
«Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi»
6 Novembre 2017
Ora tocca al teologo Thomas Weinandy
7 Novembre 2017Ci eravamo già occupati, a suo tempo, del filosofo Guglielmo di Ockham (nato a Ockham, non lontano da Londra, nel 1285 e morto a Monaco di Baviera, in odore di eresia, nel 1347), un monaco francescano che uno dei maggiori logici del Trecento, vero precursore dell’empirismo inglese, il cui nucleo speculativo si può riassumere in questo modo: tutto ciò che noi conosciamo viene esclusivamente dalla nostra esperienza (cfr. l’articolo La potenza divina può fare qualsiasi cosa? Ockham e la svolta della scienza moderna, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 14/04/2011). Vogliamo adesso tornare su questo interessante personaggio per mettere in evidenza un altro aspetto, non meno significativo, della sua concezione filosofica. Egli, infatti, si può considerare, e non è un paradosso o una battuta, l’iniziatore della tendenza modernista in seno alla Chiesa cattolica, i cui frutti maturi, si fa per dire, sarebbero germogliati moli secoli dopo, al principio del Novecento, per poi slanciarsi, dopo il Concilio Vaticano II – e nonostante la solenne scomunica di Pio X con l’enciclica Pascendi, che denunciava la sua natura profondamente ereticale – alla conquista della Chiesa stessa. Conquista che ora si direbbe giunta a buon punto, e che è stata, a ben guardare, rapidissima: nel giro di pochi decenni, la mentalità modernista, e una serie di prassi e di linee pastorali moderniste, si sono tranquillamente insediate nella vita della Chiesa, come se nulla fosse e come se nessuno, o quasi nessuno, si fosse reso conto della loro radicale incompatibilità con il cattolicesimo, e come se chi doveva vegliare e vigilare, non solo non lo avesse fatto, ma avesse deciso di collaborare attivamente con la strategia modernista di conquista della Chiesa, allo scopo di sostituire ad essa una cosa completamente diversa, una neochiesa gnostica e massonica, impregnata di relativismo e di spirito moderno.
Vediamo di documentare la nostra affermazione. In che senso diciamo che Ockham è il vero padre del modernismo? Nel senso che dal suo pensiero deriva necessariamente la distruzione della metafisica, di ogni sapere universale, di ogni supporto reciproco tra fede e ragione, di ogni giustificazione razionale della fede stessa, di ogni fiducia nella conoscenza di carattere universale, giungendo a un empirismo radicale che, a sua volta, nella questione degli universali, sfocia in un concettualismo assoluto. Egli è dunque il grande distruttore dell’aristotelismo, del tomismo, della Scolastica, e crea le premesse anche per la distruzione della religione cristiana, intesa come insieme di verità oggettive e universali, da lui ridotta a fenomeno puramente interiore, soggettivo, personale. Sulla disputa degli universali, in particolare, che aveva costituito il punto decisivo del dibattito filosofico e teologico lungo tutto l’arco della Scolastica, da sant’Anselmo a san Tommaso, Ockham giunge, press’a poco, alle stesse conclusioni di Abelardo, e a conclusioni non troppo diverse da quelle di Roscellino: gli universali non esistono in quanto sostanze, sono solo associazioni di idee, non già cose. E si tenga presente che il nominalismo aveva portato Roscellino a sostenere che il dogma della Trinità è logicamente insostenibile, perché, a rigor di logica, le tre Persone sono distinte, la "trinità" non essendo che un concetto universale, e, dunque, non sussistente in sé e per sé; tesi che era stata formalmente condannata dal Concilio di Soissons del 1092, mentre Roscellino aveva ritrattato, salvo poi ritornare sulle sue posizioni e venire espulso sia dalla Francia che dall’Inghilterra, per riconciliarsi infine con la Chiesa, un po’ rocambolescamente, poco prima di venire a morte.
Ancora: insistendo sulla fede come puro dono di Dio, disgiunta dalla ragione umana e non accessibile, né dimostrabile razionalmente, Ockham apre la strada al luteranesimo: come le opere, anche la volontà e la ragione sono impotenti e inutili per giungere a Dio; con esse si può formulare solo una conoscenza di tipo individuale; ma la conoscenza di Dio è qualcosa di universale, o non è nulla, e dunque l’uomo non può far altro che riceverla, mentre è Dio che fa tutto: la dona a chi vuole e come vuole, restando, però, un Deus absconditus dal lato razionale, al punto che nemmeno il dogma della Trinità può essere compreso dalla ragione, ma solo accettato per fede.
E ora andiamo a leggerci un passaggio chiave dell’opera di Ockham Summa totius logicae (1, 14; da Scritti filosofici, a cura di A. Ghisalberti, Milano, Casa Editrice Bietti, 1974, pp. 95-98):
… Si deve pertanto dire che qualsiasi universale è una cosa singolare, ed è universale solo riguardo al suo significato, in quanto è segno di più cose. E questo è quanto dice Avicenna nel V libro della "Metafisica": "Un’univa forma presso l’intelletto è in rapporto a una moltitudine, e da questo punto di vista qualcosa di universale, perché essa è un’intenzione nell’intelletto, che mantiene lo stesso valore in rapporto a ciascuno dei suoi significati"; e aggiunge: Questa forma, benché in rapporto alle cose individuali sia universale, tuttavia in rapporto al’anima singolare , in cui si trova impressa, è individuale; essa infatti è una delle forme che si trovano nell’intelletto". Avicenna vuol dire che l’universale è un’intenzione singolare della stessa anima, atta a essere predicata di più cose, in modo che per il fatto che è atta a essere predicata di più cose viene detta universale, non in virtù di se stessa, ma in virtù di quella pluralità di cose. […]
Che l’universale non sia una sostanza esistente fuori della mente, lo si può dimostrare apoditticamente; e, in primo luogo, argomentando così: nessun universale è una sostanza singolare numericamente una. Se si sostenesse ciò, ne seguirebbe che Socrate è un universale, perché non c’è alcuna ragione per affermare che un universale è una sostanza singolare piuttosto che un’altra. Dunque nessuna sostanza singolare è un universale, ma ogni sostanza è numericamente una e singolare: ogni sostanza infatti o è una cosa e non è più cose, oppure è più cose. Se è una cosa sola e non è più cose, è numericamente una: in ciò infatti consiste, a parere di tutti, l’essere numericamente uno. Se invece una sostanza è più cose, o è più cose singolari o è più cose universali. Se si dà il primo caso, ne deriva che una sostanza sarebbe costituita da più sostanze singolari e, conseguentemente, per la stessa ragione una sostanza avrebbe più uomini e allora l’universale si distinguerebbe sì da una cosa particolare, ma non si distinguerebbe da più cose particolari. Nel caso invece che una sostanza fosse più cose universali, prendo una qualsiasi di queste cose universali e mi domando: o è più cose, oppure una cosa sola. Se si verifica il secondo caso, ne deriva che è singolare; se si verifica il primo, mi domando ancora: o è più cose singolari o è più cose universali. E così o ci sarà un processo all’infinito o si arriverà a concludere che nessuna sostanza è universale, intendendo per universale ciò che esclude il singolare. Con ciò è dimostrato che nessuna sostanza è universale. […]
Nessun universale, in qualsiasi modo sia inteso, è una sostanza. Pertanto la considerazione dell’intelletto non fa sì che qualche cosa sia o non sia una sostanza, benché il significato del termine faccia sì che di quella stessa cosa si predichi o non si predichi il termine sostanza. Per esempio, la proposizione: "Il cane è un animale": se il termine cane sta al posto del cane che abbaia, la proposizione è vera; se il termine cane sta al posto della costellazione celeste, la proposizione è falsa. Tuttavia è impossibile che una medesima cosa sia sostanza per una considerazione e non lo sia per un’altra considerazione. Si deve perciò assolutamente affermare che nessun universale, in qualsiasi modo sia inteso, è una sostanza; ogni universale è un concetto della mente, che, secondo un’opinione probabile, non differisce dall’atto di intendere. Si dice perciò che l’atto di intendere con cui conosco un uomo è segno naturale degli uomini: è naturale allo stesso modo in cui il lamento è segno della malattia o della tristezza o del dolore; ed è un segno tale che può stare al posto degli uomini nelle proposizioni mentali, così come il termine orale può stare per le cose nelle proposizioni vocali. […]
L’universale è un concetto mentale che si predica di più cose.
Questa tesi può essere confermata attraverso queste considerazioni razionali: a parere di tutti, ogni universale è predicabile di più cose; ma solo un concetto della mente oppure un segno istituito convenzionalmente è per sua natura atto a essere predicato, e non una sostanza; dunque solo un concetto mentale o un segno convenzionale è universale. Ma per universale non intendo qui segni convenzionali, bensì solo quel segno che per sua natura p universale. Che una sostanza non sia atta per natura a essere predicata, è evidente: nel caso infatti che la sostanza si predicasse, avremmo una proposizione composta di sostanze particolari, e di conseguenza il soggetto sarebbe a Roma e il predicato in Inghilterra, il che è assurdo. Parimenti la proposizione è solo menale, orale o critta, dunque le sue parti possono essere solo mentali, orali o scritte; ma le sostanze particolari non sono cosiffatte. Consta pertanto che nessuna proposizione può essere composta di sostanze; la proposizione si compone invece di universali; dunque gli universali non sono in alcun modo delle sostanze.
Guglielmo di Ockham, nel suo ragionamento, procede con il tipico metodo scolastico, ma vi introduce una spregiudicatezza concettuale che è insolita nella filosofia del Medioevo: una strana impassibilità, una sorta di sovrana indifferenza circa le conseguenze del suo argomentare. Somiglia più ad un philosophe illuminista che a un teologo francescano, anche se vi sono alcuni precedenti illustri del suo atteggiamento, quello di Pietro Abelardo e quello dello stesso Roscellino, gente che non teme di scandalizzare il pubblico e che non arretra d’un millimetro davanti alle conseguenze sconcertanti o potenzialmente distruttive della propria speculazione. E le conseguenze, nel caso dell’empirismo e del nominalismo di Ockham, sono veramente devastanti, tanto che sarebbe difficile sopravvalutarne il peso nella storia della filosofia occidentale.
Sostenere che tutta la conoscenza umana è di origine empirica, significa mettere fra parentesi tutta la metafisica (come farà Kant), svalutare la teologia, mettere in crisi le basi stesse della religione, che si fonda sulla realtà soprannaturale, fatta di cose invisibili.
Negare il concetto di sostanza, equivale a ridurre tutto il reale a fenomeno, ad accidente, a processo e mutamento: è tutta l’ontologia classica che viene rifiutata, in particolare quella di Aristotele e quella di san Tommaso d’Aquino; e, con ciò, viene annullato il gigantesco sforzo, durato parecchi secoli, per conciliare la Rivelazione cristiana con le categorie del pensiero greco e con la tradizione speculativa antica.
Negare la distinzione di potenza e atto equivale a ridurre tutto il reale ad atto puro, anticipando lo storicismo assoluto che verrà sviluppato a partire dall’idealismo, molti secoli dopo; ma, intanto, minare gravemente tutta l’impalcatura della visione cristiana della vita, fondata sulla netta distinzione fra il Creatore e le sue creature e sulla dialettico fra l’Assoluto e il relativo, fra l’Eterno e il divenire.
Sostenere che l’universale non esiste come sostanza, ma solo come concetto, equivale a un ritorno al concettualismo di Abelardo e ad un rifiuto del ragionevole ed equilibrato compromesso di san Tommaso (e di sant’Alberto Magno) fra nominalismo e concettualismo. Ma il concettualismo è, potenzialmente o esplicitamente, eretico, perché il concetto è sempre nella mente dell’uomo e si riferisce sempre a un individuo preciso, escludendo che alcuno possa sapere cosa vi è nella mente di Dio. Questo apre la strada non solo all’empirismo, ma anche allo scetticismo e al solipsismo: a rigore, infatti, io posso sapere solo cosa c’è nella mia mente, non in quella degli altri. E se l’universale non è ante rem, perché non conosciamo la mente di Dio, né in re, perché non è sostanza, ma solo post rem, in quanto formazione concettuale, non c’è più spazio per la teologia, che si basa sull’idea che ogni cosa è già presente alla mente di Dio prima di esser creata; né per la filosofia, che è conoscenza razionale di tutto il reale (e non solo del visibile e dell’individuale); ma solo per la psicologia, anzi, per un particolare tipo di psicologia: quella dell’esistente, della situazione, dell’individuale: una psicologia, cioè, che deve fare a meno di tutte le categorie universali, ad esempio l’oggettività della conoscenza da parte dell’uomo, per non parlare del concetto di verità.
In una prospettiva specificamente cristiana, frana e si dissolve, oltre alla Trinità, il concetto di peccato: non c’è più il peccato, ma ci sono solo i singoli peccati, anzi, i singoli peccati dei singoli individui, in quelle tali e tali circostanze; anzi, i singoli peccati che la mia coscienza rivela a me stesso, e solo a me stesso (chi sono io per giudicare gli altri?, direbbe qualcuno: direbbe e non chiederebbe, perché è un’affermazione e non una domanda). Ed eccoci al modernismo contenuto, in nuce, nella filosofia di Ockham. Modernista è la sua separazione fra scienza e fede; modernista è la sua affermazione che solo l’esperienza ci insegna qualcosa; modernista è l’assolutizzazione dell’individuo, il suo rifiuto dell’universale, il suo volontarismo; modernista è l’idea che, se Dio ha creato il mondo per sua imperscrutabile volontà, e non anche secondo ragione, il mondo non è intrinsecamente ordinato, ma arbitrario; modernista è l’idea che la salvezza dell’uomo sia un mistero che Dio solo conosce, e sul quale l’uomo non può influire in alcun modo, vera anticipazione del pessimismo luterano e della svalutazione luterana delle opere rispetto alla fede; modernista è anche la svalutazione, implicita o esplicita, del ruolo di mediazione svolto dalla Chiesa fra l’uomo e Dio, esattamente come per Lutero.
La cosa che merita di essere sottolineata è che il modernista pensa se stesso, e ambisce a presentarsi agli altri, come il portatore di una concezione progressista e progressiva della relazione fra Dio e l’uomo, nonché della natura e dello scopo della Chiesa: ma si tratta di una pretesa del tutto autoreferenziale. Di fatto, per la forte componente semi-protestante, razionalista, empirista, storicista e tendenzialmente scettica, esso è un enorme regresso rispetto alla concezione cristiana "classica", nella quale si realizza un felice equilibro tra la fiducia dell’uomo in se stesso e l’apprezzamento del mondo della natura, da un lato, e la consapevolezza che il destino delle creature si compie in Dio, e che la natura trova la sua ragion d’essere in Dio, dall’altro. Solo nel cattolicesimo questa sintesi giunge alla piena maturazione e, infatti, la vitalità della filosofia, della teologia, della letteratura, dell’arte e della scienza ispirate dal cattolicesimo è una prova di questa raggiunta sintesi. La cultura moderna, che da anni produce tentativi, esperimenti, "situazioni", effimere avanguardie, relativismo e pensiero debole, rappresenta un evidente regresso. Pertanto il modernismo, in quanto vorrebbe accordare la cultura e la sensibilità religiosa con le cosiddette "conquiste" del mondo moderno, e che guarda con malcelata ammirazione al protestantesimo (nonostante il suo palese fallimento, attestato dall’abbandono generalizzato della pratica religiosa), credendo di "allungare la vita" al cattolicesimo mediante un matrimonio d’interesse con la modernità, sta creando le condizioni per la sua rapida e ormai imminente liquidazione.
Il situazionismo e lo storicismo sono armi a doppio taglio. Oggi, permettono a papa Francesco di erodere e scalzare il concetto universale di peccato, sostituendovi la morale, situazionista e relativista, del discernimento. Domani, condurranno all’auto-rottamazione di qualsiasi norma morale: perché norma vuol dire universale, e l’universale significa legge, che è valida sempre e per tutti. Ma che ci sta a fare una "religione" la quale, in nome delle situazioni individuali, della "complessità", e del dovere di accompagnare le persone "ferite", finisce per fare della coscienza individuale la sola ed unica norma di vita morale? A quel punto, non c’è più bisogno di avere una chiesa. La chiesa serve a custodire la dottrina, e la dottrina si basa su una legge: ma se si indeboliscono, e in sostanza si tolgono l’una e l’altra, non è perfettamente logico che ciascuno se la veda da solo col buon Dio, senza bisogno di teologi, preti e chiese?
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