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L’alta moda è una forma di arte?

L’alta moda, i vestiti firmati che esibiscono le supermodelle ai met gala, e che indossano i divi e soprattutto le dive dello spettacolo in un tripudio di applausi e di flash dei fotografi, è una forma d’arte, è l’undicesima musa? Ed è, per caso, quella forma d’arte in cui meglio si riflette la sensibilità estetica della società moderna e della cultura contemporanea, sempre più in rotta con tutto ciò che è tradizione e sempre più smaniosa di trovare nuovi canali espressivi, nuovi stili e nuovi linguaggi figurativi, addirittura nuovi codici e nuovi canoni estetici, come del resto è tipico di tutte le civiltà di transizione e di tutti i paradigmi in fase di mutamento? E si può fare "arte" creando un abito da sera, un completo autunno/inverno, o perfino un costume da bagno, intero o in due pezzi che sia? Queste cose sono tali da consentire una manifestazione artistica? Sono le forme di arte che la nostra società lascerà ai posteri, dopo la terza guerra mondiale e il grande interregno dovuto alle radiazioni atomiche, che le farà seguito? E come noi, oggi, andiamo alle pinacoteche ad ammirare i capolavori pittorici dell’Impressionismo, o quelli del Rinascimento, oppure ci fermiamo pensosi ad ammirare le grandi cattedrali gotiche, così gli uomini del ventunesimo o del trentesimo secolo – se ce ne saranno ancora, beninteso — si raccoglieranno intorno ad una teca contenente i brandelli di un abito di Valentino, o di Versace, o di Dolce & Gabbana, o magari davanti alla riproduzione fotografica di un micro-bikini di lusso, tempestato di brillanti e firmato da una marca prestigiosa? Per tentare di rispondere a queste domande, e ad altre dello stesso genere, che si potrebbero formulare, vogliamo evocare un evento mondano di prima grandezza che ebbe luogo nella metropoli californiana ormai quasi un quarto di secolo fa, anche se, per certi aspetti, si stenta a credere che sia accaduto più tardi dell’altro ieri.

Nel 1994 viene distribuito Quattro matrimoni e un funerale, del regista Mike Newell, il film che, a sorpresa, si rivelerà il primo film britannico per incassi in tutta la storia del cinema, con un incasso di quasi 250 milioni di dollari al botteghino. Il merito del trionfo spettava in gran parte all’attore protagonista, un Hugh Grant trentaquattrenne che si affacciava solo allora sulla scena della celebrità, nella parte dello scapolone impenitente, timido e ironico, che alla fine s’innamora perdutamente della fascinosa co-protagonista Andie MacDowell. La prima del film, a Los Angeles, fu l’evento mondano dell’anno: Grant si presentava con al fianco la bella fidanzata Elizabeth Hurley, modella e attrice non di primo livello, che di anni non ne aveva ancora trenta, ma la cui carriera fra poco avrebbe spiccato il volo. Ebbene: quella sera, a Los Angeles, tutti gli occhi sono per lei, tutte le macchine fotografiche si rivolgono a lei, e il bel tenebroso che la tiene al braccio scivola un po’ nell’ombra; gli altri ospiti dell’evento, spariscono addirittura. Si potrebbe perfino dire che, se il successo di pubblico di Grant incomincia proprio con quel film, il successo della Hurley prende le mosse da quella azzeccatissima serata, in cui la modella inglese ha fatto veramente centro, ha sfondato in maniera irresistibile, "bucando" l’obiettivo dei paparazzi. Certo, la Hurley ha tutte le carte in regola e tutte le curve al posto giusto per attirare l’attenzione generale, però non è il suo fisico da supermodella e nemmeno il suo sguardo luminoso a realizzare l’incanto, bensì l’abito che indossa. È un audacissimo e originalissimo vestito di Gianni Versace, il cavallo di battaglia che le farà vincere la guerra di quella storica serata del bel mondo hollywoodiano, facendo crepare d’invidia tutte le donne e sciogliendo in adorante ammirazione tutti gli uomini; un vestito che farà storia addirittura. Per modo di dire: gli abiti firmati come quello, si indossano una sola volta, e il miracolo ben difficilmente si rinnova. Ora Lady Gaga ci ha provato a indossare lo stesso identico vestito di quella sera, ma l’effetto non è stato certo lo stesso: primo, perché è venuto meno il fattore novità; secondo, perché almeno una pare del successo dipende, effettivamente, anche da colei che lo indossa: e non è la stessa cosa se un vestito viene indossato da una signora naturalmente elegante, oppure da una pescivendola ambiziosa, ma estremamente volgare.

Ha scritto la giornalista e critica d’arte Beba Marsano (in: La Storia dell’Arte della Biblioteca di Repubblica, Mondadori, 2006, vol. 19, pp. 698-699):

Los Angeles, 1994. In occasione della prima del film "Quattro matrimoni e un funerale", Elizabeth Hurley ruba la scena all’allora fidanzato — e protagonista della pellicola — Hugh Grant in virtù di quanto porta addosso: un vertiginoso abito nero chiusi sui fianchi nudi da enormi spilloni da balia, che la trasforma immediatamente da oscura starlette in star da copertina.

Sul total black del tessuto e contro la pelle a vista, gli spilloni dorati rifulgono come pietre preziose acquistando la dignità di gioielli; la loro carica di aggressività contestataria si neutralizza per trasformarsi in voluttuosa provocazione ad alto tasso erotico.

In questo abito da sera, pietra miliare nella storia della creatività targata Versace, lo stilista combina elementi dello stile anni settanta (le spille sadomaso icona del British punk) e della moda anni ottanta (i body in lycra nera del popolo da discoteca).

La testa di ogni spilla è marchiata con l’emblema di casa Versace: la testa di Medusa aureolata di strass. Medusa è la Gorgone con ali d’oro, mani di bronzo e capelli di serpenti vivi, i cui occhi pietrificavano all’istante colui che ne incrociava lo sguardo: "Chi si innamora di Medusa non ha scampo; allora perché non pensare che chi è conquistato da Versace non può tornare indietro?".

L’abissale scollo a V, sostenuto da doppie spalline anch’esse trattenute da spilli, è costituito da coppe rigide per renderlo inamovibile. Sui lati gli spacchi sono totali; scendono dall’ascella alla caviglia in un intrigante gioco di "vedo-non vedo".

Qui Gianni Versace rivoluziona la tradizionale vocazione dell’abito nero, facendo del più grande classico dell’abbigliamento femminile, del più consolidato passe-partout un conturbante oggetto del desiderio, un luogo di tentazione irresistibile, un terreno di audace, flagrante peccato.

E adesso proviamo a rispondere alle domande che ci eravamo fatte. Il vestito nero indossato da Elizabeth Hurley, con le grandi borchie dorate e completamente aperto sui fianchi, dalla spalla alla caviglia, e con la vertiginosa scollatura a "v", che lascia scorgere generosamente il seno (proibito, si capisce, se non si vuole "ammazzare" un simile capo, indossare sotto di esso il reggiseno), si può considerare un’opera d’arte, una manifestazione artistica della fine del XX secolo? Naturalmente, tutto dipende da cosa si intende per "arte". Diamo dunque una rapida e sommaria definizione: diciamo che l’arte è l’espressione del senso del bello, realizzata mediante un manufatto. E tanto peggio per i soliti pirandelliani, incontentabili cronici, i quali si faranno subito sotto, come segugi che hanno fiutato la preda, per incalzarci con la fatidica domanda: E cos’è il bello?, un po’ come Ponzio Pilato chiedeva Gesù Cristo: Che cos’è la verità? Osiamo dire, infatti, che, come la geometria si regge su alcuni postulati indimostrabili, ad esempio che per due punti nello spazio passa una ed una sola retta, o che una retta è una linea non ha né principio né fine, così anche per l’estetica bisogna accontentarsi di poggiare ogni altro discorso su di un postulato indimostrabile: che ciascuno di noi abbia una nozione istintiva di cosa è il bello. Beninteso, ognuno che abbia i sensi sani e una mente sana; non un soggetto malato, anormale, perché la sua idea del bello sarà anch’essa patologica. Un malato di mente può anche trovare che gli escrementi, come per lo "scultore" Piero Manzoni, sono, o possono essere, opere d’arte; ma una persona sana, no: con o senza la laurea in belle arti. Per una persona normale, bello è ciò che dà una sensazione gradevole a livello interiore, e non solo epidermico; ciò che investe la totalità dell’essere e lo fa volare, per così dire, verso l’alto. La basilica di Santa Sabina, a Roma, è bella; la Pietà di Michelangelo, è bella; la Vergine delle Rocce di Leonardo, è bella. La merda d’artista di Piero Manzoni, no. Una fotografia pornografica può dare sensazioni eccitanti, ma non è bella, perché non investe la totalità dell’essere e perché non fa volare lo spirito verso l’alto: non trascende le passioni, ma le esaspera. La Divina Commedia trascende le passioni; una fuga di Bach trascende le passioni; e anche una tragedia di Eschilo o di Sofocle (una di Euripide, già assai meno). L’arte moderna, in generale, non trascende le passioni, ma le stimola, le eccita, le lusinga. E già questo è un grave limite: è la spia del fatto che l’arte ha abdicato ad una delle sue funzioni essenziali, la pacificazione dello spirito.

C’è, poi, un altro fatto da tener presente. Alla domanda se l’abito di Versace, indossato da Elizabeth Hurley nel 1994, si possa considerare un’opera d’arte, probabilmente bisognerebbe rispondere: Sì, nel suo genere. Intendiamo dire che, in quanto abito da sera, destinato a fare colpo su un pubblico estremamente mondano, a suscitare l’ammirazione e l’invidia delle ricche persone del "bel mondo" del cinema, o dello spettacolo in generale, è certamente una realizzazione riuscita: è elegante, è sorprendente, è originale, ma sempre nel suo genere. Nessuna donna lo indosserebbe per andare a far la spesa; e, se lo facesse, si renderebbe ridicola, o peggio. Invece di sguardi carichi di ammirazione o di segreta invidia, la malcapitata che lo indossa riceverebbe fischi volgari e battute pesanti. Questa è una spia che non si tratta di vera arte, di arte in senso assoluto. La Notte stellata di Van Gogh è bella in assoluto; l’Annunciazione del Beato Angelico e o la Nascita di Venere di Botticelli sono belle in assoluto; ma il vestito di Versace è bello nel suo genere. Non è bello in assoluto: è bello in quella tale circostanza, a quelle tali condizioni. Ma se mettiamo la Notte stellata di Van Gogh in una cantina, o se l’appendiamo in un supermercato, nonostante l’ambiente incongruo o inadeguato, quell’opera non perde niente della sua bellezza: il suo messaggio resta inalterato. Non così l’abito di Gianni Versace. Bastano poche ore, basta che arrivi il primo mattino, e già apparirebbe fuori posto; figuriamoci in un altro contesto sociale, per la strada ove passano i comuni mortali, o, appunto, al supermercato. E si aggiunga un’altra cosa ancora: l’abito di Versace fa la sua figura solo su un fisico adatto; né basta il fisico: ci vuole qualcos’altro, quel certo non so che. Non è sufficiente che lo indossi una giovane donna con il fisico da modella, o meglio ancora una modella di professione (come lo era, appunto, la Hurley), perché lei sa come muoversi; bisogna che possieda anche grazia, ironia, brio, charme. Indossato da Lady Gaga, infatti, è penoso, perché l’abito non fa il monaco.

C’è una ragione per dire che Il sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare è un’opera d’arte, mentre il vestito di Gianni Versace lo è in un certo contesto, fino a un certo puntonel suo genere. Un vero artista crea le sue opere in maniera del tutto spassionata, ed è per questo che in esse si esprime il bello assoluto. Certo, l’opera può essergli stata commissionata; ma il vero artista prende la commissione come uno spunto, un’occasione per esprimere il sentimento universale del bello che gli urge nell’anima, e, se non lo manifestasse con la tela e i colori, o con la musica, o con le parole, o con il marmo, o con il legno, o con qualsiasi altro mezzo espressivo, gli scoppierebbe dentro. In ogni caso, l’opera d’arte è unica: se è riproducibile, se è fatta in serie, e sia pure una serie di pezzi firmati dall’autore, allora non è più arte, è una cosa diversa: è industria. Il Cantico di frate Sole di san Francesco è unico, ed è un’opera d’arte, oltre che una testimonianza di altissima spiritualità; ma i vestiti di uno stilista di alta moda non sono pezzi unici, sono destinati a un mercato. hanno un valore commerciale e sono fatti proprio per quello: sono stati pensati per essere venduti come una merce. La Madonna col Bambino benedicente di Giovanni Bellini, ora alla Pinacoteca di Brera, anche se è stata commissionata da qualcuno, è un’opera unica, e il suo scopo principale non è affatto quello di produrre un guadagno, ma di celebrare la bellezza interiore. Quel pittore non aveva di mira principalmente il proprio guadagno, ma la gloria dio Dio e la devozione degli uomini verso la Vergine Maria. Gianni Versace, come qualsiasi altro stilista di alta moda, ha di mira, sì, anche il piacere di chi indosserà i suoi capi, ma, prima di tutto, il successo, la fama e il profitto economico che gli verranno dalla distribuzione di quel prodotto: non opere singole, uniche e irripetibili, ma prodotti fabbricati in serie – e sia pure a produzione limitata, il che li rende ancor più preziosi, in tutti i sensi. Questa è anche la ragione per cui anche sulla decima musa, il cinema, pesa, come un macigno, l’ombra di un elemento estraneo all’arte: la prevalenza del criterio commerciale. Un film, come un abito firmato, è destinato a circolare, a essere fruito da più persone, mediante il meccanismo della domanda e dell’offerta, che è il meccanismo fondamentale del mercato. Pure una cattedrale romanica o un dipinto rinascimentale sono fruiti da molte persone, ma non secondo un criterio commerciale. Nell’opera d’arte, l’autore va dritto al cuore del bello, disinteressatamente, e porta il pubblico a fare la stessa cosa: a distaccarsi dal bello puramente corporeo e ad intuire l’essenza della bellezza in se stessa; nel prodotto commerciale, invece, non si perde mai di vista il profitto, anzi, questo è il fattore decisivo. Un film viene realizzato, e realizzato in un certo modo, secondo certi criteri ispiratori,  se si pensa che darà un margine di profitto; e lo stesso vale per un vestito d’alta moda. Perciò un regista o uno stilista di moda raramente sono dei veri artisti e raramente creano delle autentiche opere d’arte. Hanno un pubblico da soddisfare e delle necessità di bilancio da rispettare. Non fanno beneficenza, vendono dei prodotti e devono pagare la macchina produttiva che li ha messi in grado di realizzarli. Anche il maestro di una bottega di pittura doveva pagare i suoi collaboratori, ma il criterio fondamentale era realizzare il bello assoluto, non il bello effimero, il bello usa-e-getta. E che altro è un vestito firmato, dopo che è stato indossato la prima volta, se non un pezzo da museo, che si potrebbe anche gettare, se non avesse un valore documentario, oltre che un valore commerciale intrinseco, esattamente come un titolo di borsa o un assegno bancario?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Pixabay from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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