del trattato di pace tra l’Italia e il Vaticano, e dei progetti ingegneristici inerenti all’Italia stessa e quelli riguardanti l’espansione coloniale in Nordafrica («New York Times review»).

«Mussolini Speaks» fu prodotto e distribuito dalla Columbia Pictures e incassò un milione di dollari negli Stati Uniti (Bob Thomas:«King Cohn. The Life and Times of Harry Cohn», Putnam’s Sons, 1967, p. 102). Gli americani infatti apprezzavano molto il dittatore per il suo anticomunismo, antisocialismo e l’immagine di governo efficiente trasmessa dal documentario (Gian Piero Brunetta, Cinema e fascismo: la soluzione del sette per cento, p. 53), tanto che nei commenti, Lowell definì Mussolini «un moderno Cesare» (Simonetta Falasca Zamponi, «Lo spettacolo del fascismo», Rubbettino Editore, 2003, pp. 93-94). Fu prodotto dai fratelli ebrei Harry e Jack Cohn (quest’ultimo fu il montatore delle scene), che dopo le leggi razziali fasciste e l’entrata in guerra dell’Italia contro gli Stati Uniti fecero di tutto per minimizzare e occultare la precedente simpatia per Mussolini che emerge dal documentario (Fulvio Carro, «L’America affascinata da Mussolini: ecco cosa pensavano del Duce», sul «Secolo d’Italia» del 04/11/2015).

La Columbia Pictures, dunque incassò un milione di dollari distribuendo questo film documentario nelle sale cinematografiche di tutti gli Stati Uniti. La vicenda di questa pellicola è indicativa di quale fosse l’atteggiamento nei confronti di Mussolini e del fascismo sia da parte degli ebrei americani, che già all’inizio degli anni ’30 controllavano una buona parte dell’industria cinematografica e della stampa del loro Paese, sia, più in generale, dell’opinione pubblica e della stessa politica americana; atteggiamento che era ampiamente diffuso anche in Gran Bretagna, a cominciare dallo stesso Winston Churchill, e che cominciò a mutare solo a partire dalla guerra d’Etiopia e dalle sanzioni decise dalla Società delle Nazioni, per poi rovesciarsi completamente dopo il 10 giugno del 1940. E se qualcuno dubitasse di quanto fossero popolari il Duce e il suo governo negli Stati Uniti degli anni ’30, basta che si informi sulle trionfali accoglienze riservate a Italo Balbo quando giunse a New York il 19 luglio 1933 con i suoi 24 idrovolanti, con la folla che gli riservò un trionfo persino superiore a quello che aveva tributato, sette anni prima, al pilota americano Charles Lindbergh, al termine della trasvolata atlantica da Parigi a New York senza scalo. Il sindaco O’Brien aveva detto a Balbo: Avete reso un servizio immenso a tutti i popoli della terra. Quando la folla si assiepò al Madison Square Garden di Long Island, lo stadio più grande degli Stati Uniti, capace di contenere 200.000 persone, non solo tutti i posti erano occupati, ma c’erano altrettante persone rimaste fuori, che la struttura non era stata in grado di accogliere. Pochi mesi dopo un italo-americano, Fiorello La Guardia, veniva eletto sindaco di New York anche sulla spinta di quel trionfo mediatico.

Ora, non ci sarebbe bisogno che quanti acclamarono Mussolini nel mondo, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Brasile (dove arrivò un’altra famosa trasvolata atlantica di Balbo), in Argentina, oltre, naturalmente, a tutti quelli — e furono la maggioranza — che lo acclamarono nella sua patria, facciano carte false per minimizzare o per negare di aver avuto tutto quell’entusiasmo, di aver pronunciato quei giudizi entusiastici, se non fosse sopravvenuto un giudizio storico che è solo il riflesso di un anatema politico e ideologico, decretato appunto dopo il 10 giugno del 1940. Quel che vogliamo dire è che se la cultura storiografica e, in generale, l’intellighenzia liberaldemocratica, sia americana, sia italiana, avessero la decenza di non giudicare Mussolini e il fascismo con il metro riservato agli sconfitti, ma si sforzassero di essere più equi, nel valutare le ombre e le luci di quell’uomo e di quel regime, ecco che potrebbero anche permettersi di non arrossire e di non farfugliare allorché qualcuno sbatte loro davanti documenti come Mussolini Speaks e chiede conto di quegli apprezzamenti lusinghieri. È solo il fatto che Mussolini è finito a Piazzale Loreto, e che il fascismo è uscito stritolato dalla Seconda guerra mondiale, quando si è giocata la partita decisiva per il controllo finanziario ed economico del mondo, e l’Italia l’ha malamente perduta (anche la Germania e il Giappone, più consapevoli della posta in gioco, l’hanno perduta, ma non così malamente, in senso politico e morale) che adesso costringe i rappresentanti della cultura democratica a sputare sulla sua memoria, proprio gli stessi che, a suo tempo, ne riconobbero i meriti e forse persino li esagerarono. Tralasciando gli intellettuali di formazione o di mentalità marxista (che pure, almeno in Italia, sono tuttora la maggioranza, anche se variamente travestiti, specie da cattolici), per l’evidente malafede della loro critica, proprio loro che erano nemici della democrazia ben più spietati dei fascisti, restano l’incoerenza e l’ipocrisia dei liberali, di qua e di là dell’Oceano Atlantico: dei Croce con la loro "calata degli Hiksos" e di tutti quelli che dipingono il fascismo come il Male Assoluto, e Mussolini come la quintessenza del Male, senza poter spiegare perché, a suo tempo, dicevano e scrivevano su di lui cose completamente diverse. Si prenda il caso degli storici anglosassoni delle ultime due generazioni: dell’inglese Denis Mack Smith, per esempio, o dell’australiano Richard J. Bosworth, autori di voluminosi e popolarissimi volumi nei quali si sono sfogati a riversare tutta l’acredine possibile verso Mussolini e il suo movimento, non senza qualche sfumatura autenticamente razzista, specie il secondo, nei confronti del popolo italiano, giudicato come notoriamente inaffidabile e fanfarone. Ma sarebbe questo il loro giudizio, se Mussolini fosse morto improvvisamente verso il 1935 e se non ci fosse di mezzo, fra loro e la loro prospettiva, la Seconda guerra mondiale? A noi sembra evidente che Mussolini piaceva, e piaceva molto, sia alle classi dirigenti anglosassoni, sia all’opinione pubblica; che incominciò a piacer di meno quando, con la guerra d’Etiopia prima, indi con la guerra di Spagna, infine con la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Gran Bretagna il 10 giugno 1940, e agli Stati Uniti l’11 dicembre 1941, egli mostrò di voler passare dalle parole ai fatti anche sul piano della politica estera, il che ne fece un concorrente che andava eliminato. Fu solo allora che inglesi e americani si "accorsero" che il fascismo era cattivo: quando mise in crisi gli equilibri internazionali, insieme alla Germania e al Giappone; vale a dire quando mise in pericolo lo strapotere angloamericano sul mondo, sia a livello finanziario ed economico, sia a livello politico e militare. Finché si occupava solo o principalmente degli italiani, il Duce andava bene: faceva viaggiare i treni in orario, e soprattutto aveva il grande merito di aver stroncato sul nascere una deriva di tipo leninista; ma quando il modello corporativo si affacciò come una terza via economica e sociale a livello mondiale, e quando l’espansione italiana in Africa e nel Mediterraneo intaccò le posizioni acquisite dagli anglosassoni (che non gli perdonarono mai la conquista dell’Etiopia; mentre gli inglesi da parte loro occupavano illegalmente l’Egitto, Stato in teoria indipendente e sovrano), solo allora egli divenne un nemico da abbattere. Le leggi razziali c’entrano in questo mutamento di giudizio, ma non nel senso che le anime belle liberaldemocratiche amano, oggi, immaginare: semplicemente, fu l’Internazionale ebraica, che fino a quel momento era stata favorevole al regime (il fascismo dei primi anni, specialmente, era pieno di nomi ebrei), gli dichiarò guerra. Ed ecco la coda di paglia di personaggi come i fratelli Cohn a Hollywood; ecco l’imbarazzo della Columbia Pictures per il film celebrativo del 1933; ecco il terrore di Winston Churchill all’idea che i diari di Mussolini cadessero nelle mani sbagliate e fossero resi di pubblico dominio (che tipo di accordo c’era stato fra i due, oltre all’ammirazione non celata dell’inglese verso l’italiano?).

Un discorso perfettamente analogo, anzi, perfino più severo, si può rivolgere agli esponenti della cultura e della politica italiane di questi ultimi sette decenni. Essi hanno campato di rendita sul facile terreno dell’antifascismo, eretto da giudizio storico e politico (di per sé, almeno teoricamente, rivisitabile) a sentenza morale e metafisica inappellabile e definitiva: essendo stato il fascismo il Male Assoluto (giudizio fatto proprio, alla fine, persino da Gianfranco Fini e da altri esponenti della parte politica che si richiamava all’eredità fascista), bastava darsi da se stessi la patente di vigili custodi dell’Antifascismo, per iscriversi di diritto nel circolo dei Buoni e, naturalmente, per candidarsi a governare sia la politica italiana, sia il mondo della cultura. E così è stato; col risultato che per settant’anni non è stato possibile neanche accennare un discorso onesto sul fascismo, sia pur per farne il (tardivo) necrologio. Oggi, in Russia, si parla del comunismo, che è crollato meno di trenta anni fa, con una maggiore libertà e onestà di quanto non si faccia, in Italia, col fascismo, che è stato distrutto da più di settanta. La verità è che nel mondo, e specialmente negli Stati Uniti, dove erano espatriati tanti antifascisti durante il Ventennio (ed erano ben poca cosa, di fronte a milioni di italiani emigrati all’estero, compattamente filo-fascisti) l’antifascismo godeva di pochissimo credito perché lo vedevano in tutta la sua impotenza e il suo velleitarismo. Fu dopo il 25 luglio del 1943 che quei personaggi, i Salvemini, gli Sturzo, eccetera, vennero tirati fuori dalla naftalina e rispediti in Italia, a fare da vassalli delle potenze occupanti. Inglesi e americani si servirono di essi, ma in cuor loro li disprezzavano. Ne avevano preso le misure, osservandoli prima e dopo la caduta del fascismo. Avevano visto ciò che in Italia nessuno può azzardarsi a dire e che loro stessi per ragioni di convenienza s’inibirono di dire: cioè che Mussolini, in confronto a quei nani, era stato un gigante.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.