
Il nemico mortale della famiglia è l’individualismo
19 Giugno 2018
La deriva inizia con l’abbandono dell’adolescenza
20 Giugno 2018Non c’è dubbio: se si vuol distruggere la famiglia, è sufficiente concentrare ogni attenzione e ogni interesse sull’individuo, come se fosse una creatura perfettamente autosufficiente; allentare i vincoli morali, introdurre il permissivismo; criticare senza pietà la vita di famiglia, metterla in caricatura ed evidenziarne limiti e difetti, e, nello stesso tempo, esaltare fuor di misura la libertà del singolo, il suo diritto a realizzarsi, intendendo, con quest’ultima espressione, non il dovere di fare ciò che è giusto, ma il diritto di fare tutto quel che si vuole, e soprattutto, quel che piace. Il risultato è praticamente certo, anche se non immediato. Ci vorranno alcune generazioni: forse due, forse tre o quattro; ma alla fine arriverà, e infatti è arrivato, sta arrivando, ed è sotto i nostri occhi: la società moderna, dopo aver sottoposto a una critica feroce e distruttiva la famiglia, dopo averla coperta d’immondizia per mano dei suoi maîtres-à-penser, dei suoi scrittori, dei suoi registi, da Sartre a Bellocchio, da Fassbinder a Pasolini, ora assiste al suo collasso, al suo tracollo ignominioso, alla sua dissoluzione. Complimenti, missione compiuta: questo volevano operare, e questo hanno ottenuto. Da Pirandello a Moravia, da Carson McCullers a Montherlant, le hanno gettato contro una tale quantità di cariche esplosive, che ci sarebbe stato da stupirsi se non l’avessero colpita e affondata. È pur vero che non avevano le idee molto chiare su che cosa proporre per sostituirla, ma questo è un altro discorso: la cultura della modernità ha cose ben più importanti da fare, che occuparsi di simili dettagli, di simili inezie: essendo fondata sul mito del progresso, dell’essere all’avanguardia, della sperimentazione, non si abbassa a farsi carico degli edifici che abbatte, di dove andrà a vivere la gente, o se non resterà seppellita addirittura sotto le macerie: l’importante è far volare gli stracci. Aria, aria libera! Libertà, libertà! Bisogna essere assolutamente moderni, vivere pericolosamente, senza ipocrisie e senza paracadute (questo è il nietzschianesimo degli imbecilli, cioè di quasi tutti i suoi seguaci). Bisogna aprire la strada alla rivoluzione: chi non vive e non sente in modo rivoluzionario, non è degno di un posto nella società, dovrebbe essere rinchiuso in un cimitero o n un museo, che poi è la stessa cosa, come diceva il buon Filippo Tommaso Marinetti nel suo Manifesto del futurismo.
Il ’68 e il suo delirio di libertà assoluta non nasce dal niente: è stato coltivato a lungo. La prova generale, almeno per la società italiana, è stata nella Fiume di D’Annunzio, nel 1919-20. Forse molti non lo sanno, ma quello fu il vero laboratorio della modernità nelle sue forme più estreme, edoniste, individualiste e narcisiste: con un capo che si affacciava ogni giorno al balcone per essere osannato dalla folla; con i giovani che si davamo alla droga e al sesso promiscuo dalla mattina alla sera; con la rivolta dei giovani contro gli adulti, dei soldati contro gli ufficiali, degli avventurieri contro i politici; con l’esaltazione velleitaria e parolaia della vita "pericolosa", dell’ardimento e (a parole) della "bella morte"; con il mito della giovinezza eretto a religione, la religione del giovanilismo, dove le persone anziane hanno sempre torto, perché pensano vecchio, puzzano di vecchio e non meritano di essere ascoltate neppure per un attimo. Per i seguaci di D’Annunzio, Fiume è stata una lunghissima, spensierata, entusiastica vacanza: è stato come realizzare i sogni di Gian Burrasca nella vita reale, e a venti o venticinque anni suonati, in barba al mondo intero, al dovere, alla disciplina, a tutti i valori consolidati. Un esercito di giovani in vacanza, che giocano a fare la rivoluzione, che celebrano i loro miti giovanilistici fra sesso e droga, che non vogliono più saperne di casa e di abitudini, di genitori e fidanzate, ma amano vivere in strada, all’aperto, far l’amore sui prati con chiunque, scorrazzare come un esercito di collegiali in rivolta, o a caccia di fragole, come nella Guerra dei Bottoni, e improvvisare una vita simile a uno spettacolo teatrale, un sogno d’una notte di mezza estate, come tanti folletti d’una commedia di Shakespeare, così, giorno per giorno, ogni mattino un nuovo sogno d’avventura, ogni mattina l’aspro profumo della libertà, un altro pezzo di vita strappato alla noia, alla routine, al grigiore del lavoro, della fatica, della responsabilità, dell’impegno paziente e quotidiano. E giocano persino a fare i pirati, a prendere d’assalto le navi del "nemico", per rifornire la Città dei Ragazzi, col suo glorioso poeta-soldato, che, pur essendo già calvo, è più ragazzo di tutti quanti, è il sostituto della figura paterna da essi ripudiata in preda alla sindrome di Peter Pan. E poi la gioia di godersi il proprio mondo incantato; la dolcezza di non dover lavorare, di non dover fare nulla di preciso; l’ebbrezza di sentirsi all’avanguardia della storia, sul promontorio estremo dei secoli, come aveva detto, ancora, Marinetti. E c’è un’ulteriore analogia, fra la Fiume del 1919 e la Trento del 1968, Facoltà di Sociologia, il primo ateneo ad essere occupato dal "movimento studentesco" in nome della contestazione, della fantasia al potere, della bellezza che è nella strada e dell’immancabile proibito proibire. I giovani di D’Annunzio erano, in larga misura, dei ventenni che non avevano fatto in tempo ad andare in guerra, ma ne avevano respirato l’atmosfera; che non avevano combattuto sul Grappa e sul Piave, ma avevano fatto proprio il mito decadente ed estetizzante dell’eroismo e della morte gloriosa, dove la morte non era quella vera, ma quella filtrata dal prisma letterario, qualcosa di poetico, di bello, di attraente; insomma, un esercito di figli di papà che non aveva mai lavorato, non aveva mai fatto qualcosa di serio, ma aveva una gran voglia di menare le mani, di far casino, di veder volare un po’ di stracci e, soprattutto, di sentirsi protagonisti di qualcosa, non si sa bene cosa, ma qualcosa di grande, qualcosa di eccezionale, qualcosa di cui il mondo intero avrebbe parlato a lungo. E cosa c’era, al fondo della filosofia di quei giovani, se non un individualismo esasperato, narcisista, edonista, decadente, millantatore, velleitario, fanfarone, totalmente irresponsabile? Ad altri la noia ed il peso di lavorare, di andare sui campi o in fabbrica, di sgobbare in ufficio per una misera paga mensile, di allevare dei figli, di risparmiare quattro soldi per una vecchiaia onesta e deprimente: a loro la giovinezza, l’attimo fuggente, l’entusiasmo, la libertà, l’improvvisazione, l’amor del pericolo, la gloria!
I frutti di quella cattiva seminagione, di cui Fiume nel 1919 e Trento nel 1968 sono stati due potenti laboratori, ma non certo la causa, perché la causa risale ancora più indietro e affonda le sue radici nel malessere complessivo dell’Europa nei confronti di se stessa, nel feroce rifiuto di sé e del proprio passato, delle proprie radici, delle proprie tradizioni, e soprattutto della propria identità, sono giunti ai nostri giorni e hanno completato l’opera di distruzione. Oggi le folle dei sodomiti in festa, truccati e abbigliati in maniera oscena e raccapricciante, non oserebbero sfilare per le nostre città, abbrancandosi, baciandosi, bevendo e gridando slogan blasfemi e demenziali, se il terreno non fosse stato preparato, lungo interi decenni, da alcune generazioni di individui che odiano se stessi, la propria storia, la propria appartenenza e tutti i valori che avevano ricevuto i loro genitori e i loro nonni; se il gusto della rivolta, della sfida, della profanazione, della ostentazione del brutto, non fosse stato diligentemente seminato e coltivato da legioni di dadaisti, di surrealisti, di esistenzialisti, di contestatori d’ogni genere e specie, da figli che aborriscono i padri e da cittadini che detestano le leggi e da preti che hanno schifo della Chiesa, così come essa è sempre stata e come deve essere, e la vogliono sostituire con un’altra, di loro gusto, fatta sula misura del mondo, dei suoi vizi, dei suoi peccati, delle sue aberrazioni più nefande e disgustose.
Scriveva ottimamente un autore francese ben presto totalmente dimenticato, addirittura rimosso, François Goust, nel suo saggio L’adolescente nel mondo contemporaneo (titolo originale L’adolescent dans le monde contemporaine, Paris, Bloud & Gay, 1946; traduzione di Ernesto Bozzi, Torino, S.E.I., 1963, pp. 92-94):
Si arriva facilmente a tali risultati, quando si cede terreno alle forze dissolvitrici, che ciascuno porta in sé. Ma la disgregazione sociale si produce ancor più in fretta quando gli errori sono eretti a principi direttivi. Quando l’individualismo è diventato la base filosofica dello Stato, si può essere sicuri di finire in una distruzione della famiglia.
L’individualismo rinchiude l’uomo in se stesso, ne fa il centro dell’universo. Il culto dell’io diventa l’ideale. Nessuna catena può essere tollerata, né alcun attentato alla libertà individuale può essere ammesso.
Questa filosofia, aiutata da tutta una letteratura, ha causato le sue maggiori rovine nella concezione dell’amore. A dispetto delle leggi biologiche più evidenti e per sottomissione a una sensibilità, che diventa spesso sensualità ed erotismo di bassa lega, l’individualista combatte la perennità del matrimonio, base essenziale della società domestica. Bisognerebbe passare in rassegna tutta la letteratura antifamiliare, che va dai rivoluzionari del 1789 fino a Vidal Naquet e a Leon Blum, per poter rispondere a tutti i sofismi, che sono serviti per introdurre il divorzio e propagare l’unione libera. "I teorici dell’amore libero, dice Foerster, affidano allo Stato la cura dei bambini, per assicurare così alle relazioni sessuali una maggiore speditezza e un più perfetto adattamento ai bisogni dell’individuo. Essi lo invocano perciò a vantaggio dei genitori, mentre essi impongono ai figli, nell’allevamento, compiuto dallo Stato, la standardizzazione e il livellamento, senza accorgersi che con questo essi fanno il maggior attentato a quello stesso principio, in nome del quale essi proclamano la loro teoria".
Anche senza giungere a tal punti, si può dire che l’individualismo, rafforzando l’egoismo naturale e aiutato dalle istituzioni politiche, ha corroso i legami, che univamo i membri della famiglia e proteggevano il bambino. Slegando quello che era legato, scindendo la vita, si sono liberate delle forze perverse, che, attraverso la famiglia, si sono abbattute come un flagello sulla società.
Oggi non ci troviamo più in una società di sintesi, d’incarnazione, ma in un periodo d’analisi, di morte.
Il male si è verificato quando l’uomo, oppostosi alla società, ha cominciato a credere alla sua autonomia assoluta (individualismo).
Il male è avvenuto, quando si è rinnegato lo Spirito e si è affermata la sola realtà della materia (materialismo), si è divinizzato il corpo sociale e calpestata la persona umana (collettivismo).
A misura che l’uomo si allontanava dal bene della specie, dal bene della città, da Dio per contemplare il proprio io, la produzione, dal canto suo, dimenticava l’uomo, respingeva i valori morali che la imbrigliavano, e, laicizzata, stritolava gli esseri, che essa avrebbe dovuto servire. "Uno di più grandi peccati del capitalismo, dice P. H. Simon, è stato quello di distruggere di fatto la famiglia operaia".
Il collettivismo nascente accentuerà queste distruzione dirigendo i suoi colpi sulle famiglie preservate da una certa agiatezza. Mentre il divorzio toglieva all’uomo le sue responsabilità morali, il sistema sociale gli faceva perdere le sue ultime nozioni di responsabilità materiale, essendo queste due piani indissolubilmente legati. Capo di famiglia, io mi sento obbligato dalle necessità naturali a costruire il mio nido, ad erigere la mia casa, a proteggere i miei, e a trasmettere ai miei figli un patrimonio, frutto della mia previdenza.
Disgraziatamente, lo Stato comincia a tempestarmi di tasse, e, senza nessuno spirito d’economia, sperperare ciò che prende. E quando io scomparirò, l’eredità mia sarà mangiata dal fiso. A che pro prevedere, economizzarsi, privarsi?… Domani saremo dei veri poveri e andremo anche noi a mendicare riparo e assistenza davanti alle casse vuote dello Stato…
Si resta sbalorditi dalla lungimiranza di questo dimenticato psicologo che scriveva ancora negli anni della Seconda guerra mondiale e che vedeva nella guerra appunto una delle maggiori manifestazioni della cultura ultraindividualista, distruttiva, nichilista, negatrice di tutti i valori e ferocemente avversa alla famiglia, in quanto bastione della moralità, della serietà e della vera affettività, contro il disordine sessuale e l’impero della lussuria che dominano sempre più largamente il nostro desolato panorama sociale. Più di vent’anni prima del 1968, François Goust aveva compreso, e visto con chiarezza, la china discendente imboccata dalla nostra società; ne aveva individuato le cause, descritto i meccanismi, e perfino proposto i possibili rimedi. Ma chi conosce il suo nome, oggi, anche nell’ambito specialistico della psicologia? Viceversa, tutti sanno, o credono di sapere, che nessuno più di Freud, di Jung e dei loro seguaci si sono adoperati per illuminare le profondità della psiche umana, ragion per cui dobbiamo loro eterna riconoscenza; a loro e a tutti i loro discepoli e parenti, come quella Anna Freud che viene sbandierata come una gran figura di psicologa infantile, e insegnata con devozione nei licei. Tale è il pantano desolante nel quale seguitiamo a diguazzare…
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