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30 Ottobre 2018Un test è una prova che viene somministrata a un soggetto per valutare certe sue caratteristiche professionali, o psicologiche, o di qualsiasi altro tipo: in pratica, serve a capire di che stoffa è fatta una certa persona. Oggi vanno assai di moda i test scientifici; ma da sempre esiste una cosa equivalente, che veniva magari chiamata in altro modo, e che aveva il medesimo scopo: capire quanto valesse una persona, fino a che punto si potesse fare affidamento si di lei. Un test, quindi, è essenzialmente una prova: può essere una prova che simula una situazione reale, oppure una situazione reale a tutti gli effetti. Un test è, per esempio, un insieme di procedure per stabilire come reagirebbe una persona se venisse a trovarsi sotto stress, mentre sta svolgendo un determinato incarico; ma un test si verifica anche quando la situazione di emergenza si presenta davvero. In quel caso, si tratta di un test senza rete: è la vita che mette alla prova il valore degli esseri umani, spogliandoli di tutte le maschere dietro le quali si nascondono nella vita di ogni giorno. Fino a quando possono contare sul paracadute delle convenzioni sociali, finché possono ripararsi dietro il lavoro, la famiglia, le leggi, o qualsiasi altra circostanza esterna, gli uomini possono anche dare a intendere di esser altro da ciò che realmente sono; possono perfino – e il caso è tutt’altro che raro — ingannare se stessi, e farlo talmente bene da non sospettare di essere le prime vittime della propria astuzia e della propria doppiezza. Possiamo anche esprimere il concetto in questo modo: nessuno può sapere quel che vale, nemmeno di fronte a se stesso, fino a quando non si trova messo realmente alla prova, senza aiuti e senza suggerimenti dell’ultima ora. Un test, infatti, è tanto più attendibile, quanto più mette un soggetto di fronte a situazioni ultimative, nelle quali può affidarsi unicamente alle proprie risorse personali.
D’altra parte, il valore di un test è legato anche alla prospettiva da cui ci si pone: in altre parole, dipende dal valore che noi diamo alla "risposta" del soggetto, all’interno del nostro codice di valori, del nostro ethos. Ciò che vogliamo dire è che, in una società guerriera che pratica la caccia alle teste e il cannibalismo, il valore del test di efficienza misura la capacità di un soggetto di uccidere i nemici, tagliar loro la testa e cibarsi del loro corpo. Non esistono test completamente auto-evidenti, perché il test è una misurazione: più precisamente, è la misurazione di una prestazione, proprio come avviene in un esame. Perciò, il suo risultato si inscrive un duplice ordine di fattori: da un lato, il valore che noi assegniamo a quella prova; dall’altro, l’esaustività della prova stessa. Per essere del tutto esaustiva, una prova deve riflettere una situazione tipo e non una situazione eccezionale e imprevedibile, perché in questo caso anche la risposta non rifletterà necessariamente il grado di efficienza tipico di quel soggetto. Tutti sappiamo che un forte mal di testa può compromettere il risultato di un esame di concorso; allo stesso modo, uno stato d’animo fortemente emotivo può compromettere il risultato di un esame clinico, ad esempio un elettrocardiogramma. Pertanto, il test è soggetto ad una ambiguità di fondo: per essere veritiero, deve misurare la risposta a una situazione particolarmente significativa (sarebbe assurdo sottoporsi a dei test su delle prove futili e banali), ma dall’altro, per essere davvero significativo, deve rompere il quadro della norma e scompaginare il quadro di riferimento legato all’abitudine. Ne deriva che il test è di per se stesso ambiguo, perché, in definitiva, non si può sapere quale sarà la risposta di un certo soggetto a una certa situazione, fino a quando la situazione non si presenterà effettivamente e non sotto forma di simulazione. Nessuno può sapere quanto sarà coraggioso, oppure vile, fino a quando non si troverà impegnato in una vera battaglia; per quanto ci si possa esercitare, infatti, le esercitazioni sono una cosa e la realtà è un’altra. E qui il test finisce di essere utile, nel senso che, per essere davvero rivelatore, bisogna che coincida con la realtà stessa, cosa che esclude il suo valore predittivo e rende sostanzialmente inutile il test medesimo: solo la realtà della vita è significativa, la simulazione è e resta una simulazione.
Il test può misurare non solo le risposte del singolo, ma anche delle squadre, dei gruppi, delle categorie e perfino dei popoli. I popoli non sono un’astrazione: sono un insieme organico di soggetti che vivono in un certo luogo e che condividono una serie di valori e di segni di identità. In questo senso, un terremoto o un’alluvione, per esempio, costituiscono anche un test per verificare sia quel che una data società ha fatto per premunirsi contro le calamità naturali — che, specie al giorno d’oggi, raramente giungono del tutto impreviste o imprevedibili, sia la risposta dei membri di quella società sotto il profilo dell’efficienza, che è, in ultima analisi, un’assunzione di responsabilità. Una comunità che manifesta atteggiamenti di vittimismo e che sa solo cercare un colpevole per quanto è accaduto, di solito addossando a qualcun altro la responsabilità di non essersi premunita per tempo, o di non aver messo tempestivamente in movimento la macchina dei soccorsi, denota, con ciò stesso, una scarsa propensione ad assumersi in prima persona le proprie responsabilità. Viceversa, è maturo, cioè efficiente, l’atteggiamento di quella comunità che, invece di recriminare e lamentarsi, sa fare squadra e attiva tutte le proprie energie, per quanto limitate esse siamo, per prestare aiuto a quanti ne hanno bisogno e reagire alle condizioni avverse che si sono create. Spostandoci sul piano politico e morale, è efficiente, cioè maturo e solidale, un popolo che si assume la responsabilità, nel bene e nel male, di affrontare le conseguenze del proprio agire collettivo; mentre è vile e infingardo un popolo che, nella cattiva fortuna, sa solo cercare i colpevoli e li trova, ad esempio, nei propri capi, quelli stessi che fino al giorno prima, nella buona fortuna, applaudiva entusiasticamente. Un popolo che si comporta così non è neanche degno di esser chiamato popolo: è solo un’accozzaglia d’individui cinici e opportunisti, preoccupati unicamente del proprio comodo: gente senza fedeltà, senza coerenza né onore.
Il test più significativo che il popolo italiano ha dovuto affrontare, nella sua storia recente, è stato quello del 25 luglio 1943, preludio all’8 settembre e a tutto ciò che ne è derivato: la doppia occupazione straniera, l’odio tra fratelli e gli orrori della guerra civile, infine le atroci vendette spacciate per giustizia e l’epurazione come rito di espiazione per scaricare su alcuni, spesso i più fedeli, i più coerenti e più dotati di senso dell’onore, le responsabilità di tutti. Se, infatti, fino al 25 luglio 1943 era un motivo di vanto andare per strada con il distintivo del Partito nazionale fascista, a partire dal 26 luglio ciò equivaleva a un’imprudenza, o a una sfida pericolosa, o a una vera e propria incoscienza, in tutti i casi a un gesto folle e ingiustificabile, che esponeva alle violente rappresaglie della folla. Siccome la storia del fascismo ci è stata raccontata a senso unico, abbiamo sempre legato il concetto della violenza alla sola parte fascista, alla vile aggressione di un gruppo di squadristi contro pochi antifascisti, per lo più inermi: siamo perciò vittime di una distorsione mentale che ci impedisce di vedere anche l’altra faccia della medaglia, sia per il periodo precedente l’instaurarsi della dittatura, sia per il periodo susseguente alla sua caduta. Dopo il 25 aprile del 1945, essere riconosciuti pubblicamente come fascisti comportava il pericolo immediato di essere passati senz’altro per le armi, senza alcuna attenuante per l’età o per il sesso; anzi, per le donne costituiva un’aggravante: perciò prima d’essere uccise, dovevano subire anche lo stupro. Ma anche all’indomani del 25 luglio 1943, benché il clima non fosse ancora totalmente imbarbarito da venti mesi di guerra civile, i rischi non erano certo indifferenti.
Ci piace, a questo proposito, riportare una pagina dal romanzo di Eugenio Corti Il cavallo rosso (Milano, Ares, 1983, e San Paolo, 2008, vol. 2°, Il cavallo livido, pp. 157-159):
Passavano parlando con animazione gruppi di persone, la gente non sembrava comportarsi nel solito modo, molti individui apparivano eccitati. A un tratto, mentre uno di quei gruppi intersecava la diluita corrente di viaggiatori provenienti dal treno, "Eccone uno, eccone uno", si sentì gridare; esplosero molte voci, alcuni ragazzetti e uomini dapprima, poi tutto il gruppo circondò qualcuno non lontano da Ambrogio. Guarda, avevano scopeto il tizio con la "cimice", di cui il giovane si era completamente dimenticato.
"Un fascista!"
"Ha il distintivo: ve’, ha ancora il distintivo, ‘sto porco, guardate", vociferava strepitando un ragazzetto.
"La carogna". Molti accorrevano da più lontano, vociando e anche ridendo.
Ambrogio cercò, in divisa compera, di farsi avanti, ma il raffittimento della gente glielo impediva. Vide che un individuo scamiciato tratteneva per il risvolto della giacca, su cui ancor s’intravedeva la "cimice", il tizio sceso dal treno di Nomana, terreo in volto.
"Lasciatemi stare" protestava costui "lasciatemi stare. Sono fascista come lo eravate tutti voi, né più né meno."
"A noi fascisti? A noi? Ah disgraziato!"
"Che merda!"
"Maledetto porco. Figlio di puttana".
L’individuo scamiciato dava strattoni sempre più violenti al risvolto, tanto che finì con lo strapparlo dalla giacca: dopo di che — tra le acclamazioni degli altri — lo alzò in aria come un trofeo, giubilando.
"La polizia" gridò a questo punto una voce di donna: "arriva la polizia".
L’allarme ebbe un certo effetto, tutti si guardarono intorno, il capannello che stringeva il tizio si aprì un poco; non si vedeva però la polizia.
L’individuo col risvolto in mano scorse invece Ambrogio: "Non è la polizia" gridò "è l’esercito"." Levò nuovamente in alto il brandello di stoffa: "Viva l’esercito" gridò, "viva l’esercito che ha liquidato questi cagoni…". Poi, non ricevendo corrispondenza dall’esercito, si avviò, seguito dagli altri. Il tizio, con la giacca lacerata rimase fermo sul posto: "Non possono farlo, non possono", ripeteva.
Ambrogio lo raggiunse; la gente che era arrivata col treno si stava riavviando tra fitti commenti. "Andiamo", disse Ambrogio all’uomo "venite via prima che a quelli salti in mente di tornare qui".
Alle spalle dei due camminava, con altri, la donna che in treno aveva suggerito all’uomo di togliersi la "cimice". "Glie l’avevo detto" ripeteva eccitata: "io gliel’avevo detto." Ambrogio le diede un occhiata di traverso, quella allora abbassò un poco la voce, ma non smise di ripetere: "In treno io l’avevo avvisato, gliel’avevo detto".
Ecco là un pattuglione della polizia, fermo presso la rampa delle scale centrali, e laggiù eccone un altro. "Se volete, potete rivolgervi alla polizia" disse Ambrogio al tizio.
"La polizia? Sì, certo" rispose questi, ancora sbalordito.
"Più che altro se a quelli venisse in mente di tornare a cercarvi…" disse Ambrogio, e lo lasciò.
All’uscita della stazione c’erano alcuni che, con scale e martelli, stavano puntigliosamente demolendo i simboli fascisti incorporati nei muri; intorno piccole folle acclamavano, ma soprattutto ridevano.
In questo brano, che ricorda alla lontana l’assalto alla casa del vicario di provvisione di manzoniana memoria, col protagonist,a Ambrogio, nei panni di Renzo Tramaglino, c’è lo specchio dei peggiori difetti del popolo italiano sotto il profilo politico: l’incostanza, l’opportunismo, l’irresponsabilità; una sostanziale mancanza di serietà, di coerenza, di onore, che può anche sfociare in ferocia. La fine di Mussolini, applaudito entusiasticamente dalla folla il 10 giugno del 1940, poi appeso per i piedi a Piazzale Loreto, ricorda quella di Cola di Rienzo e riflette la tendenza degli italiani a esaltarsi per dei capi carismatici che poi vengono gettati nella polvere per esorcizzare, con il loro olocausto, le proprie colpe. Non è un bello spettacolo, quello della folla che dà la caccia al "fascista", sapendo benissimo che molti portavano il distintivo del Partito per ragioni non politiche; o che già il 26 luglio scalpella via dai muri i simboli del Fascio, la stessa folla che aveva plaudito ai successi del regime e alla proclamazione dell’Impero. Mancanza di serietà, di rigore morale anche e soprattutto verso se stessi. Ma ben pochi scrittori e intellettuali italiani, in questi settant’anni, hanno fatto un discorso chiaro e onesto come quello di Eugenio Corti. Perché? Semplice: se lo avessero fatto, avrebbero forse dovuto ammettere che l’adesione alla Repubblica di Salò non venne dai peggiori italiani, ma da alcuni che avevano un più spiccato senso dell’onore, della fedeltà e della coerenza. Che poi fossero coerenza e fedeltà mal riposte è altra cosa, e se ne può discutere: però c’erano. Ora, la domanda inquietante che dovremmo farci tutti è questa: Siamo ancora quelli del 25 luglio 1943?
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