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Se l’uomo perde il tragico si vota alla disperazione

Kierkegaard: una mente veramente superiore. Non si finisce, leggendolo e rileggendolo, di ammirare la sua intelligenza poderosa, la sua vastità di orizzonti, la sua audacia speculativa. E mentre lui consumava la vita nella provinciale cittaduzza, lassù, poco conosciuto e poco apprezzato perfino nella sua Danimarca, anzi, addirittura osteggiato e dileggiato sui giornali satirici, dato in pasto all’opinione pubblica come un originale, presuntuoso e un po’ svitato, a Berlino, capitale filosofica dell’Europa, il ciarlatano Hegel teneva le sue affollatissime e applauditissime lezioni, discutibile maestro di una intera generazione, e spargeva dappertutto i semi pestilenziali del suo delirio idealista, i cui pessimi frutti — in Feuerbach e poi in Marx, per esempio — non avrebbero tardato a oscurare il già tetro cielo della civiltà moderna, affrettando la sua discesa nel vortice dell’auto-dissoluzione.

Uno dei punti più interessanti della sua lucida analisi della crisi dell’uomo moderno è trattato in Aut-Aut e riguarda la perdita del senso del tragico e, per contro, l’irruzione della disperazione nella vita delle singole persone. Il tragico antico consisteva nel senso del destino e della sofferenza, mentre l’essenza vera della tragedia moderna risiede in un intimo contrasto fra determinazione e libertà: determinazione dell’essere nostro relativo, libertà, quale rassegnazione al proprio stato (Andrea Mario Moschetti, L’unità come categoria; vol. II, Situazione e storia, Milano, Marzorati Editore, p. 79). Ed ecco il passaggio-chiave del ragionamento di Kierkegaard sull’evoluzione dal tragico antico al tragico moderno (da: S. Kierkegaard, Aut-Aut, in Samlede Vaerker, I, Copenaghen 1920, parte I, 3; traduzione di Cornelio Fabro, nella sua Antologia kierkegaardiana, Torino, Società Editrice Internazionale, 1952, pp. 5-6, ristampato con il titolo: Il problema della fede, Brescia, La Scuola, 1978):

Oggi […] si considera l’individuo responsabile senz’altro della sua vita. Allora se l’individuo si perde, non si è più nella sfera del tragico ma del male. Bisognerebbe credere che la generazione, alla quale anch’io ho l’onore di appartenere, sia un’accolta di dei. E tuttavia le cose non stanno così; quella pienezza di forze, quel coraggio che vuol essere l’artefice della propria felicità, è un’illusione, e mentre il nostro tempo perde il tragico, guadagna la disperazione. […]

Per originale che possa essere ciascun individuo, egli è comunque figlio di Dio del tempo, del suo popolo, della sua famiglia, dei suoi amici: è qui solamente ch’egli ha la sua verità e se in tutta questa relatività egli vuol essere l’assoluto, diventa ridicolo. […] L’individuo svincolato dal seno materno del suo tempo, e ciò non senza difficoltà, vuol esser assoluto in questa immensa relatività. Se invece abbandona questa pretesa e si rassegna ad essere relativo, ecco che "eo ipso" egli possiede il tragico; anche se fosse l’individuo più felice, io direi ch’egli è felice quando ha in sé il tragico. Il tragico ha n sé una mitezza infinita.

L’uomo moderno è caratterizzato da una falsa idea che ha elaborato di sé stesso: quello di una completezza, di una coesione, di una stabilità, di una assolutezza, ch’egli è ben lungi dal possedere o dall’aver mai posseduto; men che meno nel contesto della civiltà moderna, la quale nasce appunto da una rivolta deliberata contro la Tradizione. Ora, l’uomo moderno che si gonfia d’orgoglio, che s’inebria della sua intelligenza e della sua scienza, che va in delirio davanti alle meraviglie del progresso, è quello stesso che vorrebbe farsi il dio di se medesimo e che, in tal modo, si spoglia, ma solo illusoriamente, della propria finitezza, della propria limitatezza, della propria relatività; che si scorda, per così dire, d’essere sempre in situazione, ossia determinato, in maggiore o minor misura, da tutta una serie di circostanze, oltre che dalla propria condizione fondamentale di creatura, vale a dire di ente di secondo grado, che deve il proprio esistere ad altro da sé.

Questa è la contraddizione, questo è il vicolo cieco in cui la civiltà moderna ha posto gli esseri umani, dal primo all’ultimo. Da un lato, essa ha proclamato che ciascuno di essi è un piccolo dio, quanto meno è il dio di se stesso; e dunque ciascuno ha il diritto, anzi, il dovere di prendere in mano la propria vita, di viverla sino in fondo, di non badare a niente e a nessuno sulla strada del proprio destino, che è quello di realizzarsi, e, così, di essere felice; dall’altro, si è caricato sulle spalle un fardello assolutamente sproporzionato, perfino grottesco, e non osa liberarsene, non osa gettar via neppure un po’ di zavorra, perché glielo vieta il nuovo codice etico antropocentrico: ma come! Dopo aver combattuto per la libertà, gli uomini ne sarebbero già stanchi? Non è possibile. E allora, avanti, marsch!, bisogna far vedere a tutti che l’uomo moderno non scherza, che fa sul serio, che non per nulla ha spodestato, cacciato e assassinato il "vecchio" dio e si è seduto sul suo trono: Caspita! Essere il dio di se stesso offre un meraviglioso senso d’onnipotenza, ma esige pure qualche assunzione di responsabilità. Che poi si tratti di responsabilità immani, ciclopiche, immensamente superiori a ciò che le fragili spalle di un essere umano possono ragionevolmente sopportare, ebbene, pazienza, bisogna pur saper fare qualche sacrificio, saper affrontare qualche scomodità, quando la posta in gioco è così grossa. Ma forse essa è, per l’appunto, troppo grossa; forse, se l’uomo moderno non si deciderà a confessare di aver voluto strafare, di aver preteso di rivestire uno statuto ontologico che non è il suo, quello dell’ente che vuol farsi essere, del finito che vuol farsi infinito, non riuscirà mai a saltar fiori dalla palude in cui sì è ficcato.

Intanto, sta già pagando un prezzo salatissimo: l’angoscia, anticamera della disperazione. L’uomo moderno è disperato, perché si sente preso in trappola: e il guaio è che ha fatto tutto da solo, e che da lui, e solo da lui, dipende la possibilità di tirar fuori la testa dal cappio. Ma questa mossa egli non sembra disposto a farla: glielo impedisce un orgoglio diabolico, luciferino: sarebbe come ammettere d’aver sbagliato tutto, d’aver voluto vestire i panni del padrone, lui debole servo sciocco, povero burattino che ha preteso d’improvvisarsi burattinaio. Ma burattinaio di chi, di che cosa, se non ci sono altri burattini che lui e i suoi simili? Finché il destino e la sofferenza gli piovevano addosso dall’alto, incomprensibili, incontenibili, egli poteva rifugiarsi nella categoria del tragico: vi era della grandezza (e anche della dolcezza) nel suo soffrire, la grandezza della lotta generosa, ma inutile, contro forze possenti, che l’uomo non ha provocato in alcun modo, ma che si accaniscono, incomprensibilmente, malignamente, contro di lui. Ma da quando l’uomo, sulla spinta della modernità, ha voluto cacciare dio dal proprio orizzonte, anche la categoria del tragico è sfumata, si è letteralmente dissolta, e a lui sono rimaste due sole alternative: o il comico, che si manifesta per la sproporzione fra la sua individualità, la sua personalità, la sua finitezza, e l’insieme del cosmo che lo circonda, del progresso, di tutto ciò che va in una direzione diversa da quella che egli vorrebbe seguire — ed è il caso, ad esempio, di don Chisciotte: il nuovo eroe moderno, protagonista del primo romanzo moderno della letteratura europea -, oppure gli resta da interpretare una nuova categoria del tragico, il tragico moderno, diverso dal tragico antico perché non è il fato, non è il destino ad accanirsi contro di lui, ma è la sua stessa pretesa di essere dio, e quindi di godere di una libertà assoluta, che lo espone ai contraccolpi dolorosi, incontrollabili, soverchianti, di una realtà che è comunque superiore alle sue forze, e davanti alla quale egli non può che riuscire sconfitto, prostrato e umiliato. È una categoria che si avvicina alla malinconia cronica e che prelude alla disperazione: e infatti l’uomo moderno appare più angosciato e più disperato di quanto lo siano stati i suoi predecessori. Prima di Cervantes e prima di Shakespeare, l’uomo appare comunque consapevole del suo limite ontologico: è solo adesso, alla fine del Rinascimento, che filosofi come Francis Bacon teorizzano una signoria assoluta dell’uomo sul mondo, una manipolazione illimitata di tutte le specie viventi, e una scienza che sia posta al servizio della sua faustiana "volontà di potenza": knowledge is power, sapere è potere. Ma c’è un alto prezzo da pagare.

D’altra parte, l’uomo moderno ha sete, sì, di potere, ma non ha alcun desiderio di assumersene le relative responsabilità. Il suo atteggiamento fondamentale, come notava con gustosa ironia sempre Kierkegaard, è proprio quello di una fuga sistematica dalla responsabilità. Egli vuole sempre nuovi diritti, rivendica spazi di libertà, anzi pretende addirittura una libertà assoluta, cosa che lo pone nella situazione angosciosa di dover ringraziare solo se stesso se, poi, non riesce ad imprimere alla sua vita l’indirizzo "giusto". Se l’uomo moderno si perde, come nota Kierkegaard, è solo colpa sua: una volta teorizzato che non c’è alcuna volontà al di sopra della sua, come evitare di attribuire a sé solo l’eventuale insuccesso? Ma è proprio ciò che egli non vuole, che egli fugge come la peste: il potere gli piace, e anche il potere assoluto gli piace, specialmente sugli altri, sulle cose, sugli animali e sui propri simili; ma le responsabilità che il potere comporta, no. La responsabilità di dover rispondere dell’uso che egli fa della sua immensa libertà, nemmeno. Come quel ministro di Francia che si dice disposto ad assumere l’incarico, a condizione di non doverne rispondere davanti ad alcuno: comodo, vero? Ma la realtà è che l’uomo moderno non si diverte affatto: per quanto cerchi di allontanare da sé anche soltanto l’ombra di una responsabilità, non gli riesce di liberarsi dall’angoscia e dalla disperazione di vedere che la sua vita procede verso il nulla, che egli non è capace di fare di sé il proprio dio, che deve assistere, impotente e amareggiato, ai propri fallimenti, i quali sfociano nel grande fallimento finale: la vecchiaia, la malattia e la morte. Ah, se solo la natura non fosse così indelicata da metterlo davanti alla debolezza della senilità, al declino delle sue forze vitali, al triste ripiegarsi della sua stessa intelligenza. Se potesse cadere in battaglia, nel fiore degli anni, ancora bello e prestante, come gi eroi antichi: come un Ettore, che cade sotto le mura di Troia per difendere la sua patria, la sua famiglia e i suoi dei; o almeno come Saul, che si getta sulla propria spada nel pieno della battaglia, per non cadere, vivo, nelle mani dei nemici. E invece, no: gli tocca invecchiare in una casa di riposo e morire in una stanza d’ospedale, come un estraneo, pieno di rimpianti e di rimorsi, il primo dei quali è di non essere stato al’altezza del compito sublime che si era assunto, con un tacito patto, al momento di entrare nel mondo. Di fatto, l’uomo moderno non ha scelto di essere dio: vi si trova costretto, perché tale è la richiesta che gli viene fatta dal mondo intorno a lui. Non è previsto che egli rifiuto; può solamente accettare. Ma è un patto sleale, che lo pone di fronte a compiti irrisolvibili, molto più grandi lui: come potrebbe, limitato ed incerto com’è, recitare la parte di colui che si muove nell’assoluto, ed è capace di decisioni assolute? All’uomo moderno, immerso nel flusso incessante del relativo, non si addicono che decisioni relative: cioè piccole, modeste, titubanti, malferme; decisioni che egli per primo di riserva di mutare e annullare alla prima occasione, perché, dopotutto, nessuno può sapere cosa porterà il domani. Certo, un dio lo saprebbe: ma l’uomo moderno non è dio, anche se la società in cui vive pretende da lui che si comporti come se lo fosse. Dunque, essa pretende che egli prenda la vita nelle sue mani, e che ne faccia quel che vuole, in assoluta libertà: che si assuma, pertanto, anche la responsabilità di ciò che vuol diventare. Ma questo è impossibile. L’uomo sa bene di non disporre di una tale libertà, una libertà assoluta, ma solo e unicamente di una libertà relativa: e dunque, la richiesta che gli viene fatta è assurda, crudele, irricevibile. Egli, difatti, vorrebbe ribellarsi: ma come fare? La sua famiglia, i suoi educatori, le sue guide, i suoi amici, i suoi fratelli, tutti lo guardano e si aspettano da lui un contegno "virile": si aspettano che si ponga il proprio destino sulle spalle e che reciti la sua parte sino in fondo. E che la reciti in sincronia con la grande recita collettiva, beninteso; altrimenti, diverrebbe automaticamente un personaggio comico, del quale si ride solamente perché è solo un singolo che pretende di opporsi alla totalità, al divenire, alla necessità.

È curioso: la situazione dell’uomo moderno, che ha voltato le spalle al vero Dio, somiglia alquanto a quella dell’uomo antico, che non lo conosceva. Anche l’uomo antico oscilla fra la situazione comica, come Aiace che si scaglia contro un ‘esercito’ di pecore e ne fa strage, perché ha perso il senno, e scambia le povere bestie per gli Atridi dei quali vuol vendicarsi; e quella tragica, come quando Agamennone deve sacrificare la figlia Ifigenia, ma non c’è il vero Dio a fermargli la mano, come fermerà la mano di Abramo sul punto d’immolare Isacco. Anche l’uomo antico è miniato dall’angoscia e dalla disperazione: tutti gli eroi omerici combattono per disperazione, più che per la gloria: per una gloria sempre maggiore, che li obbliga a delle prestazioni sempre più audaci e smisurate, dunque sempre più "disperate"; ma, nello stesso tempo, sono consapevoli dell’inutilità di tutta quella smania di gloria, perché le generazioni degli uomini cadono e si succedono come le foglie, dice Glauco a Diomede, e i morti mai più godranno la dolcezza di vivere. Ecco perché la civiltà moderna è un ritorno al paganesimo: essa è un ritorno alla disperazione, conseguenza della posizione falsa in cui l’uomo s’è messo da solo. E non ne uscirà, se non invocando: Abbà! Pade!…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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