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Verso il redde rationem

Redde rationem villicationis tuae: iam enim non poteris villicare: sono parole di Gesù Cristo, che Egli pronuncia nella parabola del cattivo amministratore (Lc 16,2). Molti credono che l’espressione latina redde rationem, ossia "rendere conto di qualcosa", sia di origine classica, che appartenga a qualche poeta, come Orazio, o a qualche commediografo, come Plauto, oppure semplicemente che sia un proverbio, un modo di dire, o magari una formula giuridica. Niente di tutto questo: è Vangelo, puro e sacrosanto Vangelo, che un buon cristiano dovrebbe conoscere praticamente a memoria; e quelle parole, sono le precise parole adoperate dal nostro Signore Gesù Cristo per far capire che noi tutti, a un dato momento — quando, nessuno lo sa, né lo può prevedere -, dovremo rendere conto del nostro operato, di quel che abbiamo fatto nella nostra vita, e soprattutto di come lo abbiamo fatto. (Il padrone) lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore. In altre parole: sei licenziato; ma prima, rendimi conto di quel che hai fatto.

Sono parole di una serietà terribile, se appena vi si riflette sopra con un minimo di attenzione. A forza di sentir ripetere, in tutte le salse, che Dio è misericordioso, ci siamo quasi scordati che Egli è anche giusto giudice: giusto, ma giudice. No, nessuna forzatura teologica, nessun ritorno all’Antico Testamento: al contrario, il pensiero che Dio è giudice dovrebbe essere d’immenso conforto per noi; o, almeno, dovrebbe esserlo per i buoni, per quanti hanno vissuto la loro vita con mitezza, senza fare del male ad alcuno e cercando anzi, per quanto possibile, di fare del bene. Guai se Dio non fosse giudice; guai se non giudicasse, come empiamente ha dato a intendere il falso papa Bergoglio nella udienza generale del 23 agosto 2017, quando ha affermato che Dio, alla fine dei tempi, chiamerà a sé tutti gli uomini, per abitare con Lui sotto una immensa tenda, evidentemente il Paradiso. E solo Dio, che è Verità, può giudicarci in maniera veritiera: Lui solo sa cosa c’è nei nostri cuori; e Lui solo sa se, dopo aver peccato, ci siamo realmente e profondamente pentiti, oppure no. Chi altro lo potrebbe sapere? Ogni giudizio umano è fallibile; ma Dio ci conosce fino in fondo, per Lui non ci sono misteri, non ci sono ombre nella nostra anima: Lui sa tutto, vede tutto, nulla potrebbe mai sfuggirgli. Se così non fosse, un criminale mafioso che ha ucciso, barbaramente e crudelmente, decine di persone, e perfino strangolato dei bambini, e poi li ha sciolti nell’acido, senza mai pentirsi, senza mai ravvedersi, senza mai domandar perdono né a Dio, né agli uomini, ma anzi, vantandosi fino all’ultimo delle sue orribili prodezze, potrebbe trovarsi sotto la grande tenda di Dio accanto alle anime sante. Una cosa del genere sarebbe mostruosa, sarebbe la negazione dell’ordine universale, sarebbe la profanazione suprema di tutto ciò che di vero e di giusto noi, creature imperfette, possiamo immaginare, ma anche di ciò che la Verità e la Giustizia assolute potrebbero mai tollerare. Se a qualcuno piace immaginarsi un dio del genere, gabellandolo per misericordioso, mentre sarebbe semplicemente un dio ingiusto e perciò non sarebbe dio, ma una sua atroce contraffazione, faccia pure; se ai neoteologi e ai neopreti piace predicare un dio di questo tipo, facendolo complice della umana ingiustizia e della umana depravazione, se ne assumano tutta la responsabilità e non si nascondano dietro il dito della falsa misericordia. Si carichino pure la coscienza di quest’altra blasfemia, di quest’altra bestemmia, dopo le tante che ci tocca sentire ormai praticamente ogni giorno: noi non li invidiamo, né vorremmo essere nei loro panni. Si prendono una responsabilità gravissima, sia verso Dio, sia verso le anime che essi spingono verso l’errore: ma saranno ricompensati, anche loro, secondo giustizia.

Viviamo in un momento storico in cui molti nodi stanno venendo al pettine, e tutto lascia pensare che non sia lontano il momento della verità: il momento in cui ciascuno di noi, come uomo e come cristiano (se lo è, o se pensa di esserlo), dovrà presentarsi davanti al Signore, per il redde rationem. Dovrà rispondere alla domanda: Rendimi conto di quel che hai fatto e di quel che non hai fatto; perché, come ha sempre insegnato, e giustamente, la dottrina morale cattolica, vi sono i peccati attivi, relativi a ciò che abbiamo pensato, detto e operato, e vi sono anche i peccati di omissione, che in certi casi possono essere non meno gravi dei primi. E, naturalmente, il redde rationem cui saremo chiamati non avrà niente a che fare con il regno della quantità. Dio non ci chiederà conto di quante cose avremo fatte, ma di come le avremo fatte: se le avremo fatte con amore, con disinteresse, cercando la Sua gloria e il bene del prossimo, non il nostro bene o il nostro interesse. A Dio non importa quanta gente un papa riesce a portare in piazza, per vederlo e ascoltarlo, come fosse una star, e non, puramente e semplicemente, l’umile vicario di Cristo; a Lui importa sapere se anche una sola anima è stata salvata, o, almeno, se è stata messa in condizione di potersi salvare, mostrandole la via del bene e della verità: di questo ci chiederà conto. E ci chiederà conto anche delle anime che avremo allontanato dalla verità e dalla fede, e quindi dalla salvezza, con il nostro comportamento, con le nostre parole e i nostri atti; e anche di quelle che non avremo fatto nulla per avvicinare a Lui, pur avendone la possibilità e l’occasione.

Ora, un tratto tipico, e diremmo inconfondibile, della neochiesa, o falsa chiesa, è proprio quello di dare un’importanza preminente, per non dire esclusiva, ai grandi numeri: con un ragionamento puramente mercantilistico, essa punta a fare il pieno sulle piazze (sulle piazze, non nelle chiese), come se ciò fosse la cosa più importante; non si cura, molto spesso, di dare un esempio di vita e di vera dottrina cristiana, con le parole e con gli atti di ogni giorno. Peraltro, perfino sul piano della quantità i numeri le stanno dando torto: non è vero che oggi i fedeli sono in aumento, al contrario, sono in caduta verticale: se nel 2000 l’ottanta per cento degli italiani si dichiarava di fede cattolica, oggi, in meno di vent’anni, essi sono scesi al sessanta per cento. Lo si vede a occhio: Piazza San Pietro, la domenica, non è gremita di folla come un tempo: forse la gente si è stancata delle mancate benedizioni (perché volutamente incomplete nella formula rituale) e delle false benedizioni (perché fatte a nome di un dio che è il Padre di tutte le confessioni, dunque anche delle religioni false e perfino di quelle sanguinarie e diaboliche), di un presunto papa che sa parlare sempre e solo di politica, che si mostra letteralmente ossessionato dalla pretesa d’imporre l’accoglienza dei migranti, presentandola — falsamente – come un preciso dovere cristiano; forse si stanno stancando di sentirlo magnificare ed esaltato Bonino e Pannella e, intanto, umiliare e perseguitare gli ottimi Francescani dell’Immacolata. Sta di fatto che a Iquique, nel Cile settentrionale, per la tanto attesa Messa del 18 gennaio, nel coso del viaggio apostolico di Bergoglio nell’America del Sud, erano attese non meno di 380.000 persone — tante ne poteva contenere la struttura predisposta sulla spiaggia di Lobito -, mentre ne sono arrivate forse 90.000, forse 80 o 75.000. E non si tratta di assenze dovute a cause logistiche: come ricorda la giornalista Margaret G. Galitizin (vedi sul sito di Riscossa Cristiana), per la Messa della Signora del Carmelo, ne vengono ogni anno, in media, 250000. Ma per il papa, non solo non se ne sono viste di più, ma molte di meno, neppure un quinto di quanto preventivato. Che ciò sia stato per il disgusto provocato dalle sue dichiarazioni sul caso del vescovo Barros, protettore di un sacerdote indegno come don Fernando Karadina, un violentatore di bambini riconosciuto e conclamato; o per i suoi incessanti discorsi a favore degli immigrati clandestini (che anche in quel Paese stanno cominciando a costituire un problema sociale non indifferente), o per la ciarlatanesca vicenda del matrimonio "a sorpresa", che in realtà non era tale, celebrato sull’aereo, a 11.000 metri di quota, il risultato è quello. Ma c’è una ragione ancora più profonda, secondo noi, che contribuisce, più di questo o quel fatto specifico, per quanto grave possa essere, a distogliere le masse da questo falso papa, e da questa falsa chiesa, che non parlano, né agiscono come i papi e la Chiesa hanno sempre parlato ed agito, nel corso della millenaria tradizione cattolica: e cioè che, per l’appunto, non vale la pena di prestare attenzione a un papa che non parla mai del destino eterno dell’anima, e di una chiesa che non parla mai della grazia e del peccato, ma sempre e solo di problemi sociali, in chiave, oltretutto, smaccatamente ideologica, e cioè progressista e di sinistra. No, non ne vale la pena.

Voi siete il sale della terra, dice Gesù ai suoi discepoli (Mt, 5, 13); ma se il sale perdesse il suo sapore, con che cosa lo si potrebbe rendere salato? Ecco: il sale ha perso realmente il suo sapore; ed il neoclero, credendo di aver fatto chi sa mai quale gigantesco passo in avanti, da quando, dopo il Concilio, si è messo sulla strada della "svolta antropologica" di Karl Rahner, non ha fatto altro che smarrire il senso profondo della Rivelazione cristiana. Di fatto, ciò che ha incominciato a predicare, e in maniera sempre più esplicita e sempre più svergognata, è stata la resa dei cristiani al mondo: al modo di sentire, di pensare e di agire del mondo; a trasformare il peccato in errore, una cosa tutta umana, e la grazia in capacità e maturità, altre cose tutte ed esclusivamente umane. In pratica, Dio è stato sfrattato e Gesù Cristo, per il momento, viene ancora tollerato, ma con il sottinteso che, un poco alla volta, lo si ridurrà alle proporzioni di un profeta, cioè di un semplice uomo. La Redenzione non verrà più da Lui, dalla sua Incarnazione, e poi dalla sua Passione, Morte e Resurrezione; no: verrà dagli uomini stessi. E tutto questo verrà ancora chiamato cristianesimo, almeno per un certo tempo; ma l’obiettivo finale – e già sta incominciando a cadere la maschera al neoclero – sarà la fusione di tutte le religioni in un sincretismo universale, con un dio che è Padre di tutte le confessioni (omelia di Santa Marta del 31 gennaio scorso), e con una vita eterna assicurata per tutti, tutti beati, s’intende, todos cabelleros, nessun peccatore, quindi nessuno all’inferno, anzi, nessun inferno; e del resto, come dice il padre gesuita Sosa Abascal, nemmeno il diavolo esiste, figuriamoci, è solo un’immagine simbolica del male, del male con l’iniziale minuscola. Alla fine anche quel dio vago ed evanescente, buono per tutte le stagioni e per tutte le morali, anche le più aberranti, cadrà dall’albero come una foglia secca: e infatti a cosa mai potrà servire un dio che non premia, né castiga, perché non giudica, non domanda nulla, non promette nulla (o, il che è lo stesso, promette tutto, ma senza alcuno sforzo o sacrificio), e neppure interviene, non si prende cura delle sue creature, perché vuole che esse facciamo da sole, che si dimostrino autonome e mature? Sparirà anche lui, non se ne parlerà più, e resterà solo il culto dell’Uomo: il culto satanico dell’uomo che glorifica se stesso, che divinizza se stesso. E tutto questo, questo slittamento progressivo, metodico, inarrestabile, verso il mondo, che par seguire una tabella oraria ben precisa, un calendario prestabilito; questo deragliamento dai binari della vera dottrina e della vera Chiesa, la gente lo sente, eccome; ormai anche molti tra i fedeli più semplici e meno smaliziati se ne stanno accorgendo, perché saranno ingenui, ma non sono tutti sciocchi; e quel che provano in cuor loro è un immenso senso di delusione, di disinganno: un’amarezza molto simile a quella di chi scopre di essere stato ingannato, tradito e venduto, per qualche losca e inconfessabile ragione, proprio da coloro nei quali aveva riposto tutta la sua fiducia.

In ogni caso, stiamo andando verso il redde rationem: stiamo stancando la pazienza di Dio, e non abbiamo alcuna scusante, nemmeno quella dell’umanesimo "spontaneo", perché non c’è niente di spontaneo e naturale in quel che la neochiesa sta facendo, al contrario, è il frutto di una vastissima cospirazione, che parte da lontano, e nella quale s’incontrano forze nemiche di Gesù Cristo sia di provenienza esterna, sia, e questa è a cosa più triste, dall’interno della Chiesa stessa. Di nuovo, Giuda sta tradendo il suo Signore e Salvatore; e, guarda caso, proprio adesso, dopo duemila anni nei quali l’insegnamento della Chiesa è stato ben diverso, il falso papa Bergoglio si è messo in capo di darci a intendere che Giuda si era pentito e che perciò, probabilmente, si è salvato, è andato in paradiso pure lui. E se perfino Giuda si è salvato, ciò vuol dire che la sua colpa non era poi così terribile; ciò significa che tanti altri piccoli giuda sono autorizzati a seguire le sue orme, a tradire la Chiesa del Signore, tanto, per male che vada loro, ci sarà sempre la Sua misericordia ad abbracciarli e a perdonarli, pentiti o impenitenti che siano. No: non è spontaneo il culto dell’uomo, l’adorazione di noi stessi, che i neoteologi, i neovescovi e i neopreti stanno sostituendo alla fede nel vero e unico Dio, talvolta sfacciatamente, come don Fredo Olivero, che dice durante la santa Messa: Non recito il "Credo" perché non ci credo, talvolta implicitamente, come quel prete spagnolo che ha lasciato entrare nella sua chiesa gli adoratori del dio indù Ganesha dalla testa di elefante, portandolo in processione per convincere i fedeli cattolici che Dio – come dice, del resto, il signor Bergoglio – è il Padre di tutte le confessioni e quindi non c’è alcuna differenza se si adora il dio dalla testa d’elefante o si adora Gesù Cristo, morto sulla Croce per il nostro riscatto. Quelli che ancora non vogliono convincersi di come stiano realmente le cose, di quali altri segni hanno bisogno? Che altro devono fare Bergoglio, Paglia, Galantino? Devono forse lasciar spuntare gli zoccoli da sotto la veste? Ma via, siamo seri, siamo cristiani adulti: sappiamo bene che il diavolo non esiste. O no?…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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