
Omaggio alle chiese natie: San Francesco
29 Luglio 2018
E se anche gli scienziati leggessero un poco Omero?
29 Luglio 2018Perché la Francia è considerata, oggi, a livello geopolitico, una "media potenza", ossia l’equivalente del termine "grande potenza" adoperato prima della Guerra fredda, cioè prima che il mondo venisse sottomesso alla logica di due sole superpotenze, gli Stati Uniti e l’Unioni Sovietica, e infine, dopo il 1990, alla logica di una sola superpotenza planetaria, quella americana? Perché la Francia ha conservato alcuni sparsi, ma preziosi brandelli del suo passato impero coloniale, nonché un sistema monetario speciale con alcune nazioni africane, che le consentono di imporre ad esse il suo franco, mentre, nell’Unione europea, essa ha adottato l’euro? E perché ha conservato una catena di isole e di basi scientifiche e militari, navali ed aeree, dai Caraibi all’Oceano Indiano e dal Pacifico all’Antartide, che le consentono ancora una politica internazionale di ampio respiro? E perché occupa un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, insieme a Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia e Cina? Infine, perché possiede un arsenale nucleare, che sottopone a dei test di tanto in tanto, fra gli atolli della Polinesia, il che ne fa un membro a pieno titolo del ristretto club delle potenze atomiche, in possesso di un’arma di dissuasione estremamente temibile? Potremmo riassumere tutte queste domande in un unico interrogativo, formulandolo in questo modo: per quale ragione la Francia, sconfitta disastrosamente nella Seconda guerra mondiale, e per risorse, per popolazione, per capacità industriale tutt’altro che una superpotenza: per quale ragione un Paese così si trova ancora ad occupare una posizione eminente dal punto di vista politico internazionale, che le consente invidiabili margini di autonomia, tanto più che, fin dai tempi di de Gaulle, essa ha espulso le basi militari straniere, cioè americane, pur restando a far parte del sistema di difesa integrato del Patto Atlantico?
Per tentare di rispondere, rifacciamoci a quanto scrive lo storico Claude Bertin nel libro La vera storia dello sbarco in Normandia (titolo originale: Histoire du débarquement, Editions Presence de l’Histoire, 1962; traduzione dal francese, Ginevra, Editions de Cremille, 1969, pp. 154-157):
(…) Churchill ed Eisenhower ricevettero De Gaulle il 4 giugno [1944]. Quando lo convocarono, lo sbarco era stato fissato per il giorno 5, e quindi la notizia gli veniva data con un anticipo di 24 ore. Forse non gli avrebbero nemmeno detto nulla se non avessero avuto bisogno di lui. Scrive Eisenhower nelle sue memorie: "Il nostro piano teneva anche nel dovuto conto l’appoggio che ci avrebbero dato i partigiani francesi; ci era noto che essi erano particolarmente numerosi in Bretagna e nelle zone di montagna e collina prospicienti il Mediterraneo. Di conseguenza un conflitto aperto con de Gaulle avrebbe potuto crearci grosse difficoltà, con amari risentimenti da una parte e dell’altra e inutili perdite di vite umane". Ma in più gli Alleati volevano che de Gaulle partecipasse ad una trasmissione radio prevista per il giorno X: avrebbe dovuto parlare dopo il re di Norvegia, la regina di Olanda, la granduchessa del Lussemburgo, il primo ministri del Belgio e Eisenhower. Quest’ultimo mostrò a de Gaulle il testo del proclama che aveva l’intenzione di leggere alla radio al popolo di Francia; ma il generale francese non lo gradì, lo interpretò anzi come una pesante interferenza nella politica interna di Francia.
In realtà era tutto il contrario. In base alle istruzioni ricevute da Roosevelt, Eisenhower lasciava i francesi liberi di scegliersi da soli il proprio governo. Il proclama radio aveva un valore unicamente militare e de Gaulle teoricamente avrebbe anche potuto accettarlo quando era soltanto presidente del Comitato Francese di Liberazione Nazionale. Ma dal 15 maggio il C.F.L.N. sui era tramutato in G.P.R.F., Governo Provvisorio della Repubblica Francese. Il G.P.R.F. aveva sede provvisoria ad Algeri e i suoi rapporti con gli Anglo-Americani erano andati vieppiù deteriorandosi, tanto che gli Alleati avevano stabilito che nessun telegramma cifrato fosse più trasmesso fra Algeri e Londra. De Gaulle aveva considerato tale decisione un affronto per la Francia. Fin dal 25 aprile, del resto, la Missione Militare di Collegamento Amministrativo aveva esaminato con gli ufficiali alleati delegati agli Affari Civili una questione importante: chi avrebbe nominato i nuovi funzionari francesi man mano che il territorio fosse stato liberato? Gli Alleati erano disposti a non applicare il sistema dell’Amgot (Allied militari government of occupated territories), come invece avvenne in Italia. Se infatti fosse stato accettato tale principio, è chiaro che anche la Francia sarebbe stata considerata alla stregua di un territorio conquistato, e con come un Paese alleato. Roosevelt era favorevole all’applicazione del regime dell’Amgot, dato che non aveva simpatia per il generale. Churchill, benché spesso esasperato dalle pretese del generale, lo capiva di più e forse segretamente lo ammirava. Per Churchill, de Gaulle era una specie di Giovanna d’Arco ingombrante: "Soprannominiamola Giovanna d’Arco e cerchiamo poi dei vescovi per metterlo al rogo!". Eisenhower, trovandosi sul posto, riusciva a capire meglio di Roosevelt il punto di vista francese, anche se non era facile. Infatti, per esempio, il 15 maggio de Gaulle da Algeri impartiva l’ordine di rompere la relazione con gli Alleati. Il giorno successivo spiegava la ragione del provvedimento: era una rappresaglia contro la sospensione delle comunicazioni fra Londra e Algeri che de Gaulle pretendeva fossero ristabilite. Per tutti i giorni che seguono, gli Alleati tentano di far rientrare questo atteggiamento, ma sono divisi anche fra loro. Infatti, mentre gli inglesi si mostrano più concilianti, gli americani non si preoccupano molto del problema. E de Gaulle non perdona inoltre a questi ultimi di avere stampato per conto proprio le banconote destinate alla Francia.
Quando de Gaulle arriva a Londra il 4 giugno con l’aero personale di Churchill, il G.P.R.F. non è ancora stato riconosciuto né dagli inglesi né dagli americani. I colloqui del 4 giugno mancano di cordialità, come abbiamo già visto. L’indomani de Gaulle rifiuta gli ufficiali di collegamento che gli sono stati assegnati e rifiuta pure di parlare alla B.B.C., finché le libere comunicazioni non fossero ristabilite fra Londra e Algeri e il G.P.R.F. fosse stato riconosciuto. Alla fine, de Gaulle parlerà alla radio il 6 giugno, ma da solo, nel pomeriggio inoltrato. Accetterà pure 20 ufficiali di collegamento su 160, a patto che non assolvessero incarichi amministrativi per conto degli Alleati. Il messaggio del 6 giugno ignorava completamente il puto di vista americano. De Gaulle, capo di Stato, si rivolge al suo popolo: sono i francesi che riconquistano la Francia. Ma il 6 giugno, fra le truppe che sbarcano, vi sono solamente 180 francesi. Comunque, l’oratoria, la personalità, la capacità di fare leva sullo spirito nazionalista di de Gaulle permettono alla Francia, praticamente rimasta senza forze armate, di ridivenire un Paese sovrano che prende parte agli ultimi combattimenti della guerra e alla vittoria finale. Saranno comunque i paracadutisti francesi del colonnello Bourgoin a porre piede per primi sul suolo di Francia.
Il punto di svolta è tutto qui, fra il 4 e il 6 giugno 1944. In quelle quarantotto ore de Gaulle, arrivato a Londra alla vigilia dello sbarco in Normandia, che si effettuerà con forze pressoché interamente angloamericane e del quale viene messo al corrente con sole 24 ore di anticipo, come se di lui non ci si fidasse e come se la sua fosse una quantité néglieable (il che è oggettivamente fin troppo vero), e arrivato senza nemmeno un suo aero personale, ma ospite su quello di Churchill, quindi praticamente nelle condizioni di un postulante col cappello in mano, riesce a ribaltare la situazione di centottanta gradi, e ciò nonostante la personale antipatia di Roosevelt nei suoi confronti, ossia del socio di maggioranza degli Alleati, peraltro cordialmente ricambiata. In quelle quarantotto ore, de Gaulle ottiene praticamente tutti quel che gli serve perché la Francia venga restaurata nella sua antica posizione di grande potenza e, soprattutto, perché sia riconosciuta come socio alla pari dello schieramento alleato: e ciò benché meno di 200 soldati francesi prendano parte allo sbarco e, sul suolo francese, egli non controlli ancora neppure un chilomentro quadrato di territorio (i partigiani francesi sono attivi, ma agiscono con la tecnica del mordi e fuggi e, inoltre, non tutti riconoscono De Gaulle quale capo supremo). Addirittura, la sua pretesa di essere considerato il capo della Francia è parecchio temeraria: dopotutto, si è proclamato da solo capo di un fantomatico governo provvisorio che non esercita la sua autorità su nessun lembo del territorio metropolitano e che non è stato votato, né riconosciuto formalmente, da un solo cittadino francese. Tutto quello che ha da gettare sul piatto della bilancia sono le passate benemerenze democratiche della Francia; l’essersi il governo francese schierato a fianco della Gran Bretagna sin dal 1° settembre 1939, quando Hitler attaccò la Polonia; e l’aver offerto — molto malvolentieri — una collaborazione in Africa settentrionale nel 1943, per la conclusione della campagna contro gli italo-tedeschi in Libia e, poi, per lo sbarco in Sicilia. In effetti, poco e niente, in uno scontro di titani, quale è stato la Seconda guerra mondiale, dove ha voce in capitolo solo chi può vantare una effettiva capacità di disporre della forza militare necessaria per imporsi. E de Gaulle, questa forza, non ce l’ha. Peggio che peggio: in Francia esiste un governo francese, dopotutto, quello del maresciallo Pétain: ed è un governo che ha collaborato con i tedeschi e che ha amministrato gran parte dell’impero coloniale, senza collaborare con la causa alleata, anzi, tentando di ostacolarla (come è accaduto per la breve, ma sanguinosa campagna di Siria, nota come Operazione Exporter, nel 1941). E non solo Pétain è stato alleato di Hitler e Mussolini, e ha spinto il suo collaborazionismo fino ad attuare una decisa politica antisemita; ad inasprire le relazioni tra de Gaulle e gli Alleati c’è anche il doloroso ricordo di Mers-el-Kebir, il proditorio e cruento attacco della marina britannica contro la flotta francese del Mediterraneo. Ci sarebbero pertanto tutte le condizioni perché gli Alleati, al momento di effettuare lo sbarco in Normandia, considerino la Francia semplicemente come un territorio da occupare, e il solo governo francese internazionalmente riconosciuto, quello di Pétain, come un governo nemico. Eppure, de Gaulle riesce a capovolgere una situazione così sfavorevole e a conseguire praticamente tutti i suoi obiettivi: dal riconoscimento del suo governo provvisorio, a quello del ruolo di cobelligerante; addirittura, saranno gli americani a rifornire interamente di equipaggiamento le truppe francesi impegnate nella fase finale della campagna d’Occidente. Un bell’esempio di come, secondo Machiavelli, si può conquistare uno Stato servendosi delle arme altrui invece che delle proprie: il segretario fiorentino si sarebbe tolto tanto di cappello. I francesi di de Gaulle entreranno in territorio tedesco armati, calzati e vestiti dagli americani, eppure saranno a tutti gli effetti la quarta potenza alleata, accanto ad americani, britannici e sovietici; e alla Francia spetterà la sua zona di occupazione sia in Germania che in Austria, e così pure il suo settore di Berlino da amministrare, dopo la caduta della capitale del Terzo Reich. Infine, alla firma dei trattati di pace, nel 1947, la Francia siederà da vincitrice, accanto alle altre potenze, e detterà, con esse, le sue condizioni agli sconfitti (Italia, Romania, Ungheria, Bulgaria, Finlandia; Germania esclusa perché totalmente debellata e priva di un governo); e la sede dei trattati sarà proprio Parigi. Una bella soddisfazione, per una capitale che era stata per quattro anni sotto il tallone dell’occupazione tedesca. Come ha potuto realizzare, il generale francese, un simile miracolo diplomatico? Perché, una volta capito questo, si comprende anche il recuperato ruolo di "media potenza" della Francia d’oggi, con il suo arsenale nucleare e il suo seggio permanente al Consiglio di Sicurezza del’O.N.U.
Per capire come questo piccolo miracolo sia stato possibile, sarà utile stabilire un confronto con la situazione italiana. L’Italia, dal punto di vista degli Alleati, era, come la Francia, una grande potenza — tale il suo status riconosciuto fra il 1919 e il 1940 – che, alla prova delle armi, aveva fallito, quindi non era più "meritevole" di conservare il proprio rango internazionale e doveva adattarsi a svolgere un ruolo secondario nel mondo futuro, rinunciando alla propria indipendenza e rientrando nella sfera d’interessi angloamericana. Il re, Vittorio Emanuele III, aveva condiviso le responsabilità di Mussolini e controfirmato la dichiarazione di guerra del 1940 (nonché la successiva dichiarazione di guerra agli Stati Uniti, dopo Pearl Harbor). Al momento dell’invasione alleata e dell’armistizio dell’8 settembre 1943, dunque, egli era, ai loro occhi, in una posizione paragonabile a quella di Pétain. Il disprezzo con cui lo trattarono gli Alleati (come quando il generale MacFarlane gli si presentò a colloquio in calzoncini corti e maniche di camicia) era l’espressione del disprezzo che essi avevano per l’Italia, considerata una nazione vinta e indegna di essere considerata alleata alla pari, nonostante il rovesciamento di fronte e la dichiarazione di guerra alla Germania. Il fatto è che De Gaulle non accettò mai di farsi trattare come un subordinato o come uno sconfitto e pretese sempre, perfino a rischio di apparire patetico, un ruolo paritario rispetto agli Alleati. Non aveva una capitale, né un esercito, né una finanza, e neppure un aereo per recarsi a Londra, eppure si considerava il capo di una futura Francia vittoriosa, e il suo orgoglio si impose al rispetto di Churchill e Roosevelt (a Stalin, della Francia, non gliene importava nulla: lui giudicava le cose molto concretamente, come quando chiese: quante divisioni ha il Vaticano?; e siccome la Francia, nel 1944, divisioni non ne aveva, per lui non contava niente). Ma, naturalmente, il diverso trattamento ricevuto dall’Italia e dalla Francia non è dovuto solo al carattere dei rispettivi leader. Dopotutto, un governo italiano perfettamente legale esisteva, effettivamente, nel Sud; esisteva perfino un piccolo esercito, schierato contro i tedeschi; e questo governo aveva consegnato agli Alleati, per il comune sforzo bellico, tutta la sua flotta, che era, o era stata, a un certo momento, la più potente del Mediterraneo; inoltre, al Nord c’erano i partigiani, che combattevano per la causa alleata. Di più: fin dall’inizio della guerra, fin dal 10 giugno del 1940, settori delle Forze armate italiane avevano collaborato con gli Alleati, come rivelerà implicitamente l’articolo 16 del Trattato di pace; e questo, che si chiama, fino a prova contraria, alto tradimento, dal punto di vista alleato avrebbe dovuto costituire una grossa benemerenza. De Gaulle non aveva alcuno di questi elementi a suo favore: la grandezza, o anche solo la sovranità, della Francia era tutta da ricostruire, e dipendeva interamente dalla buona volontà alleata. Sul piatto della bilancia egli non poteva gettare altro che il fatto di non essersi arreso dopo Dunkerque e di non aver accettato l’armistizio del 1940; restava però il fatto che il governo legale della Franca si era arreso e aveva collaborato coi Tedeschi per quattro anni. Tutto sommato, Vittorio Emanuele III aveva in mano carte migliori di quelle di de Gaulle nel 1944; ma il fatto è che le giocò malissimo. Il suo primo errore fu quello di non aver abdicato fin da subito e non aver ceduto la corona a suo figlio Umberto, il quale godeva di una credibilità assai superiore alla sua (un errore che, alla fine, significò anche la fine della monarchia, nel 1946). Oltre a questo, non ebbe la fierezza né l’iniziativa che le circostanze richiedevano; non somigliò in nulla a quello che era stato nel 1917, subito dopo Caporetto, quando si era imposto al rispetto degli Alleati alla conferenza di Peschiera. Del resto, quella dell’8 settembre era stata una resa senza condizioni.
In definitiva, quel che fece la differenza fra il diverso destino dell’Italia e della Francia alla conclusione della Seconda guerra mondiale fu soprattutto il calcolo delle potenze vincitrici: e fu allora che si vide, per chi volle vederlo, ciò che quasi tutti si erano sempre rifiutati di ammettere: che gli Alleati non avevano fatto la guerra solo per abbattere il fascismo, ma proprio per abbattere l’Italia. Come grande potenza, indipendente e dotata di margini d’iniziativa autonoma, essa doveva sparire. Per questo fu privata del suo impero coloniale, della flotta, e amputata di una fetta del suo territorio nazionale (non si dimentichi che tornò in possesso di Trieste solo nel 1954). Anche la Francia, come grande potenza, era finita (lo si era già visto nel 1870, e nel 1914 solo un autentico miracolo le aveva evitato il destino che poi subì nel 1940), però agli angloamericani faceva comodo restaurarla, perché ciò rientrava nel loro disegno di ridefinizione degli equilibri mondiali. Avevano bisogno, insomma, di una finta media potenza che tirasse fuori dal fuoco, al posto loro, ma sostanzialmente per conto loro, le castagne bollenti in talune situazioni internazionali. Il suo seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U., con diritto di veto, faceva comodo per mettere in minoranza l’Unione Sovietica (cui si aggiunse più tardi la Cina comunista); il suo arsenale nucleare faceva comodo in funzione antisovietica; e anche in alcuni teatri coloniali e postcoloniali, come il Vietnam, faceva comodo che ci fossero i francesi, anche se poi si dimostrarono incapaci di svolgere un ruolo primario e, sconfitti a Dien Bien Phu, dovette intervenire direttamente l’America).
Un ultimo fattore importante che fece la differenza nel destino delle due nazioni è il diverso sentimento nazionale. Entrambi i Paesi conobbero una guerra civile, però nel casi della Francia essa si innestò su una robusta coscienza nazionale, temprata da secoli di esistenza di un forte Stato, mentre nel caso dell’Italia essa accentuò le divisioni e le fratture sociali e politiche che risalivano assai indietro nel tempo, a fronte di uno Stato nazionale che esisteva da soli ottant’anni e non aveva avuto il tempo né il modo di rafforzare un forte sentimento nazionale. Certo, resta da chiedersi perché il Piave vide un soprassalto di orgoglio patriottico, mentre lo sbarco alleato in Sicilia vide la dissoluzione di un esercito, di un popolo e di uno Stato. In ogni caso, a favore della Francia giocò il sentimento nazionale; in Italia, quando le plebi corsero ad applaudire i carri armati dei liberatori e a elemosinare cioccolata e sigarette, gli alleati capirono con che razza di popolo avevano a che fare…
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