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Le anime sono come cera in attesa del sigillo

Che cos’è l’anima di un essere umano? È un foglio bianco, una cera in attesa del sigillo che verrà impresso su di lei, mostrando, una volta per tutte, se essa è divenuta quel che doveva essere, se vi si è avvicinata, oppure se ha scelto di diventare tutt’altro, tradendo se stessa e mancando alla propria vocazione divina. Tutte le anime sono chiamate, tutte hanno una vocazione; nessuna è destinata a vivere solo per se stessa.

E che cos’è un sigillo? Un sigillo è un segno, signum (diminutivo: sigillum) che s’imprime su di un documento per certificarne l’autenticità. Nello stesso tempo, un oggetto "sigillato" è un oggetto che ha ricevuto una forma definitiva, e il cui contenuto non può più essere alterato o modificato. Non si può aprire una lettera sigillata, se non rompendo il sigillo; e non si può entrare in una casa sui cui siano stati apposti i sigilli, se non spezzando questi ultimi. Ciò che ha ricevuto un sigillo, ciò che è stato impresso con un sigillo, deve restare così come è: quella lettera, quella casa, sono state sigillate, ma anche suggellate; e una cosa suggellata è una cosa definita, compiuta una volta per tutte; suggellare un’azione, una cerimonia, un’impresa, vuol dire imprimere ad esse il tratto definitivo, portarle a coronamento. Anche "suggello" deriva da sigillum. Sigillare, suggellare, indicano l’azione di chiudere qualcosa, o di portarla a compimento, o entrambe le azioni insieme: chiudere e portare a compimento.

L’anima riceve il suo sigillo al momento della morte; ma non è la morte, il sigillo. Il sigillo è il giudizio di Dio; meglio: è lo specchiarsi dell’anima nella sua volontà. Al momento della morte, quando tutte le azioni e i pensieri della vita terrena sono stati compiuti, e l’ultima pagina bianca è stata scritta, si può vedere, nella maniera più chiara, se l’immagine che quell’anima ha dato a se stessa è conforme, oppure no, alla volontà di Dio; e, se no, di quanto se ne discosta, se di molto oppure di poco. Riuscita è la vita che ha saputo plasmarsi secondo la sua volontà; fallita, o mancata, è la vita che non vi si è per nulla conformata, che ha preteso di vivere solo e unicamente per se stessa: il che è l’essenza del peccato. E tutto questo si vede sull’anima, con la stessa chiarezza con cui si può riconoscere il disegno di un sigillo, ancora caldo, impresso sulla bianchezza della molle cera. L’anima si specchia in Dio, così come la cera, tolto il sigillo, rivela oppure no la fedeltà al disegno che vi è stato impresso. Gli uomini che vogliono vivere per se stessi fanno della loro vita qualcosa di contorto, di erratico, di stralunato: credendo di realizzarsi, si sono alienati da se stessi, perché la casa dell’anima è in Dio, e Dio è già presente nelle profondità dell’anima, e non cessa di chiamarla, fino all’ultimo giorno della vita mortale. Poi la chiamata tace, e il sigillo viene impresso. È il momento della verità. Spogliata delle false apparenze, l’anima si mostra nuda, per quello che realmente è. Non può più barare, non può più mentire, non può più illudersi. Parlano i fatti e solamente i fatti. Proprio per questo, il detto popolare ricorda che l’inferno è lastricato di buone intenzioni.

La similitudine della cera e del sigillo è molto antica; fra i moderni, uno scrittore che l’ha ripresa con molta efficacia è stato Thomas Merton (1915-1968), il famoso monaco trappista americano, molto conosciuto soprattutto per essere stato un esponente di punta del clero cattolico impegnato attivamente sui temi della pace, dell’ecumenismo, del dialogo interreligioso e dei diritti civili, ragion per cui la cultura cattolica di sinistra si è affrettata ad impadronirsi della sua figura e della sua vasta opera e a farne un’icona delle sue posizioni. Ma basta leggere uno dei suoi libri di spiritualità, e pensare alla drastica scelta della vita di un monaco trappista, per capire che l’icona cara ai cattolici progressisti rivela di essere solo una parte della ricca e complessa personalità di Merton. In lui è presente anche una spiritualità profondissima, un’ansia di perfezione e unione mistica con Dio quali raramente si trovano in altri scrittori cristiani del XX secolo. E anche se certe sue prese di posizione sono state, effettivamente, sopra le righe, almeno a nostro giudizio, ciò non significa che in lui si possa vedere nient’altro che il precursore del troppo decantato "spirito conciliare". Certe pagine di Merton, al contrario, sembrano scritte da un monaco di clausura del Medioevo, tanto sono distaccate dalle cose terrene e immerse nella silenziosa e trepidante contemplazione di Dio. È come se quell’uomo straordinario fosse stato capace di staccare la spina e d’isolarsi completamente dal rumore del mondo, comprese quelle ideologie e quella battaglie, in cui pure interveniva e s’impegnava, ma che, al suo sguardo interiore, null’altro gli apparivano che qualcosa di fugace e d’illusorio, qualcosa che scompare addirittura quando l’anima si abbandona al cospetto dell’eternità di Dio.

Davanti al mistero di Dio, del Dio che si è rivelato all’uomo in Cristo, facendosi uomo Egli stesso, Merton prova, e riesce a trasmettere ai suoi lettori, un senso di vertigine: è un’ebbrezza, un trasporto, un’esaltazione che dilata ogni istante e ogni spazio e li proietta, moltiplicati all’infinito, in una dimensione sconosciuta, luminosa, gioiosa, dove i limiti scompaiono e le barriere si dissolvono, perché l’universo intero si riconosce in Dio, suo creatore, suo redentore e suo giudice supremo. Scriveva in uno dei suoi libri più conosciuti di meditazione e spiritualità (F. Merton, Da "Semi di contemplazione", Roma, Figlie della Chiesa, 1953, pp. 60-62):

Lo Spirito Santo viene mandato ogni momento nella mia anima da Cristo e dal Padre che dimorano nel mezzo della mia anima, allo stesso modo in cui il sangue della mia vita viene mandato dal cuore in tutte le parti del mio corpo. E questo Spirito mi riporta in Cristo e mi lega al Padre in Lui, cos’ che la mia vita è nascosta con Cristo in Dio. Eppure io mi allontano da Lui, nel Suo Spirito, per fare la Sua opera e adempiere la Sua volontà fra gli uomini. E quando viene il momento secondo la Sua volontà, Egli mi attira di nuovo a Sé.

Se ho questa vita in me, che mi importa degli accidenti di pena e piacere, speranza e paura, gioia e dolore? Essi non sono la mia vita, e poco hanno a che fare con essa. Perché dovrei temere qualcosa che non può privarmi di Dio e perché dovrei desiderare qualcosa che non può darmi il possesso di Lui?

Le cose esteriori vanno e vengono, ma perché dovrebbero commuovermi? Perché la gioia dovrebbe eccitarmi e il dolore dovrebbe abbattermi, il piacere allettarmi e la pena turbarmi, la vita attirarmi e la morte destare la mia repulsione, se io vivo solo della Vita che è in me per dono di Dio?

Perché dovrei crucciarmi di perdere una vita corporale, che deve inevitabilmente andare perduta, fino a quando posseggo una vita spirituale e un’identità che non possono andare perdute contro il mio desiderio? Perché dovrei aver paura di cesare di essere ciò che non sono, quando sono già diventato qualcosa di ciò che sono? Perché dovrei affaticarmi per conseguire soddisfazioni che non possono durare un’ora e che portano con sé sofferenza, quando possiedo già Dio nella Sua eternità di gioia?

È la cosa più facile del mondo possedere questa vita e questa gioia: devi soltanto credere e amare; eppure c’è gente che consuma la propria vita in immani fatiche, difficoltà e sacrifici per ottenere cose che rendono la vera vita impossibile.

Questa è una delle principali contraddizioni che il peccato ingenera nelle nostre anime: dobbiamo fare violenza a noi stessi per non affaticarci inutilmente per ciò che è amaro e senza gioia e dobbiamo fare uno sforzo per prendere ciò che è facile e pieno di felicità, quasi fosse contro il nostro interesse, perché per noi la linea di minor resistenza conduce sulla via della maggiore difficoltà, e qualche volta, per noi, fare ciò che è, in sé, estremamente facile può rappresentare la cosa più difficile di questo mondo.

Le anime sono come cera in attesa di un sigillo. Per sé stesse non hanno una speciale identità. Il loro destino è quello di essere plasmate e preparate in questa vita, dalla volontà di Dio, a ricevere, alla loro morte, il sigillo del loro grado di somiglianza a Dio in Cristo.

È ciò che significa, fra l’altro, essere giudicato da Cristo.

La cera che è diventata molle nella volontà di Dio può ricevere facilmente lo stampo della propria identità, e può in verità divenire ciò che era destinata ad essere. Ma la cera che è dura, secca, fragile, e senza amore non prende il sigillo, perché questo, cadendovi sopra, la riduce in polvere.

Quindi se trascorrerete la vita ne tentativo di sfuggire al calore del fuoco che deve ammorbidirvi e prepararvi a diventare il vostro vero io, se cercherete di impedire alla vostra sostanza di fondersi nel fuoco — come se la vostra vera identità dovesse essere cera dura — il sigillo cadrà alla fine su di voi e vi frantumerà. Non potrete ricevere il vostro vero nome e il vostro vero aspetto, e sarete distrutti dall’evento che avrebbe dovuto darvi la vostra perfezione.

Dunque, il segreto è questo: lasciar perdere le cose inutili, che non portano a Dio, e quindi allontanano anche l’uomo da se stesso, lo allontanano dal suo vero bene e dalla sua vera pace, e cercare l’essenziale, che è Dio. Anche l’amore del prossimo, per il cristiano, si manifesta come un riflesso dell’amore di Dio. Se così non fosse, non si avrebbe l’amore cristiano, bensì il filantropismo: e il filantropo è uno che ama l’uomo vedendo nell’uomo l’unico essere meritevole di amore e di considerazione, tagliando fuori ciò che gli sta al di sotto, come gli altri esseri viventi, e ciò che gli sta al di sopra: i Santi, gli Angeli, la Madonna e Dio. Il filantropo non ha bisogno di Dio: vuol essere lui il dio di se stesso, o meglio, vuol essere lui dio per gli altri uomini. Vuole sentirsi potente e vuole sentirsi buono. Ma nessuno è potente, tranne Dio Onnipotente, e nessuno è buono, tranne il Padre. Perché mi dici buono?, domanda Gesù a un uomo che l’aveva apostrofato con l’espressione "maestro buono". E aggiunge: Uno solo è buono, Dio. L’uomo è fragile ed è incapace di bontà incondizionata: se fa il bene, lo fa per se stesso, oppure in vista di un vantaggio, magari indiretto. Solo se l’uomo si annulla come io, e restituisce il suo io al suo Creatore; solo se si fa tutt’uno con Dio, rinunciando a stesso; solo se è capace di rinunciare ai suoi piani, alle sue speranze, perfino ai suoi bisogni, per lasciarsi riempire totalmente, senza riserve, dalla volontà di Dio, e gli permette di agire per mezzo di lui, come un puro e semplice strumento, solo allora l’uomo ritrova la pace, la vita, il senso, la meraviglia, l’incanto, lo stupore, la beatitudine: solo se permette alla sua cera di farsi molle, di essere plasmata e modellata da Dio. Le prove, le rinunce e le sofferenze della vita sono la maniera di cui Dio si serve perché la nostra cera si lasci modellare. L’anima che gli resiste, che non gli riconosce i suoi diritti, che si chiude alla sua chiamata, sceglie le tenebre: perché, lontano da Dio, non c’è alcuna luce, alcun calore, alcun bene. Il mondo diventa orribile, un luogo gelido, ghiacciato dall’egoismo e dalle passioni più degradanti e bestiali. Solamente l’anima che gli si abbandona, così da poter ricevere perfettamente il suo sigillo, realizza se stessa. Il destino dell’anima è Dio. L’anima che rifiuta Dio e si allontana da Lui, è perduta.

Di un’anima che è giunta alla fine della vita mortale, la mistica francese Marthe Robin (1902-1981), cieca e immobile nel suo letto di dolore, sempre al buio perché i suoi poveri occhi non sopportavano la luce, diceva, pensosamente: Allora è compiuta. In latino, "compiere" si esprime con il verbo perficere, il cui participio passato è perfectus. Una cosa compiuta è una cosa perfetta, e una cosa perfetta è una cosa compiuta. Precisiamo: è perfetta quella cosa che si è compiuta, così come doveva essere; non quella cosa che si è compiuta in maniera difforme da ciò che doveva essere. Le cose non si realizzano a caso: tutte sono chiamate a realizzarsi secondo il modello assegnato a ciascuna da Dio. In questo consiste la vera libertà: nel divenire ciò che si deve essere, non ciò che si vuole. Al capriccio, sempre mutevole e imprevedibile, delle volontà individuali, si contrappongono l’ordine, la sapienza e la perfezione della volontà divina, che vuole solo il bene, e che non desidera, per ciascun’anima umana, nient’altro che il bene. Il guaio è che noi facciamo resistenza, perché ci sembra che sia molto più semplice e divertente vivere come ci pare e piace, senza alcun ordine e senza giustizia. La giustizia è dare a ciascuno secondo ciò che gli spetta; all’anima spetta la libertà, con cui potersi realizzare; ma essa si realizza solo nella relazione d’amore con Dio. Pertanto, se l’anima usa la propria libertà, pervertendola, per cercare e perseguire non ciò che è giusto, ma unicamente ciò che le piace, essa non troverà Dio, né la pace, e nemmeno se stessa. E, se non trova se stessa, di certo non si realizza. Dunque, per ritrovarsi, l’anima deve perdersi. Dice ancora Gesù: Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. I cristiani della domenica, cioè un po’ tutti noi, se n’erano dimenticati. Ci eravamo scordati che il Vangelo non chiede poco, anzi, chiede moltissimo, chiede tutto; ma che Gesù ha promesso, in cambio, di dare dieci volte tanto. Pensiamoci: un po’ di tempo, in cambio dell’eternità.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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