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Dio è più grande del peccato, ma non l’uomo

Nella ormai storica intervista concessa da papa Francesco al direttore de La Civiltà Cattolica, Antonio Spadaro, che fu registrata in tre giornate distinte, il 19, 23 e 29 agosto, e poi pubblicata sul primo numero di settembre del quindicinale dei gesuiti, egli affermava di vedere la Chiesa come un ospedale da campo, nel quale si pensa anzitutto a medicare le ferite, e solo in un secondo momento, eventualmente, a parlare di dottrina. Non distingueva tra ferita e ferita: né fra quelle onorevoli e quelle disonorevoli, né fra quelle dovute alle circostanze della vita e quelle provocate dal peccato. La cosa, per lui, è del tutto irrilevante: un medico del pronto soccorso non domanda come e perché il paziente si è ferito: semplicemente lo soccorre, e, se necessario, lo opera d’urgenza. Logico: deve tentare di salvargli la vita, e deve agire con la massima tempestività, senza perdere neanche un minuto in questioni che non hanno alcuna rilevanza dal punto di vista medico. Peccato che la similitudine scelta dal papa per definire la Chiesa sia fuorviante, e peggio: perché, nella Chiesa, le cose non vanno come s’immagina lui, e come vorrebbe far credere. Nella Chiesa, al cospetto di Dio, e in particolare nel sacramento della Confessione, per poter medicar le ferite, bisogna sapere — discernere, direbbe lui, che ama appassionatamente questa parola — di quali ferite si tratti, e come uno se le sia fatte. Non è la stessa cosa, dal punto di vista morale, se uno è stato ferito mentre si introduceva in casa d’altri per rapinare, o stuprare, o uccidere, oppure se costui se l’è fatte mentre cercava di salvare la vita a qualcuno che era minacciato da un balordo, o da un delinquente, o semplicemente da un automobilista ubriaco. Nel primo caso, la medicazione della ferita passa attraverso il pentimento, la confessione del peccato, l’accettazione dell’espiazione: nel secondo, non c’è alcun peccato, e allora il sacerdote può dare solo parole di consolazione e d’incoraggiamento. Le ferite dell’anima non sono tutte uguali e non si curano tutte con la stessa tecnica; la compassione ci vuole sempre, ma se per alcune essa è sufficiente, per altre ci vuole ben altro: ci vuole il perdono di Dio. E il sacerdote non è il padrone, lui stesso, di accordarlo o di negarlo: egli, nel segreto del confessionale, è un alter Christus, e se dà il perdono, è perché Duo lo dà, e se non lo dà, è perché Dio non lo ha dato. Fare il generoso con ciò che non è suo, da parte di un sacerdote, sarebbe un comportamento disonesto, oltre che, nel caso specifico, un sacrilegio, e dettato dal più misero dei motivi:l a vanità, l’orgoglio e il narcisismo, il demagogico desiderio di piacere con poca fatica e di ricevere applausi immeritati.

Fra le altre cose, a un certo punto dell’intervista, il papa Francesco ha affermato, con tono di rimprovero verso i suoi sacerdoti, i suoi vescovi e i suoi predecessori sul soglio di San Pietro:

Come stiamo trattando il popolo di Dio? Sogno una Chiesa Madre e Pastora. I ministri della Chiesa devono essere misericordiosi, farsi carico delle persone, accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo prossimo. Questo è Vangelo puro. Dio è più grande del peccato. Le riforme organizzative e strutturali sono secondarie, cioè vengono dopo. La prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di Stato. I vescovi, particolarmente, devono essere uomini capaci di sostenere con pazienza i passi di Dio nel suo popolo in modo che nessuno rimanga indietro, ma anche per accompagnare il gregge che ha il fiuto per trovare nuove strade.

È uno strano linguaggio, questo: un linguaggio che non aiuta a far chiarezza, ma genera malintesi, ambiguità, fraintendimenti. Quando dice, per esempio, che i ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi, curiosamente tace la cosa più importane di tutte: che vi è una differenza fra guidare e accompagnare qualcuno; che il sacerdote non accompagna le anime, specie se peccatrici, ma le guida: le guida verso la salvezza, che è Dio. Di accompagnare soltanto, son capaci tutti: anche i falsi amici, anche i mercenari, anche gli sciocchi. Che vuol dire, accompagnare? Medicare, consolare, lavare le ferite: benissimo; ma la cosa più importante è in quel: Va’ e non peccare più che Gesù Cristo ha detto alla donna adultera. Senza quel e non peccare più il pronto soccorso sarà sempre intasato da una folla di persone doloranti: perché non appena medicate, torneranno a cadere e a farsi male. E non è questa la ragion d’essere della Chiesa: non è quella di compatire e commiserare perennemente quelli che cadono, ma spronarli a rialzarsi e mostrar loro la via per la quale non si cade o, se si cade, ci si rialza. La troppa compassione genera il vittimismo e trasforma chi è caduto in un ferito cronico. E il ferito cronico, come il malato cronico, tende a diventare una vittima a tempo pieno, cioè una vittima di professione.  È comodo fare le vittime di professione: gli altri devono occuparsi di tutto al posto loro, ed esse sono dispensate da ogni cosa e scusate in ogni cosa. Però non guariranno mai, perché avranno perso perfino il gusto e il desiderio di vivere una vita sana. Il peccatore non va accompagnato nel peccato, bensì fuori dal peccato. Ma perché ciò sia possibile, bisogna che chi se ne prende cura sia in condizioni migliori di lui, non perché è un superuomo, ma perché ha fede in Dio. Altrimenti, succede che il cieco pretende di "accompagnare" un altro cieco, e poi cadono nel fosso tutti e due.

Scriveva santa Barolomea Capitanio (1807-1833), una giovane eccezionale, che nella sua breve vita consacrò un’opera grandiosa, le Suore della Carità: Voglio farmi santa, presto santa, grande santa; e Bisogna penare, sudare, morire per farsi sante; e ancora: Quale consolazione in punto di morte aver servito Dio fedelmente in vita!

Questo è il linguaggio che dovrebbe tenere la Chiesa; così dovrebbero parlare i sacerdoti e i vescovi: puntare alla santità, a santificare la propria vita. La metafora dell’ospedale da campo ne è l’esatto contrario: e crea la mentalità del vittimismo da una parte, e del miericordismo, dall’altra. Certo che in guerra ci sono anche i feriti: non per questo essere feriti è una professione; e non per questo la professione del clero è curare la ferite. No: in guerra, quel che conta è vincere: e la vita dell’uomo, del cristiano, è una guerra del bene contro il male, della verità contro l’errore, della giustizia contro l’ingiustizia. Coloro che restano feriti hanno il diritto di essere curati; ma quale errore madornale, se il comandante in capo, invece di animare le sue truppe, di incoraggiarle a proseguire la lotta, si mette a dire, sempre e soltanto: Oh, poverini! Che brutte ferite, avete! Quanto mi fate pena! Un tale comandante creerebbe scoraggiamento, disorientamento,  frustrazione; i soldati penserebbero: Noi siamo qui a combattere, a esporci, e lui, invece di guidarci all’assalto, si mette a compatire le nostre ferite! No, non è questo che i soldati si aspettano da lui; non è questo che deve fare. O capitano, forse non lo sapevi che in guerra si resta feriti, e anche uccisi? Se non lo sapevi, perché hai accettato di guidare l’esercito? Gli eserciti si guidano per condurli alla vittoria, non per commiserare le ferite di quelli che sono stati messi fuori combattimento. Ma tu lo sapevi: perché, altrimenti, avresti fatto la metafora dell’ospedale da campo? Gli ospedali da campo sono necessari quando c’è una guerra; se c’è una guerra, vuol dire che ci sono due eserciti in lotta. Vorresti fare la guerra senza che ci fossero morti, né feriti? Non è possibile; tanto più che la guerra non l’abbiamo dichiarata noi, ma il Nemico dell’umanità: quel diavolo che padre Sosa ha detto non esistere.

E invece esiste, eccome: è lui che ci fa la guerra; noi dobbiamo difenderci. Nella lotta, è inevitabile che restiamo feriti. Oppure le ferite di cui parli non sono quelle, onorevoli, dei soldati che hanno combattuto, ma quelle, vergognose, dei soldati che hanno disertato, che hanno tradito, che hanno rivolto le armi contro se stessi o contro i loro compagni? In tal caso, la cura non è quella che indichi tu: non è la misericordia, genericamente intesa; non è l’accompagnamento, questa parola ambigua, che hai creato apposta per confondere le idee: ma è il pentimento. Chi si pente di aver dato ascolto al Nemico, forse si salverà; e chi non lo farà, no. E non c’è ospedale da campo che possa curare questo tipo di ferite: perché chi resta nel peccato non guarirà mai; e chi compatisce il ferito, senza dirgli, con severità, se la dolcezza non basta, la sola cosa che è necessaria alla guarigione, ossia che deve pentirsi, convertirsi e cambiar vita, ebbene, costui lo inganna e, sotto l’apparenza della misericordia, lo consegna alla morte. Un’esile ragazza di provincia, senza mezzi e con poco tempo per vivere, come la santa Bartolomea Capitanio, aveva cento volte più fegato, più intelligenza delle cose, più misericordia vera e fattiva, di questo comandante in capo che ha deciso di alzare la bandiera bianca e di trasformare la guerra in una eterna lagna di autocommiserazione. Ciò di cui hanno bisogno i cattolici è di essere spronati alla vita di santità, non compatiti perché si lasciano irretire nelle reti del Nemico. L’affermazione, poi, che Dio è più grande del peccato, è la classica affermazione demagogica, assurda sul piano pastorale e banale sul piano teologico. Certo che Dio è più grande del peccato; ci mancherebbe altro: il fatto è che gli uomini non lo sono; e il compito del papa non è quello di esortare Dio, ma gli uomini. Sono gli uomini che cadono in peccato; e Dio li può aiutare ad uscirne, ma solo se essi lo vogliono fermamente e intensamente; se no, no. Si chiama libero arbitrio. Lutero non ci credeva, la Chiesa cattolica, sì, e da sempre, non per una invenzione o una ripicca del Concilio di Trento. Il papa ha cambiato idea anche su questo punto? Se ha cambiato idea, lo dica apertamente: una eresia più, una meno, non fa più tanta differenza. Ma finché esiste il libero arbitrio – ed esisterà fino a che esisterà l’uomo, perché è un dono di Dio, il dono più prezioso che Dio ha fatto ad Adamo e ai suoi discendenti – ci sarà anche la libertà, da parte dell’uomo,di chiedere, oppure no, l’aiuto di Dio, di Gesù Cristo, degli Angeli, dei Santi, della Vergine Maria. Cioè vi sarà sempre la libertà di salvarsi o di dannarsi. Ma a che serve parlare di ciò, quando il papa dichiara che, alla fine dei tempi, Dio chiamerà tutti gli uomini nella sua tenda, per vivere eternamente con Lui? Se li chiamerà tutti in paradiso, allora il Giudizio non ci sarà, l’inferno non esiste, non esiste la dannazione, non esiste alcuna differenza tra una vita di peccato e una vita di santità. Questa è la fine del cristianesimo: e chi pensa in questo modo, non è più cristiano, né cattolico — ammesso che lo sia mai stato. E qui torniamo in fondo al vicolo cieco: i cristiani ci sono ancora, ma i pastori li hanno abbandonati, la loro voce non è quella del buon pastore, non è la voce di chi ama le pecorelle e darebbe la sua vita per esse. D’altra parte, si tratta di un problema immenso, e non possiamo risolvere noi; noi possiamo solo pregare e attendere l’aiuto di Dio. Secondo l’insegnamento di Gesù Cristo: Bisogna pregare sempre, senza stancarsi mai. E secondo quello di san Pietro: Siate temperanti, vigilate, perché il vostri nemico, il diavolo, come un leone ruggente si aggira in cerca di anime da divorare.

In conclusione la metafora dell’ospedale da campo è auto-contraddittoria, perché sottintende, da un lato, che sia in atto una guerra durissima, che produce innumerevoli ferite, ma, dall’altro, che il compito dei cristiani, in questa guerra sia solo quello di lasciarsi ferire e di essere poi ospedalizzati; e che il compito della Chiesa sia quello di produrre barellieri, infermieri, anestesisti, medici e chirurghi, tutto, insomma, tranne che santi. Invece è certo che la Chiesa resterà viva, finché saprà produrre dei santi e delle sante; e che la guerra potrà essere vinta, finché i santi ci saranno, e sapranno sacrificarsi per il Bene, generosamente, eroicamente, senza accalcarsi davanti alle tende dell’infermeria per farsi vistare dal medico, anestetizzare e operare. Per vincere, servono le truppe d’assalto, più che gl’infermieri; e le truppe d’assalto sono quelle che non hanno paura, che disprezzano il pericolo, che hanno un altissimo senso del dovere e un amor di Patria altrettanto vivo. La patria dei cristiani è il Cielo, dunque ogni cristiano dovrebbe assumere l’attitudine psicologica e morale di un soldato scelto, d’un soldato delle truppe d’assalto. Ora, la psicologia è una cosa che dipende da fattori puramente umani; ma la morale dipende dalla religione, e la religione dipende dalla fede. Vincono le guerre coloro i quali sono animati e sostenuti da una grande fede; le perdono, inesorabilmente, coloro i quali non hanno più fede in ciò per cui combattono. Chi va sulla linea del fuoco e per prima cosa si preoccupa se c’è l’ospedale da campo, se è accogliente, se è misericordioso, se vi si viene accompagnati, se vi si trova qualcosa che riscaldi il cuore, o qualcuno che cammini nella notte insieme al ferito, ebbene, costui parte già sconfitto. La sconfitta d’un esercito comincia dal suo stato d’animo: a nulla gli varrà avere un servizio logistico e di assistenza sanitaria di prim’ordine, e neanche disporre delle armi più moderne ed efficienti, se il morale è basso, le ragioni della guerra non gli sono chiare, e se ciascuno pensa solo a non farsi troppo male…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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