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3 Settembre 2018Il Grande Inganno parte dal linguaggio: chi è padrone del linguaggio, è padrone del Discorso; e chi è padrone del Discorso, è padrone del mondo, perché il mondo crede a ciò che viene detto e ripetuto, non a ciò che è vero. Il linguaggio taroccato dai Grandi Ingannatori è costruito con sostantivi-truffa, verbi-truffa e aggettivi-truffa; e la sintassi è del pari falsificata. In questa palude, dove il senso delle parole si perde e diventa un altro da quello che realmente è, invasione diventa accoglienza, islamizzazione diventa pluralismo religioso, fratelli maggiori equivale a dire che Mosè redime quanto Gesù Cristo, misericordia significa salvezza senza pentimento né ravvedimento, inclusione vuol dire sacrificare la pace e i diritti della maggioranza alla tirannia delle minoranze aggressive, antifascismo consente di demonizzare qualunque avversario, dialogo e tolleranza vogliono dire rinuncia alla propria identità e sottomissione alle identità altrui. Questa trasformazione e inversione di significato sono rese possibili da un processo di relativizzazione della verità che è in atto, nella nostra cultura, da almeno quattro secoli, ma che nel XX secolo ha acquisito lo status di dogma politicamente corretto, e perciò inoppugnabile. La relativizzazione è partita dal linguaggio e ha investito, l’uno dopo l’altro, gli altri ambiti del conoscere e del sapere. Essa afferma che una stessa cosa può essere sia affermata che negata contemporaneamente, con pari diritto e con pari dignità intellettuale: in altre parole, è un ritorno in grande stile della sofistica, la corrente culturale e pedagogica che sorse ad Atene all’epoca della guerra del Peloponneso, ma che è tipica di tutte le epoche di decadenza intellettuale. Quando una società ha imboccato la china della decadenza, non sono solo le arti, le professioni, i commerci, le industrie e l’agricoltura a decadere; anche le intelligenze seguono la stessa strada, senza però volerlo ammettere, perché è altrettanto tipica la pretesa, da parte delle culture decadenti, di essere, invece, all’avanguardia, o, quanto meno, di essere più libere, più indipendenti, più spregiudicate rispetto al reale, di quanto non sia mai stata la cultura tradizionale.
La sofistica, pertanto, è anche e soprattutto una rivolta contro la tradizione: la tradizione è male perché rappresenta il passato, e nel passato, cioè quando la società era sana e la cultura era viva, nessuno si sarebbe mai sognato di negare il principio di non contraddizione, sostenendo che A può essere e contemporaneamente non essere, o può essere vero e non vero. Nelle società sane, infatti, il modello intellettuale è rappresentato dall’uomo di cultura; nelle società decadenti, dal sofista. Bisogna intendere la parola sofista nel significato più ampio: sofista è chiunque sostenga che A può essere contemporaneamente vero e non vero, secondo i punti di vista, cioè chiunque neghi scientemente e ostinatamente il principio di non contraddizione. A una società sana corrisponde una cultura sana, nella quale vige un sano realismo; e una cultura che è nemica di ogni ambiguità, come quando san Tommaso d’Aquino, per insegnare la filosofia e la teologia ai suoi studenti, posava sulla cattedra una mela, e diceva loro, semplicemente: Questa è una mela; chi non è d’accordo, può andarsene. Come dire: Qui non perderemo neanche un minuto di tempo a discutere con chi sostiene che questa è una pera o una nespola. Nella società decadenti, e perciò malate, come lo è la nostra, questo realismo riesce troppo duro da digerire, questo linguaggio provoca insofferenza: si vorrebbe relativizzare tutto per poter sostenere tutto e il contrario di tutto, in modo da poter sempre sgattaiolare da una parte, se dall’altra la via è preclusa. L’intellettuale decadente — l’intellettuale, non l’uomo di cultura; il vero uomo di cultura non è mai decadente, è sempre una persona viva e desta — vuole tenersi aperte diverse strade, diverse possibilità, perché teme, diversamente, di trovarsi intrappolato nelle conseguenze delle proprie scelte. In altre parole, vuole essere sempre in grado di spiccare il salto e passare dall’altra parte della barricata, qualora se ne presenti la necessità, con il minimo danno e il minimo disturbo. Soprattutto, vuole precostituirsi un alibi; vuole parare in anticipo le critiche, le obiezioni: Ma tu, come mai dici oggi il contrario di quel che sostenevi fino a ieri?; non gli piace dover confessare: Perché sono un verme e un ambizioso sfrontato, senza principi e senza dignità; molto più semplice e più elegante poter controbattere: Anche qui c’è il trucco, e si vede: egli utilizza la parola realtà, ma ciò che intende dire è verità. Ma io non mi sto contraddicendo; è il mondo in cui viviamo che è contraddittorio: in un tale mondo, la coerenza è un patetico sfoggio di testardaggine, e non aiuta a comprendere meglio la realtà, perché la realtà è multiforme, sfaccettata, mutevole. Per cui si può consentire che la realtà sia sfaccettata e mutevole, ma non che lo sia la verità, perché la realtà è un oggetto, la verità è un giudizio, cioè un atto della mente. E gli atti della mente son soggetti al principio di non contraddizione: non si può dire che A è anche B, non si può dire che una mela è una pera, o anche una pera. Se è una mela, è una mela; e se è una pera, è una pera. Tertium non datur.
Dobbiamo ammettere che anche noi, a suo tempo, siamo stati affascinati e sedotti dalla possibilità di porre in dubbio il principio d’identità e quello di non contraddizione e ritenere che una cosa possa essere e non essere contemporaneamente. Quel che ci ha fatto mutare opinione sono state l’assurdità delle conclusioni cui, così facendo, si va incontro, e anche la possibilità che ne viene ai cattivi maestri, i sofisti, di volgere a proprio vantaggio la dottrina del relativismo, distruggendo negli uomini ogni amore per la verità. Naturalmente, in filosofia, non è lecito negare una verità concettuale solo perché se ne temono le conseguenze pratiche, o perché si teme il cattivo uso che di quella verità potrebbe essere fatto. Precisiamo allora che, su di un piano teorico, conserviamo l’opinione che il principio di non contraddizione, sì, possa anche non applicarsi alla realtà in quanto tale, cioè a livello ontologico: perché dell’essere in quanto essere noi uomini, a dirla tutta, non sappiamo nulla, tranne ciò che l’Essere ritiene di farci sapere, mentre, per tutto il resto, il nostro sapere umano è frutto di ragionamenti umani, e l’essere in sé stesso non è affatto tenuto ad uniformarsi ad essi. Chi può dire se, al livello dell’essere, le nostre categorie concettuali e la nostra logica, basata, appunto, sul principio di identità e sul principio di non contraddizione, siano strumenti adeguati per descrivere il reale? Sta di fatto, però, che noi, proprio in quanto uomini, siamo immersi in una dimensione del reale che corrisponde al nostro universo concettuale, e che possiamo descrivere e indagare solo in base ad esso: perciò, ai fini pratici, anche la nostra filosofia non può essere altro che un tentativo di descrivere e analizzare il reale secondo la prospettiva che ci è consentita dalla nostra stessa natura. E al nostro livello di realtà e di comprensione, valgono il principio di identità e il principio di non contraddizione: A è A, e non è B. Chi nega questo doppio principio, bara al gioco, perché non dice, come dovrebbe dire, che la possibilità di negarlo si pone soltanto, e in via d’ipotesi, al livello dell’essere in quanto essere, ma non al nostro livello, di enti finiti e limitati, che possono ragionare unicamente in maniera finita e limitata. Al livello dell’essere, infatti, i due fattori che per noi sono decisivi, lo spazio e il tempo, vengono totalmente trascesi: ed è ovvio che fa molta differenza se si sta predicando qualche attributo di una cosa come essa è qui e ora, o come essa è stata o come sarà, magari in un altro luogo. Di un uomo, per esempio, è assurdo predicare, sul piano del finito, che egli è vivo e non vivo allo stesso tempo; ma sul piano dell’essere, che è il piano dell’assoluto, lo si può predicare come vivo fino a quando è legato alla vita del suo corpo mortale, e come non vivo fisicamente, ma vivo in senso assoluto, dopo che da quel corpo egli si è disciolto. Tutto dipende, dunque, da quale prospettiva si decide di assumere: l’onestà (o la disonestà) consiste nel chiarire (o non chiarire) se si sta predicando qualcosa di una cosa, sul piano del finito e dell’immanenza, o sul piano dell’assoluto e perciò della trascendenza.
Vale la pena di rileggersi quel passo del maestro di san Tommaso, Aristotele, nel quale il grande filosofo greco fa chiarezza sull’affermare e sul negare un certo predicato di una stessa cosa (Aristotele, Dell’interpretazione, a cura di Marcello Zanatta, Milano, Rizzoli, 1992, 8-9, pp. 91-95):
8. Unica è l’affermazione ed unica la negazione che significa una sola cosa di una sola cosa, sia essa un universale in forma universale o non, parimenti; per esempio: "ogni uomo è bianco — non ogni uomo è bianco, uomo è bianco — uomo non è bianco", se bianco significa una sola cosa
Se invece un solo nome sta per due cose, dalle quali non ne risulta una sola, non è unica l’affermazione. Per esempio, se si ponesse il nome "drappo" al cavallo e all’uomo, "il drappo è bianco" non sarebbe, questa, un’unica affermazione [né vi è una sola negazione]. Infatti non fa nessuna differenza dire questo oppure "l’uomo e il cavallo sono bianchi", e ciò non differisce in nulla dal dire "il cavallo è bianco e l’uomo è bianco". Se dunque queste enunciazioni significano molte cose e sono molteplici, è chiaro che anche la prima o significa molte cose o non significa niente, giacché non esiste qualche "uomo-cavallo". Di conseguenza neppure in queste enunciazioni è necessario che un’enunciazione della contraddizione sia vera e l’altra falsa.
9. Nel caso, dunque, delle cose che sono e che sono state è necessario che l’affermazione o la negazione sia vera o falsa; e nel caso delle enunciazioni contraddittorie relative agli universali esperti [crediamo trattarsi di un refuso per esperiti] in forma universale ed in quello delle enunciazioni contraddittorie relative agli individui, sempre l’una è vera e l’altra falsa, come s’è detto. Invece nel caso delle enunciazioni contraddittorie relative agli universali espressi in forma non universale non è necessario. E s’è detto anche di queste.
Ma nel caso delle cose individuali e future non è nello stesso modo. Se infatti ogni affermazione o negazione è vera o falsa, è necessario anche che ogni cosa o sussista o non sussista. Se infatti uno dirà che ci sarà una certa cosa ed un altro dirà che questa medesima cosa non ci sarà, è chiaro che uno o l’altro di essi dice necessariamente il vero, se ogni affermazione è vera o falsa: giacché entrambe le cose non sussisteranno contemporaneamente in tali casi…
Di conseguenza, per fare un esempio di attualità, noi possiamo anche dire che il matrimonio è l’unione, sancita per legge, di un uomo con un altro uomo, anche se ciò non si è mai visto né udito in alcuna società umana, prima d’ora, e quindi neppure nel linguaggio; ma non possiamo chiamare matrimonio sia quello di un uomo con un uomo, sia quello di un uomo con una donna, perché unica è l’affermazione ed unica la negazione che significa una sola cosa di una sola cosa, come dice Aristotele, non solo sulla base della logica, ma anche del senso comune. Una cosa non può essere anche un’altra cosa nello stesso tempo, a meno che noi vogliamo introdurre, scientemente e lucidamente, la pazzia nel mondo, attraverso un linguaggio che non ha più alcun significato. Infatti, se si ponesse il nome "drappo" al cavallo e all’uomo, "il drappo è bianco" non sarebbe, questa, un’unica affermazione, ma sarebbe un’affermazione doppia, contraddittoria e perciò ambigua: si starebbe parlando dell’uomo o del cavallo? Nessuno potrebbe dirlo con certezza. Specificarlo, sarebbe la stessa cosa che ammettere che un solo nome non può designare due oggetti diversi: e allora a che scopo chiamare drappo sia il cavallo che l’uomo? Questa, ripetiamo, non è solamente logica, la vecchia buona logica di Aristotele; non è solo realismo, il sano realismo di san Tommaso d’Aquino: è anche il modo di parlare e di ragionare che scaturisce dal senso comune. Eppure, la pazzia è arrivata così innanzi, nel linguaggio che usiamo abitualmente, che non ci accorgiamo più neppure di servirci di espressioni che stridono con la logica, il realismo e il senso comune. Omosessualità, per esempio: è una parola truffa, perché a ben guardare, è una parola priva di senso, come drappo per indicare sia il cavallo che l’uomo. La sessualità, infatti, è la natura della relazione che esiste fra il maschile e il femminile. Pertanto è evidente che la relazione fra due sessi uguali non è sessualità, ma un’altra cosa. Bisognerà chiamarla in un altro modo: omoerotismo, omofilia, e via dicendo. Se non lo si fa; se ci si serve abitualmente della parola omosessualità, lo si fa in mala fede: si vuol far passare l’idea che la relazione uomo-uomo (e donna-donna) sia una relazione di natura sessuale, mentre non lo è, visto il significato che la lingua attribuisce alla parola sessualità. E la ragione di questa malafede è evidente: si vuole indurre le persone a pensare all’omosessualità come a una forma di sessualità del tutto equivalente alla eterosessualità. Ma eterosessualità è una parola inutilmente rafforzativa, come sarebbe l’espressione a me mi: perché sessualità vuol dire relazione del maschile col femminile, e null’altro. Non parliamo, poi, di parole come bisessualità o transessualità: non hanno senso, semplicemente. Si dovrebbe parlare, semmai, di bi-erotismo e di trans-erotismo: allora sì, avrebbero un senso. La natura di questa mistificazione del linguaggio è ideologica: si vuol manipolare il pensiero, alterando il senso delle parole. Per lo stesso motivo, è inaccettabile la parola gay, che vuol dire allegro: perché tale è la definizione che si vuol dare, in chiave auto-celebrativa, di ciò che logica e senso comune definiscono, oggettivamente, inversione…
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