
Nel magazzino delle cose dimenticate: il fioretto
15 Settembre 2017
Ma che cos’è questa Chiesa delle periferie?
16 Settembre 2017Di monsignor Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno, il quale tiene, con molta disinvoltura, una rubrica fissa, Gente di fede, dedicata a rispondere alle domande dei lettori, sulla rivista di gossip Il settimanale nuovo, tra un servizio illustrato sulle curve generose del lato A dell’attrice Tal dei Tali, e un altro sulle curve, ancor più generose, del lato B della show-girl Talaltra (le altre rubriche, per farsi un’idea del giornale: I nostri soldi; Parole d’amore; Weekend, Moda, Bellezza, Salute, Oroscopo, Addominali (sì, c’è una rubrica fissa solo per gli addominali), Giochi, Cinema, eccetera), ci eravamo già occupati in un precedente articolo, discutendo ciò rispondeva, in maniera banale e buonista, al quesito di un lettore circa la suora cattiva che non si ferma per fare la carità ad un mendicante professionista. Ci è impossibile non tornare a parlare dei lui, essendoci capitato fra le mani il numero del 17 agosto 2017 di quella rivista, nel quale egli tratta, con la consueta leggerezza, un tema assai ampio, l’azione riformatrice di papa Francesco; e lo tratta da par suo, cioè da modernista e non da vescovo o da sacerdote cattolico. Ma siccome non ne possiamo più di questo clero modernista che si spaccia per cattolico, che fa credere ai fedeli di essere cattolico, e che smercia loro moneta falsa facendola passare per buona, cioè prendendoli in giro su una questione terribilmente seria — la vera fede e, quindi, la salute delle anime — sentiamo l’obbligo morale di dire forte e chiaro che costoro non sono cattolici, che non insegnano la dottrina cattolica, che sono in realtà dei modernisti, cioè dei pericolosi eretici che si travestono da cattolici, ai quali san Pio X aveva comminato la scomunica sin dal 1907, con l’enciclica Pascendi.
A dire il vero, dall’articolo di monsignor D’Ercole non traspare nemmeno un modernismo vero e proprio, ma un atteggiamento di tipo modernista: ossia un atteggiamento di quasi incredibile nonchalance nel trattare questioni serie e delicate, una approssimazione pastorale inverosimile, e una conoscenza teologica che, un tempo, sarebbe valsa una sonora bocciatura a qualunque seminarista alle prese con l’ABC della dottrina cattolica. Ciò che intendiamo dire che è che i veri modernisti, sia quelli della prima ondata — i Loisy, i Tyrrell, i Buonaiuti -, sia quelli dell’ondata di mezzo — i Teilhard de Chardin — sia, infine, quelli dell’ondata conciliare e postconciliare — i Rahner, i Kasper, i Schillebeeckx, eccetera — possedevano un notevole spessore culturale: infatti era proprio la superbia intellettuale la ragione prima dei loro errori. Non è che non conoscessero la teologia cattolica; la conoscevano, e anche bene: è che pretendevano di sostituirla con le loro idee, moderniste e antropocentriche, gettando via la Tradizione e adattando le Scritture alle loro idee moderniste, protestantizzando il cattolicesimo e introducendo il principio della libera interpretazione, nonché riducendo a "simboli" o "miti" praticamente tutte le cose che riguardano la dimensione soprannaturale, e quindi lasciando, della dottrina, solo una vaga impalcatura morale, che ciascuno intende a modo suo, secondo il proprio "sentimento" religioso. Ma i Paglia, i Galantino, i Sosa Abascal, i Martin, i D’Ercole, mostrano una straordinaria ignoranza teologica e una ancor più stupefacente disinvoltura nel sostenere punti di vista balordi e peregrini, fondato su argomentazioni da autobus o da bar: Non sappiamo cosa disse veramente Gesù perché a quel tempo non c’erano i registratori, dice, per esempio, padre Sosa, che non è un Pinco Pallino qualsiasi, ma il nuovo generale dei gesuiti. E che dire dell’affermazione, fatta da papa Francesco in persona (il 19 aprile 20017, nel corso di un’udienza generale ), che la morte di Gesù sulla croce è un fatto storico, mentre la Resurrezione è "solo" un atto di fede? Un mese prima, il 17 marzo, sempre in un’udienza al Palazzo Apostolico, il papa, per spiegare l’unità e la differenza nella Santissima Trinità, aveva detto che è come se le Tre Persone divine stessero sempre a litigare a porte chiuse, mentre, al di fuori, danno un’immagine di unità.
Ed ecco cosa scrive monsignor D’Ercole a una lettrice che chiede il suo parere sulla nomina del cardinale Gualtiero Bassetti a presidente della C.E.I.; lettrice che, peraltro, non sembra aver bisogno di pareri altrui, visto che ha già le idee ben chiare, affermando che quella nomina contribuisce a creare "una Chiesa diversa, più aperta e più vicina al messaggio di Cristo": una affermazione talmente in sintonia con la linea di Bergoglio e dello stesso D’Ercole, che sembra più un’imbeccata che una vera domanda (ma costoro ci prendono proprio per scemi? A noi, che conoscevamo la Rivista della RDT, queste domande e risposte concertate hanno un suono familiare, di cosa già vista e molto triste, in perfetto stile sovietico):
Carissima signora Amalia, papa Francesco sta cambiando la Chiesa in moltissimi modi: anche con i gesti, per esempio, ma soprattutto con innovazioni che attecchiranno sempre di più nel terreno sociale e nel cuore della gente col trascorrere del tempo. È difficile e prevedere come sarà la Chiesa fra vent’anni, perché la Chiesa delle periferie — come ama dire spesso il Pontefice — ci riserverà ancora tantissime sorprese. La nomina del cardinale Gualtiero Bassetti si inserisce in modo stupendo in questa tendenza. Il porporato, infatti, da sempre si è distinto per l’annuncio appassionato del Vangelo e per il servizio ai poveri, che rimangono nel cuore della sua e della nostra vocazione. Per questo, papa Francesco ha già invertito un paradigma: la giustizia non è il fine ultimo dell’evangelizzazione, ma ne è il presupposto. Se non c’è giustizia sociale, se la relazione fra le persone viene interrotta dalla povertà, l’azione del Vangelo non trova spazio.
In verità, è quasi umiliante doversi confrontare con delle tesi di una tale povertà intellettuale e spirituale e di una tale piaggeria (si noti quell’aggettivo, stupendo, del tutto sproporzionato e quasi ridicolo nel conteso in cui viene adoperato). Queste righe sembrano scritte da un analfabeta della teologia, oppure da una persona seriamente intenzionata a sovvertire e demolire la Rivelazione cristiana, così come noi l’abbiamo sempre conosciuta e come la Chiesa cattolica l’ha trasmessa fedelmente per quasi duemila anni.
Due sono le cose che maggiormente colpiscono, entrambe in senso estremamente negativo. La prima è la naturalezza con cui si parla della volontà di cambiare la Chiesa e ci si compiace della rapidità di tale cambiamento, al punto che, volendo fare una previsione, perfino colui che scrive non osa immaginare come sarà la Chiesa, non fra 200 anni, fra 20 anni Il fatto che per due millenni essa sia rimasta salda sui de fondamenti della Tradizione e della Scrittura, gli è del tutto indifferente: facendo suo lo spirito del mondo, spirito di frenesia, febbre di novità, smania del cambiamento — trova che tutto ciò sia buono e giusto e non lo sfiora neppure l’idea che nessuno, tanto meno il papa, ha alcun diritto di far ciò: cambiare la Chiesa. La Chiesa non viene affidata al papa e ai vescovi perché la cambino, ma perché custodiscano e tramandino fedelmente il Deposito della fede e si preoccupino costantemente della salvezza delle anime; non della giustizia sociale. Questa è la prima cosa che balza all’occhio: ed è di una tale enormità, di una portata così devastante, da lasciar senza parole. Chi pensa, parla e scrive così, o non sa cosa sia la Chiesa, oppure la detesta e vuol fare al suo posto un’altra cosa. Come fece Lutero, del resto tanto ammirato da papa Francesco e dai suoi entusiastici sostenitori. C’è il piccolo particolare che Lutero è un eretico ed è stato solennemente scomunicato dalla Chiesa cattolica, per mano di papa Leone X (3 gennaio 1521). Ma niente paura: si parla già di una prossima remissione, anche formale, della scomunica: dopo le celebrazioni di Lund, in Svezia, la cosa sarebbe fin troppo naturale. Naturale, ma inammissibile; logica, ma intollerabile per i cattolici. Se davvero papa Francesco oserà fare un gesto del genere, siamo noi che non osiamo immaginare quali potrebbero essere le conseguenze per la Chiesa. Senza dubbio, una parte dei cattolici non lo potrebbe accettare: se lo facessero, dimostrerebbero di non esser più tali e di non credere più alla vera Chiesa di Gesù Cristo, ma a un’altra chiesa, quella di Bergoglio e dei suoi fan, che non ha niente a che vedere con essa. A quel punto, il clero della neochiesa bergogliana dovrebbe assumersi l’immensa responsabilità di aver provocato uno scisma. A forza di tirare la corda, non c’è dubbio che finirà per spezzarsi. Si tratta solo di vedere quando, e in quale occasione verrà gettata la maschera.
Ma il secondo punto che emerge dalle parole di monsignor D’Ercole è ancora, se possibile, più sconcertante del primo. Laddove afferma che papa Francesco ha già invertito un paradigma: la giustizia non è il fine ultimo dell’evangelizzazione, ma ne è il presupposto. Se non c’è giustizia sociale, se la relazione fra le persone viene interrotta dalla povertà, l’azione del Vangelo non trova spazio, egli riesce a dire ben tre eresie nell’ambito di un solo concetto.
La prima è che la giustizia, secondo lui, era il fine ultimo dell’evangelizzazione, evidentemente prima della "svolta" di Bergoglio; la seconda, che ora le teste d’uovo della neochiesa hanno compreso che non la giustizia è il fine, ma il presupposto; la terza, che il Vangelo non trova spazio se vi è la povertà, e quindi, prima di annunciare il Vangelo, bisogna eliminare la povertà. La prima eresia: la giustizia di cui egli parla è la giustizia degli uomini, tanto è vero che la scrive con la lettera minuscola; ma la giustizia umana non è parte del messaggio evangelico. Il Vangelo di Gesù Cristo è l’annuncio del Regno di Dio, non del dovere di lottare per la giustizia umana. Non si dice, con questo, che essa non sia, o non possa essere, un nobile fine; si dice che non c’entra con il Vangelo, che non è parte del Vangelo, che non appartiene a ciò che Gesù ha insegnato agli uomini. Semmai, ha insegnato la carità; ma la sola giustizia di cui parla Gesù, è la Giustizia di Dio; in quella degli uomini, non mostra di avere la minima fiducia, per la ragione che gli uomini, da soli, senza Dio, e quindi senza la sua Giustizia, non possono fare niente (cfr. la similitudine della vite e dei tralci).
La seconda eresia è che la giustizia sia diventata, adesso, il presupposto del’evangelizzazione: vale a dire, prima di annunciare il Vangelo i preti e i fedeli devono rimboccarsi le maniche e farsi politici, sindacalisti, sociologi, amministratori, economisti, legislatori, in modo da fornire al Vangelo la sua necessaria base di giustizia (terrena ed umana: non quella divina). Davvero non si capisce se chi esprime una idea simile si renda conto, oppure no, di stare snaturando completamente la religione cristiana e la fede cattolica da ciò che sono, sono sempre state e devono continuare ad essere. Dire che prima deve venire la giustizia, poi il Vangelo, equivale a ridurre il vangelo (con la minuscola) a una delle tante ideologie di questo mondo, senza nulla di soprannaturale; per giunta, a un’ideologia di seconda scelta, perché, prima di poter essere annunciata, bisogna che sia realizzata un’altra condizione, la giustizia appunto. Ciò significa togliere al cristianesimo il suo carattere di Rivelazione divina, e anche la sua cosa più specifica: l’Incarnazione del Verbo, che si fa uomo, muore e risorge per amore dell’umanità. Dov’è, in tutto questo, Gesù Cristo? Dov’è l’amore del Padre? E dov’è l’azione dello Spirito Santo? Non parliamo, poi, degli angeli, dei santi e della Madonna: sparisce tutto, resta solo un bisogno di giustizia umana. Ma questo non è più cristianesimo; non è nemmeno una religione: è una dottrina politica e sociale, fondata sull’idea di giustizia. E non solo questa è la versione aggiornata della più morta e defunta di tutte le ideologie moderne, il marxismo; è, addirittura, la sovrapposizione del marxismo al Vangelo. Ora si capisce perché il papa Francesco ha gradito tanto l’empio crocifisso intrecciato con la falce e il martello, regalatogli dal presidente boliviano Morales: perché questo è precisamente il suo vangelo.
La terza eresia è nell’ultima affermazione: Se non c’è giustizia sociale, se la relazione fra le persone viene interrotta dalla povertà, l’azione del Vangelo non trova spazio. Traduciamo fedelmente, senza alterare il pensiero dell’autore: se c’è la povertà, la relazione fra le persone viene interrotta, e allora è impossibile, o inutile, o sbagliato, annunciare il Vangelo, perché non ci sono gli spazi sufficienti. Questo è un pensiero non solo eretico, ma anche particolarmente balordo sul piano della logica, e in palese contraddizione con l’idea di fondo sin qui sostenuta dal monsignore: perché, se le sue parole hanno un senso, se ne deduce che, prima di poter annunciare il Vangelo, bisogna rimuove la povertà. Cioè si può annunciare il Vangelo solo dove c’è il benessere: paradossale conclusione. L’opzione preferenziale per i poveri si rovescia nel suo contrario, il vangelo riservato ai ricchi. Si vede che nella Palestina, ai tempi di Gesù, la povertà non c’era: altrimenti, in base a questo raffinato ragionamento, Gesù non avrebbe potuto, o magari non avrebbe voluto, annunciare il Vangelo. Avrebbe detto ai suoi discepoli: Ragazzi, non possiamo a predicare il Vangelo, né battezzare, finché la giustizia non si stata stabilita e la povertà eliminata. E così si sarebbero trasformati, Lui e loro, in operatori sociali, riformatori politici, e così via. Però Gesù, il Vangelo, lo ha annunciato; e ai suoi discepoli ha raccomandato di fare altrettanto. Dunque, non resta che una sola spiegazione possibile: in Palestina non c’erano poveri, ma erano tutti benestanti…
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