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Occorre ripristinare il primato del reale sul pensiero

Il male più grande che il pensiero moderno ha causato alla società e alla cultura è stato quello di aver affermato il primato del pensiero sul reale, invertendo il rapporto naturale fra i due e gettando in soffitta, nello spazio di pochi anni, una tradizione antica duemila anni. Salvo rare eccezioni, i filosofi, da quando è nata la filosofia, hanno visto nel pensiero lo strumento per esplorare il reale, ma non la garanzia della realtà di questo: non hanno mai pensato, cioè, che il pensiero garantisca l’esistenza delle cose, ma, al contrario, che l’esistenza delle cose garantisce la possibilità del pensiero. Se il monde sussiste, non è perché c’è il pensiero; il pensiero invece esiste perché c’è il mondo. Questa è stata la base di ogni sana filosofia, dai presocratici al rinascimento. Poi, nel 1600, arriva la cosiddetta rivoluzione scientifica, arrivano i Cartesio, i Galilei, i Bacone, gli Spinoza, i Leibniz, i quali, per quanto possano essere in disaccordo fra loro su delle singole questioni, condividono però l’orizzonte complessivo, quello che gli storici della filosofia chiamano l’avvento del razionalismo. Da quel momento, la filosofia capovolge letteralmente la sua prospettiva e opera una "rivoluzione copernicana", che, in una progressione graduale, ma irresistibile, spazzerà via, uno dopo l’altro, tutti i puntelli del pensiero realista, per sostituirli con un razionalismo sempre più esasperato. Il culmine di questo processo arriverà due secoli dopo, con l’idealismo e con la pretesa di Fichte, Hegel e Schelling che non sia l’essere a creare il pensiero, ma il pensiero a creare l’essere. Oltre questo limite non si poteva andare, e infatti n on si è andati; si poteva però fare ancora molta strada sulla via della distruzione della concezione realista, e la si è fatta, con tenacia, con perseveranza, si direbbe con zelo. Si potevano mettere in dubbio o far cadere gli ultimi capisaldi del realismo: primo fra tutti, l’io della coscienza, caposaldo al quale neppure Cartesio aveva voluto rinunciare, anzi, che il filosofo francese aveva posto a garanzia del conoscere, e perfino dell’essere. Ma se nulla, di ciò che è reale, è come appare; se nulla può essere accertato in senso assoluto, ma solo pensato in va teoretica; se quello che conta non è che le cose abbiano un senso, ma che abbia un senso il discorso sulle cose; se, infine, nessuno può dire che noi siamo, ma soltanto prendere atto che in quello che diciamo "io" vi è un fascio di idee e di associazioni mentali, oltre le quali nessuno può dire se esista davvero il noumeno, la cosa in sé: allora, chi può dire con certezza se non viviamo, come a un certo punto azzarda Shakespeare ne La Tempesta, all’interno di un sogno, in un mondo fatto della stessa, impalpabile sostanza di cui sono fatti i sogni? Chi può garantire qualsiasi cosa, tranne ciò che si può empiricamente constatare, ma solo nell’istante presente e alle condizioni presenti, e ciò che è incontrovertibilmente certo sul piano della logica, in particolare della logica matematica, ma non lo è affatto sul piano di quella che siamo soliti chiamare la realtà concreta? Tutto diventa opinabile, tutto diventa aleatorio, tutto diventa soggettivo; ogni cosa sfuma, si allontana, si perde in una nebbia, in una dimensione "altra", che si sottrae ai nostri sforzi conoscitivi, che si nega al nostro desiderio di verità. Nulla è come sembra e di nulla si può avere alcuna certezza, tranne che del qui e ora: tale sembra essere il punto d’arrivo del pensiero contemporaneo. Che, infatti, nell’ultimo mezzo secolo, non ha saputo far molto di meglio che decostruire tutti i sistemi di verità e di certezza e affermare la propria debolezza costituzionale, la propria congenita impotenza, però con la sciocca petulanza di chi ha fatto chi sa mai quale sublime scoperta, solo perché si è specializzato nel fare le pulci a tutti gli altri. Valga per tutti l’esempio del cosiddetto "pensiero debole" e la vastissima, frivola e inutile opera di Umberto Eco: una monotona, ossessiva, esasperante ripetizione dello stesso concetto: le cose si possono ridurre a segni, la realtà vera non è quella che, ingenuamente, ci suggeriscono i sensi, ma quella a cui decidiamo di dare un determinato significato; se cambiano il valore dei segni, cambiano la realtà. Si tratta di un giochino così ingegnoso, che Eco ha dedicato la sua intera esistenza a smontarlo e rimontarlo all’infinto, in combinazioni innumerevoli, per far vedere quanto era bravo; ma è un gioco a somma zero, e infatti si riduce all’assunto che le cose sono nomi. Così, dal razionalismo si passa alla logica del linguaggio, e infine al nominalismo. Noi non abbiamo a che fare con le cose, ma con i segni; e al posto delle cose, ci troviamo alle prese con dei semplici nomi.

Le conseguenze del totalitarismo razionalista, perché di questo si tratta, sono state enormi, non solo nel campo del pensiero, ma in tutti i campi della vita, dall’economia all’arte. L’economia è stata gradualmente soggiogata dalla finanza: non più dai beni che possono essere rappresentati dal denaro, ma dal denaro, cioè da un segno convenzionale, che rappresenta i beni, e alla fine dal segno slegato completamente dai beni, cioè dal mondo delle cose. La finanza odierna è il regno dell’astrazione: sposta gigantesche somme di denaro che non esiste, ma che tuttavia esercita un dominio assoluto, insindacabile, tirannico, sui beni reali e sulle persone fisiche, le quali non hanno mai visto, né sperimentato i fiumi di ricchezza che sono nelle mani delle grandi banche, ma che non trovano alcuna corrispondenza con il mondo reale, e tuttavia vi si debbono sottomettere. Se su un pezzo di carta c’è scritto che un piccolo risparmiatore deve pagare un certo interesse mensile alla banca per il prestito a suo tempo ottenuto, ebbene il risparmiatore deve pagare in moneta reale, cioè corrispondente ad un pari quantitativo di beni o servizi; mentre nessuno va a verificare se la banca possiede davvero il denaro che dice di avere, in base alla convenzione dei titoli e delle azioni, che sono astrazioni pure e semplici. Nel campo dell’arte, si passati gradualmente da una descrizione delle cose reali ad una rappresentazione sempre più astratta di esse, anzi, ad una rappresentazione sempre più astratta di ciò che le cose suscitano nel soggetto a livello di emozioni. Si prenda un romanzo come Ulisse di Joyce: la realtà vi si attenua, vi si scioglie e si smaterializza, per cedere il posto alle associazioni mentali del protagonista, che "filtra" la realtà in maniera del tutto personale e imprevedibile. Non c’è più un criterio di certezza, non c’è più un criterio di verità e non c’è più un criterio di sanità mentale. I pensieri di un dormiente valgono quelli di un uomo sveglio; i pensieri di un pazzo, valgono quelli di un uomo lucido e sano. Che cos’è la pazzia, del resto, dicono i philosophes del XX secolo, tipo Foucault, se non una malvagia invenzione della società borghese, per sua natura repressiva e nemica della libertà e della spontaneità dell’individuo? Il signor Basaglia porterà questa brillante intuizione alle sue logiche conseguenze pratiche e farà chiudere i manicomi, ragion per cui viene tuttora ricordato come un eroe del nostro tempo, un liberatore degli oppressi. Oppure prendiamo il cinema: per quale strana pretesa lo spettatore dovrebbe pretendere che un film sia comprensibile, che segua un filo logico, che si attenga al principio di realtà? Macché: tutte superstizioni del tempo antico. In film come L’angelo sterminatore di Buñuel non si capisce nulla, e così deve essere: la pretesa di capire è una pretesa reazionaria, bigotta e irragionevole. Il razionalismo ha concluso la sua parabola e divora se stesso. Come ha osservato Corrado Gnerre, l’affermarsi del pensiero razionalista nella sfera estetica ha pervertito gradualmente l’idea dell’arte bella nella pratica dell’arte brutta. L’arte moderna è brutta, sempre più brutta, perché, a un certo punto, rinuncia a rappresentare le cose e incomincia a rappresentare le nostre impressioni soggettive di esse. Se per me il giardino che si vede dalla finestra del mio studio è un groviglio di linee spezzate, di curve tortuose, di cerchi e di triangoli, di colori disarmonici, di figure indistinguibili, ebbene chi sei tu per giudicarmi, per dirmi che questa non è arte, che non è una legittima rappresentazione della realtà come io la vedo e la percepisco? Lo stesso discorso vale per Il battello ebbro di Rimbaud: la realtà non è quella che è, ma quella che a me pare che sia, fosse pure un "viaggio" nei paradisi artificiali della droga. E le cose sono arrivate al segno che qualunque tentativo di tornare all’idea e alla pratica tradizionale dell’arte viene guardato con ironia e con sovrano disprezzo, ignorato dalla critica, boicottato dagli editori, dagli impresari delle gallerie e dai produttori cinematografici.

Sarebbe ora, pertanto, di prendere atto che il pensiero moderno è, di fatto, un anti-pensiero; che rende impossibile pensare qualcosa di positivo, perché, se si accetta il paradigma del quale è l’espressione, nulla si può dire di certo, tanto meno in senso generale; che, di conseguenza, si è lasciato cadere il discorso sull’essere, che è il discorso filosofico sul quale si regge qualsiasi altro discorso. Bisognerebbe anche avere il coraggio di trarre le conclusioni pratiche dalla presente tirannia del razionalismo, che ha condotto all’economia finanziaria e speculativa, da un lato, e all’arte astratta e informale, dall’altro (solo per citare due fra i casi più vistosi; ma si potrebbe allargare il discorso a tutto il resto, dalla televisione allo sport, e dalla scienza alla religione). Il fatto è che l’anima non può vivere senza la verità, così come non può vivere senza la bellezza. E anche se la verità fosse solo una speranza, perché, di fatto, è difficile giungervi, o vi si giunge solo imperfettamente, l’idea che essa esiste, al di sopra delle opinioni contingenti e delle impressioni contraddittorie, è di fondamentale importanza per assicurare alla vita umana un orizzonte di senso. Allo stesso modo, può darsi che la bellezza sia qualcosa di opinabile e di perennemente incompleto e imperfetto, nondimeno gli uomini hanno bisogno di sapere che essa esiste, che non è una mera astrazione, che non è una semplice illusione, perché solo se essa esiste, ha un senso che le cose siano ordinate verso la bellezza. Bellezza implica ordine e armonia; bruttezza è sinonimo di caos e sproporzione. Osserviamo la natura: in essa vi sono una proporzione, un’armonia, e quindi una bellezza innegabili, dal fiore di campo alle più immense e remote galassie che brillano in una chiara notte stellata. E se ingrandiamo il fiore al microscopio elettronico, o se osserviamo la nebulosa per mezzo di un potente radiotelescopio, quel che vediamo sono un ordine, una proporzione, un’armonia ancor maggiori di quelle che potevamo apprezzare a occhio nudo; sempre più delicati, sempre più perfetti. Così come sono armoniose le formule matematiche mediante le quali si può esprimere la realtà biologica del fiore, o la realtà chimica dei corpi celesti. Questo significa che il bisogno di bellezza fa parte della natura umana, così come ne fa parte il bisogno di verità. Per quanto ardua possa essere la ricerca della verità, l’istinto ci dice che la verità esiste: altra cosa è affermare che la possiamo cogliere sino in fondo. Il mondo materiale è il regno delle cose parziali, contingenti, imperfette; ma ciò di cui ha sete l’anima nostra è un regno nel quale tutto è come deve essere, secondo un’armonia perfetta, una bellezza intramontabile.

Proviamo a riflettere. La verità è la corrispondenza fra la cosa e il giudizio. Ma il giudizio di chi? È chiaro che nessuna mente umana possiede una lucidità tale da cogliere quella corrispondenza al 100%. Solamente Dio possiede uno sguardo così acuto, così perfettamente trasparente. Le menti umane devono accontentarsi di una verità imperfetta, perché imperfetto è tutto ciò che appartiene a questo mondo, pensiero compreso. Questo, però, non ci autorizza a disprezzarlo, da un lato, e nemmeno ad assolutizzarlo, dall’altro. Esaltandolo al di sopra delle sue possibilità, i razionalisti hanno finito per distruggerlo, perché hanno fatto emergere, impietosa, la distanza abissale che separa le sue smisurate pretese dalle sue effettive possibilità. Il razionalismo diventa empirismo, e alla fine scetticismo, da un lato (la parabola da Locke a Hume), dall’altro diventa logica formale o analisi del linguaggio (la parabola da Russell a Wittgenstein): ma in nessun caso mantiene le sue promesse, sempre finisce per dare molto meno di quel che aveva lasciato sperare. È evidente che ci troviamo in un vicolo cieco, e che, non potendo andare avanti, invece di insistere a dar testate nel muro, sarebbe cosa di buon senso ritornare indietro sui propri passi, e cercare il puto del sentiero in cui abbiamo sbagliato e siamo andati fuori strada. E il punto è quello in cui la filosofia moderna ha dato la precedenza al pensiero rispetto al reale, e ha fatto dipendere il reale dalla garanzia che, di esso, poteva dare il pensiero. È stato un pessimo affare, perché, dopo averci fatto intravedere la possibilità d’immensi guadagni, ci ha lasciati in piena bancarotta, fra le macerie delle nostre illusioni perdute e, per soprammercato, intristiti dal dilagare di una bruttezza sempre più sfacciata, si potrebbe ormai dire programmatica. Per esser accettata come arte, oggi un’opera deve disprezzare la bellezza delle cose e perdersi negli astratti furori dell’inesprimibile: paradossalmente, l’arte moderna pretende di far vedere che non si può più dipingere un quadro, né scrivere un romanzo, né comporre una poesia. Analogamente, il pensiero moderno pretende di dimostrare che il pensiero stesso è un’illusione, a meno che si confessi debole, cioè che rinunci alla verità. Ma un pensiero che non mira alla verità, né si sforza di stabilire la giusta corrispondenza fra la cosa e il giudizio, non è più pensiero: è un’altra cosa; come un’arte che rinunci alla bellezza, non è più arte. Per questa via, si sta davvero realizzando la distopia di Umberto Eco: noi non abbiamo più a che fare con le cose, ma coi nomi che abbiamo dato loro. Questa, però, non è una situazione normale: se ci stiamo adattando, è perché stiamo facendo come quei pesci che si adattano a vivere in un lago avvelenato. Per sopravvivere siamo diventati mostruosi. Tuttavia, non sarebbe meglio ripulire il lago dai veleni?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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