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26 Agosto 2017Nel disperato tentativo di costruire una qualsiasi dignità filosofica attorno alle enunciazioni di papa Francesco, il gesuita Gaetano Piccolo, sull’ultimo numero de La civiltà cattolica (n. 4011-4012, pp. 298 sgg.), nell’articolo La realtà è superiore all’idea, sottotitolo Il pensiero contemporaneo torna a essere realista?, si arrampica sugli specchi per spiegare che il papa ha genialmente intuito il cambio di rotta del pensiero dei nostri giorni e si è fatto interprete di un sano ritorno al realismo, contro le degenerazioni idealistiche, specialmente nella esortazione apostolica Evangelii gaudium e nella enciclica Laudato si’. Vedremo ora quale peso intellettuale abbia una simile tesi, non senza aver notato, di sfuggita, che una Civiltà cattolica la quale si "apre"con un articolo intitolato Esercizio Zen e meditazione cristiana, all’indomani della bella pensata di padre Sosa Abascal di andare a pregare, o meditare, fra i buddisti, come i buddisti, si qualifica da sé come una cosa ben diversa da ciò che La civiltà cattolica è stata in passato; così come l’Ordine dei gesuiti si rivela, ogni giorno di più, come una cosa ben diversa da quello che è stato in passato e che era nelle intenzioni del suo fondatore, sant’Ignazio di Loyola; e ha inoltre tutta l’aria di voler fornire giustificazioni a parole e comportamenti, che siano del papa, o che siamo del generale dei gesuiti stessi, le quali di cattolico, ormai, hanno poco o niente, e che stanno ingenerando una confusione sempre più grande tra i fedeli, e un pericolo sempre più grave per le anime. Ma tant’è: mala tempora currunt; e padre Antonio Spadaro, il direttore della (un tempo) gloriosa rivista, essendo uno dei più fervidi sostenitori del "nuovo corso" bergogliano, non può che imprimerle, con il massimo entusiasmo, l’indirizzo da ciò richiesto; ne prendiamo atto, e passiamo oltre.
Non potendo citare l’intero articolo, ci limitiamo a riportare il paragrafo iniziale, escluse le note (cit., pp. 298-300); naturalmente, raccomandiamo vivamente chi voglia farsene un’idea completa ed esaustiva, di andare a leggerselo tutto.
PAPA FRANCESCO E IL PRIMATO DELLA REALTÀ.
Parlando della dimensione dell’evangelizzazione, nell’esortazione apostolica "Evangelii gaudium" (EG) papa Francesco affrontava io tema del bene comune e della pace sociale (EG 217-237). In quel contesto, il Pontefice postulava quattro principi: il tempo è superiore allo spazio (EG 222-225); l’unità prevale sul conflitto (EG 226-230); la realtà è più importante dell’idea (EG 231-233); il tutto è superiore alla parte (EG 234-237). Il terzo principio è stato poi ripreso nell’enciclica "Laudato si’" (LS), laddove siamo invitati ad affrontare la crisi ecologica pensando al bene comune e andando avanti nella via del dialogo (LS 201).
Questa insistenza sull’efficacia della realtà, per non perdersi nei possibili travisamenti del’idea, è estremamente attuale e fortemente presente nel dibattito filosofico contemporaneo. In diversi contesti culturali — non solo europei, ma anche negli Stati Uniti e in Australia — si parla infatti di "nuovo realismo" e talvolta addirittura di un ritorno alla metafisica. È possibile dunque immaginare una convergenza tra il dibattuto sollecitato dalle parole di Francesco e la discussione filosofica in corso. Ciò non dovrebbe sorprendere, poiché proprio la tradizione filosofica cattolica, che ha trovato i suoi esponenti più recenti nella neoscolastica di inizio Novecento, aveva sostenuto- senza grande successo, a giudicare dalla svolta intrapresa dal pensiero filosofico del secolo scorso in senso piuttosto antimetafisico — il primato della realtà.
Papa Francesco sembra dunque recuperare con un tempismo straordinario il nucleo di un dibattito caro alla tradizione, inserendolo nella discussione culturale attuale, indicandone anche i possibili risvolti etici.
L’"Evangelii gaudium" mette innanzitutto in guardia dal rischio di separare la realtà dall’idea, rifugiandosi nel regno della sola parola, dell’immagine, del sofisma. L’affermazione di papa Francesco, secondo cui la realtà semplicemente è, mentre l’idea si elabora, sembra centrare il cuore del dibattito contemporaneo, dove il ritorno al realismo, soprattutto nel contesto europeo, si presenta anche come un atto d’accusa nei confronti di una filosofia che assolutizzava il primato di un’elaborazione concettuale: il mondo non c’è affatto, diceva Richard Rorty, né possiamo pensare che il nostro linguaggio e il nostro pensiero riflettano la realtà.
Se dunque la realtà è superiore all’idea, allora i nostri progetti non possono essere né meramente formali, né disincantati, né ideologici, né antistorici. L’idea separata dalla realtà rischia di essere manipolativa, cioè di occultarla realtà solo per i propri scopi, come ricordava già Platone nel "Gorgia": l’idea, quando è separata dalla realtà, opera come la cosmesi, copre il vero volto della persona. Il corpo reale, ammoniva Platone, si tiene in forma attraverso l’esercizio fisico, altrimenti può aspirare solo a una bellezza finta attraverso l’uso di prodotti cosmetici. In altre parole, l’idea pretende a volte di manipolare la realtà, di ostentare descrizioni affascinanti, ragionamenti persuasivi, ma che risultano artificiali e disincarnati. I nostri ragionamenti possono anche essere logici e chiari, ma ciò non implica che riescano a coinvolgere o a smuovere la realtà. Concretamente, la politica è continuamente esposta a questo rischio.
La scelta del punto di partenza si rivela fondamentale: è la realtà che chiede di essere illuminata dall’intelligenza; invece, non sempre le nostre idee possono trovare riscontro e applicazione nella realtà. La realtà si lascia incontrare e conoscere, l’idea non sempre accetta di essere verificata e modificata dalla realtà.
La parola che illumina la vita della Chiesa è sempre una parola incarnata. Gesù Cristo ha preso un corpo. QUESTO Gesù è il criterio del nostro agire?
Il problema di questo discorso è che né qui, né dopo, viene data una definizione di cosa sia "la realtà". Ora, ciò che caratterizza il discorso filosofico e lo distingue dal discorso ordinario, è che in quest’ultimo ci si può anche intendere, press’a poco, pur adoperando parole imprecise o dal significato incerto; nel primo, assolutamente no, perché è un discorso concettuale, e se manca la chiarezza sui termini, anche i concetti diventano confusi e si prestano a tutte le possibili interpretazioni. In mancanza di una definizione di cosa sia la "realtà", siamo costretti a fare delle supposizioni: e quella più plausibile è che l’Autore intenda, per "realtà", la dimensione fisica e materiale delle cose. La citazione dal Gorgia di Platone va in questa direzione: il corpo reale di cui parla il filosofo greco è l’equivalente del corpo fisico, così come è in se stesso, contrapposto al corpo mascherato dalla cosmesi, che è il corpo come appare, o meglio, come ingannevolmente vien fatto apparire, ma in effetti non è. Al corpo reale, che è quello vero, si contrappone il corpo come apparenza e come inganno, realizzato dalla cosmesi. Certo, anche la cosmesi si serve di tecniche e ingredienti materiali: però il suo scopo è far sembrare reale e naturale ciò che non lo è, quindi non di far apparire qualcosa (che non c’è), ma di nascondere i segni del proprio intervento. Infatti il corpo reale è quello che viene modellato dall’esercizio fisico; il corpo mendace è quello che si affida unicamente agli espedienti della bellezza finta. E dunque la ginnastica è una cosa reale, perché fisica; la cosmesi è una cosa "ideale", perché mira a far prevalere ciò che vede l’occhio su ciò che effettivamente è. In tutto questo vi è sia un giudizio gnoseologico, che un giudizio morale, perché la prevalenza dell’idea sulla cosa cela una intenzione manipolatoria, basata sull’inganno e non sulla verità.
L’esempio paradigmatico di Gesù Cristo rivela ancor più chiaramente l’intenzione dell’Autore. Egli dice che la parola che illumina la vita della Chiesa è sempre una parola incarnata, nel senso che Gesù Cristo ha preso un corpo. Certo che Gesù ha preso un corpo; ma non ha preso solo il corpo. Per essere uomo fra gli uomini, ha preso il corpo e ha preso anche la struttura interiore dell’uomo, che una volta si diceva anima (non sappiamo se la parola, scomparsa da molto tempo dal linguaggio della filosofia profana, abbia ancora diritto di cittadinanza fra i teologi, specialmente se di tendenza progressista e neomodernista; o se, per riguardo a ciò che pensa il mondo, anch’essi abbiamo deciso di censurarla, uniformandosi al linguaggio della cultura profana, così come si uniformano al suo sentire e al suo pensare). La differenza è sostanziale: una cosa è dire che Gesù ha preso un corpo, e un’altra, e ben diversa, è dire, o piuttosto suggerire, sottintendere, che Gesù era solo un corpo. Nel primo caso, siamo all’interno della dottrina cattolica; nel secondo, no: siamo nel naturalismo e nello storicismo, ossia nell’eresia modernista. Quando si dice che Gesù è il Verbo incarnato, si dice che Dio ha assunto l’umanità per rivelarsi pienamente agli uomini, non certo che Egli si è fatto uomo risolvendosi interamente nella natura umana. Gesù si è fatto uomo, rimanendo Dio; e si è fatto uomo non solo in senso fisico, ma anche in senso intellettuale, spirituale, morale. Non era uomo solo perché aveva fame, sete e sonno come tutti gli altri uomini; era uomo anche perché capace di intendere, elevarsi (o abbassarsi) e volere, come tutti gli altri uomini, tanto è vero che era soggetto alle tentazioni e che il diavolo venne a tentarlo; e che fino all’ultimo, nell’orto degli olivi, pregò il Padre suo contro la tentazione di sottrarsi alla croce. Ma la tentazione, per lui, poteva venire anche dall’amore mal consigliato dei discepoli: quando respinse san Pietro con dure parole, dicendogli: Via da me, Satana; tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini, lo fece perché san Pietro, all’annuncio della Passione, aveva esclamato: Questo non ti accadrà mai! San Pietro, umanamente, voleva proteggere il suo Maestro; ma Gesù, divinamente, sapeva che il proprio Sacrificio era necessario, e tuttavia, da uomo, provava un istintivo raccapriccio all’idea della propria sofferenza e della propria morte sulla croce.
Ora, tornando a noi, l’Autore dell’articolo afferma che se dunque la realtà è superiore all’idea, allora i nostri progetti non possono essere né meramente formali, né disincantati, né ideologici, né antistorici. Ci sia permesso dire che, da un punto di vista cattolico, questo è uno strano linguaggio. Che il cristiano non debba fare progetti meramente formali e disincantati, sta bene; ma che non debba farli né ideologici, né antistorici, questo non va bene, perché non è cattolico. Il cristiano deve rifiutare l’ideologia e deve porsi nel solco della storia? Assolutamente no: riemerge qui l’antipatia di papa Francesco per l’ideologia, che egli aveva esternato nella omelia di Santa Marta del 19 maggio 2017. Ma quella che Bergoglio chiama "ideologia", è semplicemente la dottrina cattolica: e quando dice che è buona se unisce , ma diventa cattiva se divide, dice semplicemente il falso, perché qualsiasi dottrina divide, e la dottrina cristiana più di qualsiasi altra. Il cristiano è segno di contraddizione: porrò il padre contro il figlio e il figlio contro il padre; la suocera contro la nuora e la nuora contro la suocera. Dire che la dottrina cristiana non deve creare divisioni è eretico, perché Gesù stesso è stato segno di contraddizione, e perché Gesù ha esplicitamente insegnato che la divisione fra la Verità e la menzogna è il fatto di credere o non credere che Lui, proprio Lui, è la Via, la Verità e la Vita. Un buddista non ci crede, caro padre Sosa; non ci crede un giudeo, né un islamico, e tanto meno un ateo. C’è poco da fare: quella di gettare ponti da tutte le parti e abbattere ogni tipo di muro è una pratica assurda e non è cattolica. Non è che il cattolico ami i muri e le divisioni, egli ama la Verità; e la Verità divide, perché i figli delle tenebre non la vogliono, si infuriano perfino a sentirla nominare, vorrebbero rimuoverla, cancellarla. Questa è la verità, al di là delle chiacchiere sul fatto che l’unità prevale sul confitto. Bisognerebbe invece distinguere tra il conflitto maligno, che è quello di chi vuol prevaricare sull’altro, e il conflitto benigno, che è quello che scaturisce dalla difesa della Verità. Facciamo un esempio: un ragazzo che ha la vocazione religiosa. Poniamo che suo padre e sua madre non approvino la sua scelta, che vi si oppongano in ogni modo: il figlio, pur amandoli e onorandoli, dovrà opporsi alla loro pretesa, perché si deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. Ecco, questo è un conflitto; un conflitto inevitabile e necessario: e la causa di esso è Gesù Cristo. Non se ne può più della retorica buonista, secondo la quale il conflitto è male in se stesso. Il conflitto è male se nasce dall’odio e dalla negazione dell’altro, come avviene nel caso dei terroristi islamici. Il cristiano porta il conflitto perché tutto il suo modo di essere è in antitesi con il mondo, e quindi suscita fastidio, antipatia, odio. Mettetevi il cuore un pace, cari cattolici progressisti e bergogliani: se si è dei veri cristiani, si viene perseguitati, così come è stato perseguitato a morte Gesù Cristo: non c’è servo che sia superiore al padrone. È una strana pretesa, la vostra, di ricevere solamente applausi, quando il divino Maestro fu crocifisso. Quanto alla storia, che vuol dire che i progetti del cristiano non devono essere antistorici? Questa affermazione sembra presupporre che la storia sia fatta dagli uomini, come per Machiavelli. Ma il padrone della storia è Dio. Forse era antistorico, da parte di Mosè, sfidare l faraone e portare il suo popolo fuori dall’Egitto, nel deserto; ma lo fece, perché si fidò della promessa di Dio. E certamente era antistorico, da parte degli apostoli, andare in giro per il mondo a predicare il Vangelo, follia per i Greci e bestemmia per i Giudei; a san Paolo, nell’Areopago, lo dissero sul muso: Che ci vieni a parlare di un uomo che era morto e poi è risorto? Di questo, ti ascolteremo un’altra volta!; e se ne andarono. Il cristiano non fa alcun conto sulle forze della storia; fa conto esclusivamente su Dio. Se dovesse affidarsi alla storia, il cristiano tradirebbe la chiamata di Dio, che è, per definizione, una chiamata soprannaturale.
Questa deviazione teologica si fa evidente, nella Chiesa, a partire dal Concilio Vaticano II. Il papa che lo ha convocato, Giovani XXIII, nel suo discorso inaugurale, disse che lo aveva fatto anche perché il momento era particolarmente favorevole, in quanto l’umanità stava attraversando una promettente fase di cambiamento; tanto promettente che volle manifestare una viva irritazione contro la voce dei "profeti di sventura", che mettevano in guardia contro le cattive tendenze del mondo (il che, da che mondo è mondo, e da che la Bibbia è la Bibbia, è precisamente la ragion d’essere dei profeti). Allora, tanto varrebbe porre anche Gesù Cristo fra i profeti di sventura, perché tutto il suo Vangelo non è altro che un invito all’amore di carità e, nello stesso tempo, una messa in guardia contro il modo di sentire, di pensare e di agire del mondo. La storia è stata crocifissa e condannata in Gesù Cristo; Gesù ha oltrepassato la storia, con il suo Sacrificio e con la sua Resurrezione. Il cristiano che si fida della storia, che si basa sulla storia, non ha capito nulla del Vangelo di Gesù Cristo; non ha capito che la Morte e la Resurrezione di Gesù hanno posto fine alla storia, e che ciò che stiamo vivendo è solo la vigilia dell’ultimo giorno, quando i veli cadranno e Gesù ritornerà per il Giudizio universale. Ed ecco ciò che manca in questa neochiesa progressista modernista, tutta infervorata di sacro zelo per medicare i mali dell’umanità, al punto da volersi trasformare, come ha detto il papa, in un "ospedale da campo": la tensione escatologica. È una chiesa appiattita e ripiegata sulla storia, che cerca la risposta alle sue domande nella storia; e che si è dimenticata che Gesù Cristo è la sola ed unica risposta, e che si tratta di una risposta che sta al di sopra della storia, nell’Assoluto, come Lui stesso ha detto e ribadito, fino all’ultimo, durante il colloquio con Pilato: il mio Regno non è di questo mondo.
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