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13 Novembre 2017C’è una riflessione folgorante, nelle Enneadi di Plotino, in cui un grande filosofo pagano, niente affatto cristiano, rivela una straordinaria convergenza con un aspetto essenziale della filosofia cristiana: L’anima diventa ciò che contempla (IV, 3, 8). E poco importa che i presupposti e la stessa prospettiva speculativa siano profondamente differenti da quelli della concezione cristiana; quel che conta è l’identità di vedute su questo fatto, che l’anima diventa ciò che contempla. L’anima, infatti, non è statica; essa è sempre se stessa, quanto al suo statuto ontologico, cioè all’essere anima; ma quanto al come essere anima, e che tipo di anima essere, questo dipende da ciò che essa vuole, da ciò che essa cerca, da ciò che essa, appunto, contempla.
La conoscenza, per Plotino, è contemplazione; tutto, per lui, è contemplazione. Plotino è un mistico assoluto; l’azione, per lui, è irrilevante, anzi, sarebbe meglio che venisse ridotta al minimo indispensabile, perché essa, di per sé, tende a coinvolgere la vita dell’anima nelle cose del mondo, tende a invischiarla nella rete delle passioni, e ciò l’allontana dalla sua meta finale, dallo scopo per il quale si vive, si spera e si soffre: il ricongiungimento con l’Assoluto, che, per Plotino, è l’Uno. Io mi sforzo di ricondurre il divino che è in me al divino che è nell’universo, dice Plotino; ed è un atteggiamento decisamente mistico. La vita terrena è un pellegrinaggio verso la realtà vera; e meno l’anima si confonde con le cose materiali, meno si lascia toccare dalle passioni terrene, e più rapido e sicuro sarà il suo viaggio di ritorno alla fonte dell’Essere. È una concezione che ricorda più l’estremismo spiritualista dei catari, che quello genuinamente cristiano: viveva come uno che si vergogni di avere un corpo, è stato detto di Plotino, ed è una osservazione che ben riassume il suo atteggiamento nei confronti della dimensione terrena. Nella visione cristiana, invece, il mondo terreno non è un male, anche perché esso è stato creato da Dio, quindi non può che essere un bene; poi, però, il Peccato originale lo ha ferito, lo ha oscurato, lo ha deturpato, ma esso conserva pur sempre una scintilla della perfezione originaria, e questa scintilla brilla più che mai nell’uomo, la creature eletta, fatta ad immagine di Dio stesso e, come Lui, dotata dell’attributo della libertà. Oltre a questo, Dio ha voluto incarnarsi in un corpo mortale e vivere da uomo fra gli uomini, per morire e risorgere nel corpo: segno che il corpo non è male, perché é stato ulteriormente glorificato nel mistero dell’Incarnazione del Verbo. Certo, il corpo risorto di Cristo è un corpo glorioso, fatto di luce, non un corpo fisico, e corpi gloriosi saranno anche quelli degli uomini quando verrà il giorno del Giudizio universale, ciascuno secondo il suo destino, di eterna luce o di tenebra eterna. E qui appare evidente la diversità rispetto alla concezione di Plotino, che vede nel corpo, e nel mondo fisico in generale, unicamente una zavorra, un fastidio, un intralcio sulla via del ritorno a Dio: ritorno che richiede un distacco totale dalle cose di quaggiù. Anche il cristiano vive con distacco dalle cose mondane, ma con una nota di serenità che manca nel neoplatonismo; semmai, il radicale pessimismo insito nell’atteggiamento neoplatonico ricorda il misticismo esasperato dei Padri del deserto, dei monaci della Tebaide e di una certa spiritualità tipicamente greca, come quella di san Simeone Stilita, che visse per 37 anni in cima a una colonna: tutte posizioni che vanno ricondotte a una certa fase storica e culturale ma che, nel complesso, non rappresentano certo l’atteggiamento tipico della spiritualità cristiana in quanto tale, specie nell’ambito cattolico occidentale. Tuttavia, una volta consapevoli delle differenze di fondo tra l’ascetismo ed il misticismo neoplatonico e quello cristiano, proviamo a considerare l’affermazione di Plotino, l’anima diventa ciò che contempla, da un punto di vista cristiano: e troveremo in essa non pochi spunti di riflessione, di ascetica, di teologia e, non ultimo, anche di buona, anzi ottima, psicologia.
Per valorizzare al massimo la riflessione di Plotino, bisogna innanzitutto chiedersi quale sia lo scopo, quale la meta della vita dell’anima; tenendo però presente che l’anima, nello stato presente, non è distaccata dal corpo, non vive di vita propria, ma legata al corpo, e forma con esso una unità indissolubile, anche se problematica. L’anima, dunque, creata da Dio, aspira a ritornare in Dio, perché solamente lì essa trova quel Sommo Bene cui aspira, così come vi aspirano, ciascuna secondo la sua natura, tutte le altre creature. Questo, a sua volta, ci sollecita a domandarci chi è l’uomo e quale sia il suo destino. Rispondiamo che l’uomo è una creatura dotata di anima e di corpo; che la sua anima è sia vegetativa, sia sensibile, sia razionale, e che quest’ultima è fatta a immagine di Dio; e che il corpo le viene dato non come pietra d’intralcio sulla via della perfezione, ma, al contrario, come strumento per puntare a quella perfezione, che, in senso specificamente cristiano, si caratterizza come una santificazione. L’anima, dunque, si santifica attraverso il corpo, e non già contro il corpo, nel senso che essa prende il corpo e lo conduce verso le vette spirituali, fin dove ciò sia possibile, e non permette che sia il corpo a sottometterla e farla schiava dei suoi impulsi, delle sue brame e delle sue passioni disordinate, verso le quali esso, se lasciato privo di guida, tenderebbe, trascinato verso il basso da quella concupiscenza che è la triste eredità del Peccato originale. E circa il destino dell’uomo, la dottrina cristiana ci insegna che tale destino è la felicità; che l’uomo è stato creato per la vita e per la pienezza, non per la morte e per la sofferenza; e che la felicità, per lui, consiste nel conoscere, amare e servire Dio, in questa vita, e nel tornare completamente a Lui, nell’altra. Al di fuori di Dio, esistono solamente dei beni di livello inferiore; non tutti, però, di uguale valore, anzi, alcuni positivi in se stessi, perché aiutano l’anima ad avviarsi verso la sua meta finale, seguendo la giusta direzione; altri, invece, che sono in realtà dei beni apparenti, ma in realtà falsi, l’allontanano da essa, e perciò costituiscono un grave pericolo per l’anima, che viene sedotta e ingannata, e trascinata lontano dalla meta cui naturalmente tende, che è sempre e comunque Dio.
Il fatto che l’anima tende naturalmente a Dio, anche se molte anime non lo sanno, e vivono perciò immerse nell’ignoranza e nella inconsapevolezza, è la prova del finalismo dell’esistenza umana, e, nello stesso tempo, della perfetta naturalità della relazione fra l’uomo e Dio. Ecco due punti fermi di grandissima importanza: primo, l’uomo non vive a caso, ma per una ragione precisa, e cioè per poter trovare da se stesso tale ragione, che è conoscere, amare e servire Dio; secondo, la ricerca di Dio non è un elemento accessorio e, per così dire, facoltativo, dell’esistenza umana, ma l’elemento essenziale di essa: per cui è da considerarsi pienamente riuscita quella vita che si focalizza attorno a tale ricerca; fallita, invece, quella vita che non dedica ad essa alcuna attenzione, lasciandosi assorbire interamente dalla dimensione terrena. Ne consegue che non solo l’orientamento della vita umana, ma la stessa struttura ontologica dell’uomo è caratterizzata dal bisogno di Dio: è impossibile immaginare una creatura umana che non abbia, al profondo della propria anima, il desiderio di Dio, per il semplice fatto che il destino dell’anima è la felicità, e ogni anima tende verso la realizzazione di essa, cioè tende a Dio. Perfino le creature prive d’intelligenza tendono alla propria perfezione, e la perfezione è la felicità, perché una creatura si deve ritenere felice quando abbia perfettamente realizzato la propria natura. Ancora: se il desiderio di Dio è connaturato alla struttura originaria dell’anima umana, allora tale desiderio è una cosa naturale, così come la legge naturale non può che configurarsi come un riflesso della legge divina; mentre sarebbe cosa estremamente innaturale tentare di estirpare dall’uomo tale desiderio, e far finta che esso non vi sia, che non esista. Ne segue il corollario: la tensione religiosa è un fattore naturale che si riscontra sia nella vita del singolo individuo, sia nella storia dei gruppi, delle comunità, dei popoli e della civiltà; non esiste, in natura, l’ateismo: l’ateismo è un prodotto totalmente culturale, vale a dire del tutto artificiale, del tutto staccato dalla naturalità della condizione umana. Credere in Dio è secondo natura; rifiutarsi ostinatamente e pervicacemente di credervi, nonostante tutti gli indizi del bisogno di Lui che possiamo trovare nel profondo di noi stessi, oltre che nella logica delle cose (la via filosofica), è un atteggiamento contro natura.
E qui emerge, inevitabilmente, una grossa differenza col neoplatonismo, conseguenza del diverso giudizio che le due concezioni danno a proposito della natura. La natura, nella visione di Plotino, è il male, perché ci immerge nella dimensione corporea, fisica, e così ci allontana dalla dimensione spirituale, divina, alla quale siamo chiamati. Nel cristianesimo, come abbiamo già osservato, la natura non è affatto il male, anzi, è buona in se stessa (senza essere, perciò, il vero bene), ma essa, allo stato presente, è ferita e degradata dalle conseguenze del primo Peccato, per cui non può costituire, per noi, un modello, bensì qualcosa che deve essere superato. Ma superato, non significa disprezzato; al contrario, la via che il cristianesimo cattolico propone è quella della santificazione per mezzo del corpo, cioè la spiritualizzazione della dimensione naturale e la sua cooperazione nella ricerca di Dio. In altre parole, qui l’anima non tende a Dio, Sommo Bene, opponendosi al corpo, rifiutandolo e disprezzandolo, ma santificandolo, ossia facendo anche del corpo uno strumento di progresso nel cammino verso la perfezione spirituale. Per fare un esempio: nella visione cristiana, la sessualità non viene negata o disprezzata, ma santificata attraverso il matrimonio, e diviene, nel farsi strumento di una nuova vita, uno dei modi per glorificare Dio, non contro la natura, ma all’interno della natura, pur senza mai perdere di vista la meta finale, che è il ritorno a Dio in spirito e verità, e quindi non con il corpo. Il corpo, bisognerà lasciarlo, come una veste ormai inutile, al termine del cammino terreno: nuda, l’anima dovrà andare incontro a Dio. Tuttavia, finché la vita sussiste, il corpo è uno strumento utile, e quindi esso è pieno di dignità e di bellezza: è il tempio dell’anima, dunque il tempio di Dio stesso, perché nell’anima vi è un riflesso della perfezione divina. Nel neoplatonismo, invece, come del resto nel catarismo, la natura è il male, dunque anche il corpo è male, e la sessualità, il matrimonio e la riproduzione sono gli strumenti di cui si serve il demonio per tenerci lontani da Dio. Quale abisso separa le due concezioni! Eppure, nel loro odio anticristiano, i neopagani odierni, che accusano i cristiani di sessuofobia, si dichiarano seguaci di Plotino, di Proclo, di Porfirio, e ammiratori persino del catarismo. I moderni filosofi neopagani — e noi ne abbiamo conosciuti — si farebbero seguaci e ammiratori di chiunque, anche del diavolo, se ciò servisse a criticare e denigrare la concezione cristiana della vita, piena, com’è, di dignità, di bellezza e di rispetto per la condizione umana; e son capaci di non vedere le stridenti contraddizioni in cui sprofondano, a tal punto sono accecati dal loro furore ideologico.
A questo punto, dobbiamo notare un’altra cosa. Se l’anima cerca Dio in maniera consapevole e coerente, essa tiene anche lo sguardo fisso su di Lui, o, quanto meno, lo tiene fisso sulla strada che conduce a Lui: e questa è ciò che Porfirio chiama contemplazione. Ora, l’anima che vive nella contemplazione di Dio, un poco alla volta diventa luminosa, sempre più bella, sempre più attraente, e di ciò se ne accorgono anche gli altri: è la bellezza della santità. Il caso estremo si verifica quando perfino le creature non intelligenti colgono quella luminosità e ne subiscono il fascino: non si diceva forse, di san Serafino di Sarov, che perfino gli orsi e gli altri animali della foresta venivano presso di lui, dolci e mansueti, attratti da un qualcosa che si sprigionava dalla sua persona? E racconti analoghi non si tramandavano anche a proposito di san Francesco d’Assisi, ritenuto capace di ammansire perfino un lupo feroce, o di predicare ai pesci, agli uccelli, e di parlare alle cicale e a qualunque altro animale? In altre parole, l’anima che si dirige verso Dio incomincia a risplendere di luce perché cercare Dio è già, almeno un poco, averlo trovato: anche perché è Lui, in realtà, che cerca gli uomini, e chi lo cerca, non fa che andare incontro al Suo abbraccio. A quel punto, l’anima incomincia già ad essere un riflesso dell’Amore di Dio: e già qui, nella vita terrena, comincia a manifestarsi il prodigio del superamento della condizione terrena. Che cosa permetteva, a santa Teresa Neumann, di vivere per molti anni senza più assumere alcun cibo fisico, tranne il Corpo del Signore, nella santa Eucarestia?
Viceversa, l’anima che vive lontana da Dio, immersa nel disordine delle passioni e abbandonata al vento furioso della concupiscenza, tende a diventare ciò che un tal modo di vivere comporta: tende a farsi sempre più animalesca, sempre più bestiale, sempre più demoniaca. Di fatto, se il diavolo si fa signore dell’anima, un riflesso della sua repellente bruttezza traspare da quel volto e da quel corpo, fossero pure bellissimi, in base a dei criteri astrattamente estetici. Questa è la teologia cattolica; questo è il Magistero ecclesiastico di sempre. Padre Sosa Abascal, il nuovo generale dei gesuiti, non ci crede: ha dichiarato che il diavolo, secondo lui, non esiste, che è solo un’immagine simbolica. Pensi pure quello che vuole; è affar suo: ma non parli da sacerdote, né da cattolico. Il cattolicesimo non la vede come lui. Nel Vangelo, il diavolo esiste; Gesù lo ha affrontato e vinto; e anche gli uomini lo devono affrontare e vincere, con l’aiuto della grazia divina e dei Sacramenti, fin da quando ricevono il Battesimo. Su tali cose, un cattolico serio non si permette mai di scherzare…
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