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La nostra proiezione s’interpone fra noi e l’altro

L’ostacolo principale alla nostra relazione con l’altro è rappresentato dalla nostra proiezione di noi stessi, che si allunga come un’ombra davanti al nostro sguardo e ci impedisce di vedere l’altro per quello che è, ma ci rimanda sempre un riflesso di noi stessi. In altre parole, quando crediamo di osservare l’altro, è noi che stiamo osservando: siamo prigionieri dei mille specchi del nostro ego, e questo ci rende impossibile una relazione autentica con l’altro. E come potrebbe essere diversamente, se noi non riusciamo nemmeno a vedere l’altro per ciò che è, ma soprapponiamo continuamente la nostra immagine alla sua? Noi "imprestiamo" all’altro le nostre aspettative, buone o cattive, lo rivestiamo con i nostri stessi coloroi, lo rendiamo simile a una copia di noi, di una parte di noi, quella che brama e spera e vuole ciò che non è, ma che vorrebbe essere: ne facciamo il campo di battaglia del conflitto che segna il nostro io diviso, lacerato, schizofrenico. Logico che la relazione ne risenta, ne soffra: non è una relazione autentica, ma una relazione malata, riflesso della malattia che coviamo in noi stesi, del nostro sdoppiamento, della nostra incapacità di essere ciò che dovremmo essere. Invece di sforzarci di realizzare la nostra vocazione, proiettiamo sull’altro quel che non abbiamo, quel che vorremmo essere o quel che temiamo di essere: lo "carichiamo" delle nostre frustrazioni, delle nostre velleità e delle nostre illusioni.

L’unica cosa che potrebbe rendere il nostro sguardo puro e veritiero è proprio quella che ci guardiamo bene dal fare: lasciar andare il nostro io, placare le nostre aspettative, rinunciare alle nostre brame irragionevoli; in altre parole, provare ad essere delle persone autentiche, mentre è assai più facile, più comodo e più rassicurante insistere nella finzione e nella menzogna, raccontarci un sacco di fandonie e recitare una parte che non ci appartiene, che non è la nostra, ma che ci consente di tirare avanti, in qualche modo, senza doverci sobbarcare la fatica più improba e il lavoro più temuto: quello di metterci seriamente in discissione. Anche se sentiamo che qualcosa non va come dovrebbe, anche se intuiamo che, per questa strada, non arriveremo mai alla pienezza di noi stessi, ma soltanto a fabbricare dei misteri palliativi e delle forme d’autoinganno, la prospettiva di rinunciare alle nostre ipocrisie e di sbarazzarci dei nostri miseri paraventi è, per la maggior parte di noi, così terrorizzante, che preferiamo insistere sulla strada sbagliata, ma ormai ben conosciuta, piuttosto che affrontare il rischio di cercare la strada mai percorsa prima, e farci carico dell’ignoto. L’abitudine, il conformismo, la viltà, la pigrizia e la pusillanimità cospirano insieme per trattenerci dal gesto risolutore, dalla virile presa di coscienza che così non si può andare avanti, che bisogna fare i conti con se stessi, ma in maniera onesta, rinunciando alle carte truccate; e invece preferiamo barare al gioco sino all’ultimo, prendendo in giro noi stessi, per poter seguitare a prendere in giro gli altri. Ma non c’è da stupirsi che la nostra relazione con l’altro sia così cattiva: finché il nostro sguardo non ci dà l’immagine dell’altro, ma solo quella delle nostre aspettative, è inevitabile che si accumulino i fallimento, gli insuccessi, le delusioni, le amarezze. Siamo diventati, alla lettera, delle mine vaganti, pronte a deflagrare alla minima sollecitazione, perché ogni incontro diventa un equivoco, un malinteso, e quindi o uno scontro, o una solenne delusione, portatrice di uno strascico di sentimenti e pensieri negativi, che abbassano la nostra autostima, ma anche la stima che abbiamo degli altri.

Osserviamo le persone sagge, pacificate, amiche di se stesse: il loro sguardo è limpido e trasparente, non proietta il loro io sull’altro, ma lo vede per quello che è, lo riconosce nella sua alterità, prende atto del suo tu che è cosa diversa dal proprio io. Esse sono capaci d’istaurare relazioni autentiche, perché non sovrappongono all’immagine dell’altro la proiezione di se stesse; non rivestono l’altro con lo spettro dei propri fantasmi interiori; non scaricano sull’altro, inconsapevole, il lavoro che avrebbero dovuto fare su se stesse, quello di guardarsi con occhio veritiero, di abbandonare le menzogne e assumersi la responsabilità del proprio essere e del proprio dover essere. Dall’incontro con simili persone, infatti, non derivano mai delusioni, amarezze o rancori.

Ha notato il pensatore indiano R. P. Kaushik nel suo libro Alchimia organica (traduzione di Enzo Pollonio, Roma, Casa Editrice Astrolabio, 1977, p. 99):

Avete mai visto quale sia nella vostra mente il rapporto tra  osservatore e osservato? Quando guardo il mondo o guardo voi, io sono l’osservatore e voi l’osservato. Ma cosa avviene? Non vi sto guardando, vi sto classificando e interpretando. In altre parole, nel momento in cui comincio a guardare, c’è una proiezione. A livello della mente umana non c’è osservazione, ma solo proiezione. Non lo fate consciamente. Non vorrei proiettare, vorrei osservare, comprendere ciò che siete. Ma proiettare è nella natura dell’osservatore; non appena volete osservare qualcosa, ha inizio una proiezione involontaria. Non siete in grado di guardare l’osservato, state solo guardando l’osservatore. Ogni volta che vi guardo, proietto il mio proprio contenuto conscio e inconscio su di voi. Questa è la ragione per cui è tanto difficile vedere.

Ci si può chiedere cosa sia questo "vedere". è qualcosa di mistico, di speciale? è molto semplice, se capite cos’è il non vedere. Quando c’è proiezione, non vedo. La proiezione impedisce di vedere, distorce la visione. Le stesse proiezioni non sono stabili. L’osservatore proietta pensieri e immagini, a volte a livello conscio, a volte a livello inconscio, dividendo, valutando e confrontando. Questa fluidità e inconsistenza dell’osservatore è il più grande ostacolo nella percezione. Qui si crea l’illusione, perché non posso mai approdare all’osservato. L’osservato, il principio femminile, è sempre separato dall’osservatore. O possiamo anche dire che osservatore e osservato sono frammisti e confusi l’uno con l’altro. L’osservatore crede di vedere l’osservato e di corrispondere con esso, ma è preso nella trappola dell’illusione. La proiezione dell’osservatore non è neppure completa, poiché vede qualcosa dell’osservato e qualcosa di se stesso. C’è confusione e mescolanza tra i due, una massa informe.

Come abbiamo detto, l’unica maniera di rendere limpido lo sguardo di colui che osserva e di evitare che la nostra proiezione si sovrapponga all’immagine dell’altro, sospingendoci in un mondo d’illusioni, consiste nel liberarci dal nostro io ipertrofico e nel lasciar andare l’incessante produzione di aspettative irrealistiche e, non di rado, patologiche, che accompagna quel sonno sonnambolico che è la nostra vita. In altri termini, dobbiamo destarci. Finché resteremo dei dormienti che credono di essere desti, non arriveremo mai a liberarci dalla gabbia d’illusioni che ci siamo costruiti intorno, e che rende così poco appagante, così frustrante, così carico di amarezza il nostro cammino esistenziale. Noi camminiamo ogni giorno sulle macerie fumanti dei nostri sogni infranti, ma non vogliamo ammettere che siamo noi stessi la causa di tutto questo spreco, di questa rovina, di questa incessante distruzione.

Ma come fa a destarsi un dormiente, quel particolare tipo di dormiente che pensa d’essere perfettamente sveglio? Come fa a capire che, quando si parla della necessità di rendere limpido il proprio sguardo, si sta parlando proprio di lui; che de te fabula narratur? Perché, di norma, egli si guarda attorno e cerca con lo sguardo colui al quale si può riferire un tale invito, una tale esortazione: non lo sfiora neppure la mente che è proprio lui quegli che si dovrebbe destare, e che dovrebbe uscire dal proprio sonnambulismo. Questo è il vero problema. Certo, può provarci qualcuno dal di fuori: ma sappiamo quanto sia difficile, per non dire impossibile. Se anche fosse un autentico maestro spirituale a prendersi cura di lui, nulla potrebbe fare di fronte a un dormiente che si ostina a dormire, credendo, però, di essere perfettamente sveglio. Sarebbe come se il più grande maestro di musica cercasse d’insegnare un po’ della sua arte a un discepolo totalmente privo di orecchio musicale, e tuttavia convinto, convintissimo, di essere un eccellente cantore e di possedere tutti i requisiti per farsi strada con onore nel mondo delle sette note. In casi del genere, ogni sforzo risulta vano, perché viene a mancare la premessa medesima dell’apprendimento: la coscienza del discente di essere bisognoso di apprendere. Non c’è nemico più grande dell’ignoranza di se stessi; non c’è impresa più ardua, più disperata, che quella di far prendere coscienza della sua condizione a colui che è del tutto inconsapevole di sé. Sarebbe più facole ripulire le stalle di Augia, o uccidere l’idra di Lerna, le cui teste ricrescono più numerose quando vengono tagliate, che far capire a un dormiente che si deve destare, cioè che egli sta dormendo ed è profondamente immerso in chissà mai quali sogni, incubi e allucinazioni.

Dunque, siamo arrivati a capire che la sola possibilità di ridestare il dormiente è che qualcosa si insinui nella sua coscienza; che una scintilla di consapevolezza riesca a farsi strada oltre la corazza delle sue illusioni, della sua ignoranza e del suo istinto difensivo, che lo porta a negare la realtà e a rinchiudersi nella cittadella di un io ingannevole e farneticante, altamente distruttivo nella sua inconsapevolezza. Una simile scintilla può partire dall’esterno, può essere innescata dalle parole, dai gesti, dallo sguardo di un altro, intenzionali oppure no; tuttavia, se non trova un’eco adeguata nelle profondità della coscienza, non servirà a nulla e si spegnerà senza lasciare tracce. Pertanto, anche un incontro significativo con una persona benevola e illuminata, che si trovi ad un livello superiore di consapevolezza, può favorire il risveglio del dormiente, ma solo se sarà costui a volerlo, e a volerlo fortemente. Nulla, nella vita, viene dato gratis; tutto deve essere guadagnato con sacrificio personale; e se qualcosa pare che arrivi gratis, in un secondo momento — magari a distanza di anni — arriverà il conto da pagare, e sarà salato. D’altra parte, solo le cose che costano sforzo e che implicano sacrificio insegnano qualcosa a colui che le realizza e le conquista; le cose che non costano alcuna fatica e che non richiedono alcun sacrificio, scivolano via senza lasciare tracce e senza concorrere affatto alla formazione del carattere e al rafforzamento della volontà. Pertanto, è necessario che sia proprio il dormiente a intravedere la necessità del proprio risveglio, a desiderarlo e a volerlo; gli altri potranno essergli d’aiuto, ma solo in forma complementare e sussidiaria. La legge fondamentale della vita è questa: siamo noi che dobbiamo farci carico di noi stessi; nessun altro lo può fare al posto nostro. Da ciò si comprende quanto siano fallaci, ingannevoli e truffaldine tutte le ricette preconfezionate, tutte le scorciatoie che vengono offerte sotto forma di sedicenti corsi di consapevolezza, di spiritualità, di meditazione, sotto la guida di sedicenti maestri, i quali, sovente, altro non sono che furbi profittatori delle illusioni altri (e del loro portafogli), oppure dormienti anch’essi, che vivono nell’illusione di poter risvegliare gli altri, quando i primi a vivere in uno stato di sonnambulismo sono proprio loro. Ciechi che pretendono di guidare altri ciechi; illusi che pretendono di mostrare la strada ad altri illusi; dormienti che pretendono di risvegliare altri dormienti: gli uni e gli altri intrappolati nel loro ego, nel loro narcisismo, nella loro vanità, e sprofondati nei loro vizi. Perché bisogna dire anche questo: che i vizi capitali — la lussuria, l’ira, la superbia, l’avidità, la gelosia, l’invidia, la frode — si accompagnano quasi sempre all’inconsapevolezza, e quanto più essi spadroneggiano sulla coscienza, fino ad ottunderla completamente e sovvertire ogni senso morale, tanto più essa è imprigionata nella trappola dell’ego e continua a dormire il suo sonno artificiale. Quasi sempre il disordine morale è una causa, o una concausa, della mancanza di consapevolezza di sé, del proprio stato, dei propri autentici bisogni, e, indirettamente, della mancanza di autostima. Molte persone non si vogliono bene, anzi, si disprezzano, proprio perché intuiscono di essere sprofondate in una palude fangosa e nauseabonda, ma non hanno il coraggio di guardarsi dentro con un poco di onestà; preferiscono fingere di essere in un bel giardino e di sentirsi fiere e soddisfatte del proprio stato. In questo modo, però, è assolutamente certo che non si risveglieranno mai: sono anime perse, e, in un certo senso, sono già morte quando credono di essere ancor vive.

Esiste un’altra strada per uscire dalla palude: una strada che non richiede corsi di meditazione trascendentale, né la ricerca di maestri spirituali veri o fasulli (e nemmeno il possesso di un portafogli ben fornito): quella che consiste nel domandare, umilmente, e devotamente, l’aiuto di Dio. Là dove gli uomini non possono fare niente, Lui può fare tutto: può trasformare un neghittoso in un’anima ardente, un codardo in un audace, un meschino e un egoista, in un magnanimo e un generoso. Però, a che in questo caso, è necessario che sia la coscienza a ridestarsi: la grazia di Dio può gettare un gran fascio di luce, ma ciò produrrà dei frutti solo se trova una coscienza disposta a lasciasi illuminare. L’uomo deve fare la propria parte; nemmeno Dio lo può salvare, se non è disposto ad esser salvato. La misericordia di Dio è immensa, ma non si attua mai nostro malgrado…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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