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Ecco da dove viene la lebbra

Ci si chiede da dove venga la lebbra morale che sta sfigurando la Chiesa cattolica, la sua dottrina e la sua azione pastorale; e, in maniera particolare – perché è ormai all’ordine del giorno – da dove venga la sua conclamata omoeresia: con il vescovo di Anversa, Bonny, che va chiedendo, da molto tempo, una qualche forma di unione "sacramentale" anche per le coppie omosessuali; il gesuita Martin che va predicando che gay è bello e che la Chiesa è, ed è sempre stata, piena di gay, santi compresi; con monsignor Paglia che fa celebrare l’apoteosi dell’omoerotismo nel blasfemo affresco del duomo di Terni, insozzando anche l’immagine del nostro divino Redentore, e non tralasciando di far raffigurare se stesso, a futura infamia, in mezzo alla massa dei sodomiti e dei transessuali avvinghiati gli uni agli altri; e con il prete don Carrega che, a Torino, organizza corsi per "fidanzati" gay, allo scopo di insegnar loro quello che la legge Cirinnà si è dimenticata di stabilire: il dovere della fedeltà reciproca fra i contraenti dell’unione. E senza dimenticare il cardinale Schönborn, che, a Vienna, invita il transessuale Conchita Wurst a tenere concioni nella storica cattedrale di Santo Stefano; e il presidente della Conferenza episcopale tedesca, Marx, che auspica caldamente, come Bonny, un sollecito riconoscimento da parte della Chiesa per questo tipo di coppie, senza astenersi dal polemizzare aspramente coi suoi colleghi che non condividono tale proposta, a cominciare dal cardinale Josef Cordes. E il ritornello è sempre lo stesso: lo vuole il papa; come ha detto, appunto, il cardinale Marx, su questo argomento, fin dal 2015: Non possiamo guardare indietro, Bergoglio ci chiede cose nuove. Bellissimo, questo "chiedere ai fedeli cose nuove" da parte del papa: una volta si diceva: dobbiamo ascoltare Gesù, l’appello di Gesù, la chiamata di Gesù; oggi si dice: dobbiamo seguire Bergoglio; lo dice Bergoglio; lo vuole Bergoglio. Insomma, il papa è meglio di Dio, del Dio cattolico. Naturale: non è stato proprio Bergoglio a dichiarare che Dio non è cattolico, aggiungendo, per buona misura (e poi dicono che viene male interpretato!), non il mio, comunque? Non c’è male, per un papa che, al principio del suo pontificato, non voleva nemmeno chiamarsi ed essere chiamato papa, ma si definiva sempre e solo "il vescovo di Roma". Non c’è male davvero: si direbbe che Dio sia lui, a tutti gli effetti; Gesù Cristo rimane sullo sfondo. E anche questo, in effetti, è un passaggio naturale: se la Chiesa è cambiata, e a cambiarla è stato soprattutto lui, cosa che del resto ha dichiarato fin dal principio, con la precisa volontà di "attuare" sino in fondo la svolta del Concilio (ed era stata la ragione della sua elezione), così doveva essere: perché la Chiesa pre-conciliare, ormai vecchia e obsoleta, faceva perno su Gesù Cristo, ma la Chiesa di oggi fa perno sul papa, e il papa è Bergoglio. Peraltro, questa deriva personalista e ultra-demagogica era cominciata, guarda caso, proprio con Giovanni XXIIII, il papa del Concilio, che è passato alla storia come "il papa buono" (si vede che gli altri, prima di lui, erano così così), il papa delle carezze ai bambini (anche se non ha mai carezzato un solo bambino; ha solo detto di farlo, ai papà, parlando alla radio), ed è stata eccezionalmente implementata da Giovanni Paolo II, che, di teatralità e di narcisismo, è stato un autentico campione, a suo modo un genio della comunicazione, compresa la discutibilissima trovata dei papa boys, le cui adunate mastodontiche degenerano con molta facilità in qualcosa di simile a delle orge sessuali o a dei baccanali che nulla hanno di spirituale.

Dunque, ora le cose sono arrivate a questo punto: siamo immersi nella sozzura; la Chiesa cattolica è sprofondata nel pantano disgustoso della celebrazione della sodomia come un fatto lecito, naturale e degno di auguri e benedizioni, come appunto Bergoglio ha fatto sia di persona, ricevendo in pompa magna dei suoi amici argentini, sodomiti conclamati, sia inviando da lontano la sua apostolica benedizione a una coppia gay del Brasile e ai suoi tre bambini adottivi, cose se fosse la cosa più naturale e più carina di questo mondo. Davanti a una esplosione così repentina, ci si chiede come tutto ciò sia potuto accadere, da dove sia partita la lebbra, visto che l’albero si riconosce dai frutti: l’albero buono non può dare frutti cattivi, né l’albero cattivo, frutti buoni. Ebbene, anche la risposta a questa domanda è sempre la stessa: dal Concilio Vaticano II e dall’immediato dopo-Concilio: è allora, negli anni ’60, e poi ’70, del secolo scorso, che si sono messe apertamente in movimento le forze dissolutrici che ci hanno condotti alla situazione presente. Certo, allora i neoteologi della "svolta antropologica", per non parlare dei vescovi e dei cardinali, non parlavano ancora, in maniera così esplicita e scandalosa, di riconoscere le coppie omosessuali e di creare per loro un apposito "sacramento" (e infatti, neppure oggi osano adoperare questa parola); però le premesse c’erano già tutte, per il semplice fatto che l’opera di quei teologi, rivoluzionaria e distruttrice, fu, essenzialmente, quella di negare l’esistenza di una morale oggettiva e, anzi, di negare una qualsiasi morale che trascenda l’orizzonte della coscienza individuale, smentendo così frontalmente millenovecento anni di teologia cristiana, e senza che il Magistero dei pontefici sia mai intervenuto per smentirli, per correggerli, per rettificare e precisare le loro affermazioni, per porre dei limiti alle loro pazzie. Il che conferma, purtroppo, la nostra analisi, che tutti i papi del dopo Concilio, in misura maggiore o minore, devono, come minimo, essere considerati complici o conniventi della deriva ereticale ed apostatica che oggi sta raggiungendo il culmine; mentre l’ipotesi massima è che furono eletti precisamente per portare la Chiesa in tale direzione, e che lo fecero deliberatamente e scientemente, il che significherebbe che il collegio dei cardiali, dal 1958, è passato stabilmente nelle mani della massoneria ecclesiastica, nemica occulta, ma giurata, della vera Chiesa di Gesù Cristo (cfr. i nostri precedenti articoli: I padri (ig)nobili della neochiesa omoeretica; E i papi del post-concilio, che pensare di loro?; e Il Magistero degli ultimi 50 anni è autentico?, tutti pubblicati sul sito dell’Accademia Nuova Italia, rispettivamente il 07/02, l’08/02 e il 09/02/2018).

Uno di questo precursori, chiamiamoli così, della deriva omoeretica è stato don Enrico Chiavacci (Siena, 16 luglio 1926-Ruffignano, Firenze, 25 agosto 2013), il quale è passato alla storia — come si legge nella sua "voce" biografia su Wikipedia — nientemeno che come uno dei massimi teologi morali italiani del secondo Novecento, soprattutto nei temi dell’etica sessuale, della giustizia sociale e della pace. Ebbene: Chiavacci è stato uno dei massimi responsabili teorici della presente deriva verso l’accettazione, tacita e implicita, da parte di ampi settori della chiesa, della cosiddetta ideologia gender, in base alla quale i due sessi, maschile e femminile, non sono un dato biologico e psichico di natura, ma ad essi bisogna preferire la nozione di "orientamento sessuale", liquida e mutevole, per cui ogni persona, fin da bambino, deve essere incoraggiata a scoprire in se stessa quale sia il "vero" orientamento sessuale, che può essere altalenante, e che, comunque, rifiuta decisamente la netta differenziazione sessuale come un dato di natura. E questi bellissimi insegnamenti, don Chiavacci li spargeva a piene mani fin dagli anni Sessanta del ‘900, sulla scia, appunto, del gioioso e "liberatorio" evento conciliare. Come ha ricordato Giorgio Maria Carbone in un articolo del 09/0/2013, Il magistero parallelo dei teologi italiani, pubblicato su Il fumo di Satana, il nucleo della concezione antropologica di don Chiavacci è che la vera natura dell’uomo è quella di non avere una propria natura. Ed ecco due perle illuminanti di tale concezione: la prima si trova nel Dizionario enciclopedico di teologia morale, a cura di L. Rossi e A. Valsecchi (alla voce Legge naturale; Edizioni Paoline, 1973, p. 491), la seconda in un articolo apparso sulla Rivista di teologia morale, 2010, p. 474, intitolato: Omosessualità: un tema da ristudiare), a riprova del fatto che don Chiavacci non solo non ebbe ripensamenti, ma vide benissimo dove conducevano le sue posizioni iniziali e, nondimeno, proseguì imperterrito e assolutamente coerente lungo quella strada, fino a rimettere apertamente in discussione il Magistero della Chiesa sulla questione dell’omosessualità, secondo la pessima abitudine, invalsa proprio in quegli anni, per cui i teologi progressisti non esitano a porsi come coloro i quali avrebbero il diritto, in quanto "tecnici" e maggiormente "esperti" di certi problemi, di segnare la strada della pastorale, e della stessa dottrina, sottraendola, di fatto, all’autorità dei vescovi e dello stesso pontefice, e, non di rado, allontanandola dal solco del Deposito della fede, cosa evidentemente del tutto illegittima.

L’uomo non è definibile se non come colui che tende verso, che ha il compito di scegliere se stesso e il proprio cammino di autorealizzazione. La vera natura dell’uomo è il non aver natura. In queste condizioni dedurre dalla natura umana precetti operativi descrivibili e imponibili dall’esterno, dal filosofo, dal sovrano, dallo stesso Magistero ecclesiastico è impensabile. (…)

Quando si parla di natura e per conseguenza di legge naturale occorre sempre tener presente che la natura non è un dato fisso e immutabile valido per tutti e per sempre: è un dato che varia e varia per due motivi. Varia costantemente, anche se in modo impercettibile, con l’evoluzione continua della specie nelle varie aree ambientali e culturali in cui la specie umana sussiste. Varia però anche da individuo a individuo nelle complesse strutture cerebrali e nella loro interazione che oggi la scienza comincia a comprendere e indagare.

A parte l’omaggio, quasi puerile nel suo candido fideismo, alla "scienza" intesa un senso positivista e ottocentesco, cioè come un assoluto (stiamo parlando dell’anima, dopotutto, signor teologo!), e a parte l’accenno al concetto della "complessità", che tanti abusi dottrinali oggi sta veicolando, a cominciare dalla morale sottesa ad Amoris laetitia, che ben si potrebbe definire una morale della situazione, mentre noi credevamo che la morale cattolica fosse una morale assoluta, senza "se" e senza "ma", è impressionante l’analogia di ragionamento con i teorici della odierna teoria gender. L’uomo, e ovviamente la donna, non si sa cosa siano: sono ciò che decidono di essere. Questo concetto può essere accettato solo con una essenziale precisazione, che qui, però, non compare affatto: ossia che la libertà dell’uomo, per il cattolico, coincide con il suo dover essere. In altre parole, è vero che l’uomo può scegliere di essere qualsiasi cosa, ma una sola è la scelta che veramente lo realizza, e cioè quella che lo conduce verso Dio; tutte le altre sono illusorie, ingannevoli e, in ultima analisi, fallimentari. Dal fatto della indeterminatezza dell’uomo, che scaturisce dalla sua libertà — cosa, questa, che non viene nemmeno accennata — Chiavacci ricava, arbitrariamente, che la morale è sempre relativa e sempre soggettiva, e nega che esista una legge morale naturale; così come nega, implicitamente, che la legge morale naturale sia un riflesso della legge divina. In altre parole, si "dimentica" che anche la natura è opera di Dio; e quindi, complessità o non complessità delle strutture cerebrali (e quindi con buona pace di tutti gli evoluzionismi, darwiniani o non darwiniani), si dimentica che negare la legge morale naturale è la logica premessa per negare la legge morale divinamente rivelata. E quando dice, chiaro e tondo, che è "impensabile" che il Magistero ecclesiastico imponga la sua legge dall’esterno dell’uomo, dice una cosa scorretta, oltre che non cattolica, perché il Magistero non "impone" un bel nulla dall’esterno, ma richiama l’uomo a quella legge che è già presente dentro di lui, prima ancora di essere illuminata e perfezionata dalla divina Rivelazione.

Enrico Chiavacci insegnava filosofia e teologia a Firenze, sia nel Seminario che presso la Facoltà teologica, e pubblicava i suoi libri con le case editrici cattoliche, ma il suo insegnamento non era cattolico: è uno dei paradossi della "nuova teologia", che potremmo ricondurre all’osservazione di Paolo VI: un pensiero non cattolico si è insinuato nella Chiesa cattolica. Se entrano in contrasto con le verità insegnate da duemila anni dal sacro Magistero, i teologi come don Chiavacci non dubitano nemmeno per un istante che sia il Magistero a doversi adeguare alle loro "conquiste", non loro ad esso: perché si sentono portati, col vento un poppa, dalla corrente del progresso, e quindi sono convinti di essere il futuro del cristianesimo. Nel suo libro Morale della vita fisica (titolo che è già un voluto ossimoro; Bologna, Edizioni Dehoniane, 1979, p. 15) egli sostiene che, che delle tre direttrici principali della vita morale: l’integrità della propria vita, quella della vita altrui e la lotta contro la degradazione biologica, solo sul secondo punto si può dire con certezza che non si può disporre della vita altrui, mentre nel primo e nel terzo caso, quanto alla propria, il discorso rimane aperto a ulteriori discussioni e sviluppi. Come non vedere che sia il suicidio, sia l’eutanasia, sia l’aborto, trovano in questo dichiarato possibilismo il loro spiraglio iniziale, a partire dal quale iniziare la loro trista cavalcata nella teologia contemporanea, fino alle aberrazioni dei nostri giorni? Qui ci sono, in nuce, le successive performances di don Gallo, don Carrega, del cardinale Marx, del gesuita Martin, dell’arcivescovo Paglia – uno dei più stretti consiglieri di Bergoglio – e di tutti gli altri membri del neoclero che ora fanno a gara per sdoganare la sodomia e derubricarla dall’elenco dei peccati mortali. Sì, bisogna pur dirlo: quella di Chiavacci è stata la stagione dei cattivi maestri…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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