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La razza, la storia, gli italiani

Quale impatto hanno avuto, a livello etnico e culturale, le migrazioni dei popoli germanici, un tempo sbrigativamente chiamate "invasioni barbariche", nell’Italia tardo-romana? E, più in generale, quale è il ruolo svolto dalla razza nelle vicende dei popoli, nelle fasi di ascesa e decadenza delle civiltà? La prima domanda è di ordine più marcatamente specialistico, e riguarda più che altro gli storici; la seconda, molto più spinosa, è di portata vastissima, investe l’antropologia, la filosofia, la storia della cultura, e perfino la biologia e la genetica. La prima domanda se la sono posta gli studiosi da moltissimo tempo; anche il buon Manzoni si interrogava sulla portata e sul significato complessivo dei due secoli di dominazione longobarda in Italia. La seconda domanda è considerata scottante, o decisamente scorretta, perché se la sono posta uomini come De Gobineau, o, "peggio", come H. S. Chamberlain: ha a che fare con il razzismo del tardo XIX secolo e della prima metà del XX, quindi chiunque la ponga viene guardato di traverso e qualunque cosa egli dica, qualunque dato egli porti a sostegno delle proprie affermazioni, si sentirà sempre dire: Ma dove vuoi arrivare, con simili discorsi? Vuoi forse riproporre le dottrine sulla razza che hanno portato ai genocidi e alle pulizie etniche del 1900? Insomma è un argomento tabù; e, se è ancora concesso avere delle opinioni personali in proposito, l’importante è che esse rimangano nell’ambito strettamente privato e non siano esposte pubblicamente. Oggi, per fare un esempio, più nessun antropologo scriverebbe un libro, come il classico di Renato Biasutti, intitolato Razze e popoli della terra. La sola parola "razza" fa saltare sulla sedia i custodi del politicamente corretto: no, non ci sono razze, non esistono razze umane; e, in ogni caso, anche se esistono, è come se non esistessero, tale è l’irrilevanza di esse come fattore di civiltà. Ora, che questo sia in contrasto non solo con la storia dei popoli, ma anche con il semplice buon senso e con ciò che chiunque può osservare nel proprio ambito di vita quotidiana, fa poca importanza: per la cultura odierna, che si può definire come un vero e proprio totalitarismo democratico, non è vero ciò che è vero, ma è vero ciò che si dice; e non tutto si può dire, ma solo quello che il sistema giudica che sia dicibile. Non si può dire, ad esempio, che è improbabile che siamo morti sei milioni di ebrei durante la Seconda guerra mondiale, visto che non ce n’erano neppure tanti nell’intera Europa. E non si può dire che la razza nera, o africana, ha contribuito pochissimo allo sviluppo della civiltà umana, benché ciò sia una evidenza storica. Né si può dire che tale razza, in generale, non brilli per dedizione al lavoro, anche se qualunque europeo che vive in Africa ve la potrà confermare, compresi i meno sospettabili di essere razzisti, come i missionari cattolici: tutti vi diranno che, per fare il lavoro di un bianco, ci vogliono venti indigeni. Ma non lo si può dire in sede pubblica, tanto meno in ambito culturale: sarebbe una forma imperdonabile di razzismo, proprio come discutere la cifra dei sei milioni di vittime ebree sarebbe considerata una forma di antisemitismo e, probabilmente, di nazismo, o di cripto-nazismo. Ed essendo il Discorso della modernità pressoché totalmente in mano alle forze progressiste (o apparentemente tali), le quali controllano la stampa, la televisione, il cinema, l’editoria, l’università e la scuola, è praticamente impossibile dire certe verità, se risultano sgradite all’ideologia dominante. Per l’ideologia dominante, le razze non esistono; se esistono, sono "uguali", nel senso che nessuna può essere considerata progredita o arretrata in se stessa, ma solo in senso relativo; che anche gli uomini sono tutti "uguali", nel senso che i cretini sono stati aboliti per legge, e restano solo gli intelligenti. Provate a parlare coi genitori di uno studente svogliato o immaturo: nove su dieci, non ammetteranno che gli scarsi risultati scolastici siano dovuti al fatto che in lui c’è qualcosa che non va, ma cercheranno di addossarne la "colpa" sull’universo mondo, piuttosto che a lui.

Possiamo anche immaginare che, spesso, si tende a negare l’evidenza per delle nobili ragioni: per esempio, ammettere che gli africani hanno dato uno scarso contributo alla storia della civiltà potrebbe portare acqua al mulino di una politica di discriminazione, di sfruttamento, di brutalità, come è accaduto in passato, specie all’ombra del colonialismo (che, comunque, non fu solo brutto e cattivo, quindi non merita di essere condannato in blocco). Questa preoccupazione è comprensibile, rispettabile e, al limite, perfino lodevole: ma non è mai cosa intelligente negare i fatti per non disturbare l’ideologia, e sia pure una ideologia bene intenzionata. Si può predicare l’uguaglianza degli uomini davanti a Dio e davanti alla legge, senza però offendere l’intelligenza e il buon senso affermando che sono uguali anche in fatto di capacità, di virtù, di buona volontà. No: gli uomini non sono tutti uguali, o equivalenti, in questi ultimi ambiti; e non lo sono neppure le comunità umane, i popoli e le razze. Questo non equivale ad affermare la superiorità di una razza rispetto ad un’altra, se non nel senso, puramente oggettivo, in cui si può dire che un atleta è più forte di un altro, che un lavoratore è più efficiente di un altro, che un padre o una madre di famiglia sono più responsabili di altri. E non significa nemmeno teorizzare il dominio, lo sfruttamento o la schiavitù: non più di quanto avvenga se si afferma che una famiglia, per funzionare bene, deve riconoscere l’autorità del capofamiglia (che può anche essere una donna, o un fratello maggiore). Né si dimentichi che avere maggiori capacità e possibilità implica non solo e non tanto maggiori diritti, ma soprattutto maggiori doveri: proprio come il capofamiglia, il quale, appunto per il fatto di essere tale, deve esser pronto a lottare e anche a sacrificarsi, se necessario, per proteggere gli altri. Se scoppia un incendio, noi ammiriamo il padre o la madre che si sacrificano per mettere in salvo i bambini più piccoli, e che magari periscono tra le fiamme, dopo aver messo in salvo i loro figli. Chi è più forte, più maturo, più responsabile, ha anche maggiori doveri verso chi è più debole, più immaturo e meno responsabile. Questo sarebbe razzismo, sarebbe autoritarismo? Non ci sembra davvero. D’altra parte, proprio perché i migliori sono gravati da maggiori responsabilità, è doveroso che gli altri siano rispettosi verso di essi: i figli, per esempio, devono rispettare, onorare e obbedire i loro genitori; non possono rivolgersi ad essi solo per avere qualcosa, devono anche riconoscere la loro autorità. Diversamente, saremmo in presenza di un rapporto innaturale, squilibrato, disarmonico: una vera e propria forma di razzismo alla rovescia, dove il migliore è schiacciato sotto il peso di doveri e responsabilità che incombono a lui solo, mentre gli altri hanno tutta la libertà di questo mondo e non devono rispondere di nulla ad alcuno. Ebbene, lo stesso principio vale anche nei rapporti fra i popoli. Da alcuni decenni, gli esponenti della classe dirigente pretendono dagli italiani la massima disponibilità all’accoglienza di masse sempre più numerose d’immigrati di altra razza, altra religione e altra civiltà, verso i quali mostrano la massima indulgenza, anche quando ripagano malissimo l’ospitalità ricevuta, si macchiano di gravi crimini, violano continuamente la legge. Comportamenti che agli italiani non sono concessi, né vengono perdonati, ad essi sono consentiti: vi sono magistrati che rimettono in libertà lo straniero delinquente, anche dopo due o te fermi di polizia, e che arrivano a giustificare quei reati con lo stato di indigenza, circostanza che non è mai un’attenuante quando si tratta di cittadini italiani. Questo è un vero e proprio razzismo alla rovescia, un auto-razzismo; e i cittadini italiani vedono con sconcerto, amarezza e angoscia che tale politica dei due pesi e delle due misure viene apertamente predicata, e praticata, dai massimi esponenti dello Stato e della Chiesa; cosa, quest’ultima, non meno scandalosa, perché i cattolici si stanno chiedendo se sia un comandamento evangelico quello di trattare gli altri assai meglio di come si è convenuto di trattare i propri simili, i propri connazionali e i propri correligionari. 

Parlavamo del dibattito storiografico sulla reale portata delle migrazioni germaniche in Italia nei secoli della tarda antichità e dell’alto medioevo, diciamo dal IV al X secolo: dalle prime incursioni di Quadi e Marcomanni al di qua delle Alpi, allo stanziamento dei Normanni in Sicilia e nell’Italia meridionale. A ciò si aggiunga, in subordine ma contestualmente, un ulteriore problema storiografico: quanto era sopravvissuto, nell’Italia romanizzata, delle antiche popolazioni, delle antiche strutture sociali e delle antiche culture pre-romane, e specialmente celtiche? In sede storiografica, è corretto parlare dell’Italia del V secolo come della terra dei "romani", o non è forse vero che il ceppo celtico era sopravvissuto alla conquista romana ed era ancor vivo e vegeto, allorquando, dalle Alpi, si affacciarono i popoli germanici, i Visigoti, gli Ostrogoti, i Longobardi e infine i Franchi? Non è forse vero che l’aristocrazia dell’Italia settentrionale, formatasi nell’alto medioevo, era quasi tutta di origine germanica; e che molte popolazioni erano celtiche, e tali rimasero anche dopo esseri convertite al cristianesimo e dopo aver fatto parte, per quattro secoli, dell’Impero di Roma? Lo studio dei toponimi, delle usanze, delle leggi, delle strutture familiari e sociali, lo conferma in larghissima misura. Ora, la domanda che ne deriva è la seguente: se il popolo italiano è, come il francese (lo scriveva Ferdinando Gregorovius nella sua meravigliosa Storia della città di Roma nel Medioevo) un popolo misto, profondamente "rinnovato" dalle invasioni germaniche, anche in senso propriamente biologico, oltre che spirituale, che giudizio possiamo dare dei suoi successivi sviluppi, della sua civiltà, per esempio del Rinascimento e della fioritura di geni incomparabili nelle arti, nella poesia, nella scienza, nella marineria, nel commercio, nella finanza, insomma in ogni ambito dell’attività umana, materiale e intellettuale? Possiamo ammettere che un influsso ci sia stato e che, senza l’apporto del sangue germanico e senza la sopravvivenza del sangue celtico, probabilmente non vi sarebbero stati i Comuni, né l’Umanesimo, né il  Rinascimento, e neppure la Chiesa cattolica come noi la conosciamo, la quale è stata, sì, una creazione sostanzialmente italiana, ma, proprio per questo, non una semplice ripresa dell’antico genio romano, ma una seconda giovinezza del popolo italiano, rinnovato dagli apporti, vecchi e nuovi, di quei popoli che romani non erano, né erano mai stati, né si erano totalmente assimilati alla cultura e alla civiltà romana? La stessa parola "rinascimento" è ingannevole: davvero fu una rinascita della romanità (o addirittura della grecità) e non, invece, come appare infinitamente più plausibile, una creazione originale del genio italiano, vivificato dagli apporti che gli erano venuti proprio dagli elementi meno romanizzati presenti in esso? Questa domanda, del resto, è lecita perfino nell’età aurea della cultura latina, l ‘età di Cesare e Augusto. Virgilio, per esempio, fu un genio romano o un genio "padano"? Nelle opere del poeta di Mantova si respirano i valori tipici della romanità, vi è un riflesso del modo di pensare e di sentire autenticamente romano, o vi è qualcosa di nuovo e di diverso, qualcosa che ha a che fare con la cultura indigena dell’Italia settentrionale? E se è lecito porsi questa domanda per Virgilio e per l’epoca della piena romanità, come non sarà lecito porsela per i secoli seguenti, per i mille e duemila anni successivi? San Tommaso d’Aquino, Dante, Colombo, Leonardo, sono davvero dei geni "romani", o non sono piuttosto dei geni pienamente italiani, ma "italiani" nel senso anzidetto: non figli della pura e semplice prosecuzione della civiltà romana e del popolo romano (che si era pressoché estinto fin dai primi secoli dell’era volgare, sommerso sotto il peso dei popoli orientali da esso conquistati), ma espressione di una realtà nuova, di una civiltà nuova, e, diciamolo pure, di una nuova razza?

Il libro di Gualtiero Ciola, Noi, Celt e Longobardi (1987), è caduto come un sasso nello stagno della cultura italiana politicamente corretta; ma, proprio per questo, non ha sollevato spruzzi, non ha scomodato ranocchi e non ha turbato per nulla la vita della palude: è stato "assorbito" con un muro di silenzio e d’indifferenza, e i grossi nomi hanno fatto finta di non averlo neppure notato. Non si è acceso un dibattito: chi voleva capire il discorso dell’Autore, in realtà lo aveva già capito da sé; e chi non voleva, né vuol capirlo, non lo capirà mai, neppure se glielo spiegassero in tutte le lingue del mondo. Un po’ perché Ciola non è uno studioso proveniente dal mondo accademico, un po’ perché le sue tesi sono estremamente eterodosse, la cosa migliore che hanno creduto di fare, nei suoi confronti, gli esponenti dell’establishment, è stata quella d’ignorarlo. Perché abbassarsi a discutere le tesi di uno sconosciuto? E perché dare risonanza a un pensiero radicalmente diverso da quello oggi dominante? Ma cosa dice, in sostanza, Gualitero Ciola? Primo, che gli italiani sono più celti che romani, o almeno quelli del Nord; secondo, che la loro eredità genetica si è arricchita di parecchio sangue germanico; terzo, che gli ibridi, cioè i meticci, svolgono spesso una funzione di progresso, ossia migliorano le caratteristiche delle razze di origine. Sono tesi proprio così estreme, così "razziste"? A noi non pare. Anche se Ciola, a un certo punto, non solo è parso dover assurgere al ruolo di ideologo della Lega Nord, per poi orientarsi verso la Comunità Odinista, il cui improbabile scopo è far rivivere il culto pagano di Odino, le questioni da lui poste sul tappeto permangono. Gli ibridi, per esempio: nel caso delle migrazioni germaniche in Italia, essi diedero buoni frutti: ardimento, senso della famiglia, valore della libertà vennero da essi e non tanto dall’eredità romana. Ma oggi? Quali valori e qualità possono venire agli italiani da milioni di falsi profughi africani? Quale vantaggio avrebbe la nostra società, accogliendoli? Perché dovrebbe farlo?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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