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Il profumo della carità del beato Luigi Tezza

Vi sono delle persone che non potrebbero mai intraprendere la carriera medica, perché riesce loro intollerabile la sola vista di un ospedale; che, quando ci devono entrare, anche solo per visitare un amico o un parente ricoverato, si sentono quasi male; persone che percepiscono la sofferenza, la tristezza di un simile luogo e che non vedono l’ora di uscirne, di lasciarselo dietro le spalle e non pensarci più. Non si tratta, in genere, di persone egoiste: semplicemente, l’ospedale è, per esse, un luogo mefitico, soffocante, perché trasuda ciò di cui hanno più paura, o di fronte a cui provano maggiore disagio: la sofferenza che riduce l’uomo all’impotenza, che lo costringe alla resa, che lo obbliga a consegnarsi nelle mani dei medici e degli infermieri, senza più il controllo di sé, del proprio corpo, della propria intimità, e che lo rinchiude fra tanti altri uomini e donne ugualmente sofferenti, ugualmente impotenti, ugualmente angosciati.

Ebbene: per Luigi Tezza (Conegliano, 1° novembre 1841-Lima, 26 settembre 1923), nato suddito austriaco e consacrato sacerdote camilliano nel 1864, co-fondatore, con Giuditta Vannini, poi suor Giuseppina, della congregazione delle Figlie di San Camillo, proclamato beato da Giovanni Paolo II nel 2001, non solo gli ospedali non avevano nulla di triste, ma egli vi si recava, per assistere i malati, in ogni momento della giornata che le sue numerose occupazioni sacerdotali gli lasciavano libero; di più: ne respirava a fondo l’aria, ogni mattino, "per riempirsi i polmoni del profumo di carità". Per lui , come per ogni vero cristiano (ma un conto è pensare certe cose, un altro conto è viverle) la sofferenza non è una maledizione, non va compatita e, se possibile, scansata; no: la sofferenza è il terreno privilegiato ove fiorisce l’amore di Dio e quello del prossimo, e dove l’anima umana si nobilita, si sublima, si innalza, oltrepassando le miserie della condizione terrena e avvicinandosi al Creatore, quasi anticipando le delizie del Paradiso. Queste, ripetiamo, potrebbero sembrare solo parole: ma per lui erano vita; e tutta la sua esistenza ne è la dimostrazione. Mai si è tirato indietro, mai ha mostrato segni di stanchezza, d’impazienza o d’insofferenza; ha fatto di tutte le sue giornate un dono, una offerta d’amore, concreta, silenziosa, umile. Possedeva una vasta cultura e una squisita sensibilità, ma era un uomo di fatti, di azioni, senza mai volersi mettere al centro: quel che gl’importava era fare di tutta la sua vita una continua lode di Dio e un continuo servizio di amore al prossimo: nient’altro. Patì incomprensioni, calunnie, persecuzioni: succede ai santi. Le malelingue insinuarono che trascorreva troppo tempo con le suore che stava formando: accusato, non si difese; costretto a lasciare le sue figlie spirituali, obbedì in silenzio e in mansuetudine. Aveva promesso di non protestare mai, di non ribellarsi mai a ciò che Dio avesse deciso per lui: qualunque cosa gli fosse venuta incontro, lui l’avrebbe accolta con animo sereno; e così fece. Ebbe l’umiltà, la modestia dei grandi. A un ceto punto, gli fu persino proibito di celebrare il Sacramento della Confessione, nonché di vedere le "sue" suore: fu una vera persecuzione, simile, per molti aspetti, a quella che avrebbe patito san Pio da Pietrelcina; egli si chiuse nel silenzio dell’obbedienza e accettò in anticipo quel che i suoi superiori avrebbero deciso. La sua non era in alcun modo debolezza o pusillanimità; se necessario, sapeva mostrarsi, quale realmente era, anche uomo di forte carattere: da giovane, avrebbe voluto fare il missionario in Africa, su invito di Daniele Comboni; ma i superiori gli ordinarono di andarci da prete diocesano, in pratica disertando l’Ordine cui aveva promesso fedeltà: in quel caso, disse di no, e chiuse per sempre nel cassetto il suo sogno di evangelizzare il Continente Nero. Dio lo teneva in sebo per altre cose, non meno importanti.

Lo mandarono all’estero, in Francia, dove si era già prodigato per un ventennio, metà del quale come vero e proprio clandestino: le leggi antiecclesiastiche avevano soppresso molte congregazioni religiose e ordinato l’espulsione dei sacerdoti stranieri. Ma lui, cittadino italiano, era rimasto, vivendo in clandestinità e continuando a prodigarsi per i suoi confratelli e le persone bisognose di assistenza. Fu un decennio da agente segreto, da romanzo poliziesco: ricercato dalla polizia, come un pericoloso malfattore, riuscì sempre a evitare l’arresto. Del resto, già in Italia era stato letteralmente inseguito dalla legislazione antiecclesiastica: quando il suo Veneto era stato annesso, nel 1866, al Regno dei Savoia, la sua congregazione era stata sciolta e i suoi beni requisiti, e anche lui aveva dovuto andarsene; alla presa di Roma, nel 1870, lo troviamo ad assistere i feriti della battaglia, presso l’ospedale San Camillo. È l’altra faccia del Risorgimento, che è stata dimenticata e della quale nessuno parla. In quel "glorioso" 20 settembre, che non ci sarebbe mai stato se Napoleone III non fosse stato sconfitto e fatto prigioniero dai Prussiani a Sedan, c’era stata una vera battaglia, una battaglia dimenticata, fra i 65.000 uomini dell’esercito italiano e i 13.600 pontifici, con 32 morti e 143 feriti fra i primi, 15 morti e 68 feriti tra i secondi. Era stata una battaglia poco cruenta, perché Pio X aveva ordinato di opporre solo una resistenza simbolica: voleva far saper al mondo che Roma gli era stata tolta con la violenza. Ma di quell’aspetto, gli autori dei libri di storia hanno voluto scordarsi, perché non quadrava con la mitologia del Risorgimento, così come essi l’hanno costruita. Hanno taciuto che l’unità d’Italia è stata fatta secondo i disegni della massoneria, contro la Chiesa e contro i cattolici, andando anche per le spicce.

Tornando a Luigi Tezza, questa volta, però, le calunnie parevano aver raggiunto il risultato che i nemici della Chiesa non erano riusciti a conseguire: ridurlo all’impotenza, costringerlo a sacrificare le sue energie nell’inazione. Ma ecco che la Provvidenza lo chiama a svolgere quell’opera missionaria cui, da giovane, aveva dovuto rinunciare per l’incomprensione degli uomini: non in Africa, però, ma nell’America latina. Adesso, a quasi cinquant’anni, qualcuno si ricorda di lui per affidargli una missione veramente delicata: riportare all’obbedienza e rimettere ordine nella famiglia camilliana del Perù, che da moltissimo tempo ha rotto i rapporti con la casa madre di Roma e vive per conto suo. Più che delicata, una missione quasi disperata: e don Tezza obbedisce, s’imbarca per un viaggio che allora era lunghissimo e anche un po’ incerto (si trattava di doppiare il temutissimo Capo Horn), e nel 1890 eccolo a Lima, dove svolge con tanta bravura il suo compito, che non solo i camilliani di quel Paese tornano alla piena obbedienza, ma gli viene chiesto di restare fra di loro. La richiesta parte da monsignor Pietro Gasparri, che sarà poi cardinale e segretario di Stato della Santa Sede, e che ha una grande stima di quel sacerdote affabile, ma tenace, di poche parole e di moltissimi fatti. E ancora una volta, Luigi Tezza non si tira indietro: gli chiedono di restare laggiù, e lui resta. Resterà sino alla fine dei suoi giorni.

I punti principali della sua biografia sono tracciati nel libro del giornalista Piero Vigorelli Nuovi miracoli e guarigioni straordinarie, dal quale abbiamo tratto anche altre notizie (Casale Monferrato, Piemme, 2003, pp. 127-133), e di cui riportiamo qualche passaggio:

… Lui si svegliava all’alba, ogni mattina apriva la finestra della sua celletta, e inspirava profondamente. Gli chiedevano perché lo facesse e rispondeva che voleva riempire i polmoni del profumo di carità che saliva dalle finestre della sottostante corsia dell’ospedale San Giovanni a Roma […] San Camillo de Lellis è stato il suo ispiratore. […]

Il 22 ottobre [del 1866] le truppe piemontesi entrano a Padova e il Veneto viene annesso al Regno d’Italia. Il popolo gioisce, ma la Chiesa meno, perché il Parlamento italiano con sede a Firenze estende anche al Veneto la legge di soppressione degli Ordini e degli Istituti religiosi. I Camilliani sperano di restarne fuori, essendo un istituto di pubblica utilità. Niente da fare. Nel 1867 vengono sfrattati e il 2 luglio padre Luigi Tezza, "con straziamento dell’anima", deve consegnare casa e chiesa al delegato demaniale, Se qui non posso operare, riflette ad alta voce, meglio partire in missione. Un sacerdote suo amico, don Daniele Comboni (1831-1881), beato nel 1896 e che sarà proclamato santo il 5 ottobre del 2003, in quei giorni progetta di ripartire per l’Africa, dopo una prima sfortunata missione nel Sudan (di cinque sacerdoti, solo don Daniele ritornerà vivo).Padre Tezza e due confratelli camilliani si dichiarano pronti a partire. Arriva però un "Rescritto" pontificio (cioè un decreto con l’approvazione orale del pontefice) che autorizza la partenza non come religiosi ma come diocesani. È una clausola che padre Tezza non accetta. Dilemma: piegarsi al Vescovo che esige obbedienza al rescritto o ai superiori camiliani che ne sostengono la nullità? Vince nel giovane religioso il principio del voto di obbedienza all’Ordine e rinuncia così al sogno di diventare missionario. Niente Africa e destinazione Roma, dove padre Luigi Tezza diventa vice-maestro dei novizi,. Il 20 settembre del 1870 si apre la breccia di porta Pia e lui assiste i feriti all’ospedale San Giovanni. Poi fa di nuovo i bagagli e parte per la Francia. Ha trent0anni e nei diciannove di soggiorno diventa "francese di cuore", scatena tutta la sua operosità fondando case di camilliani a Lille, Lyon e Cannes, insegnante e formidabile organizzatore, apre quattro convalescenziari per assistere malati e anziani. Ma arriva anche in Francia, nel 1880, la legge sulla soppressione degli ordini religiosi e sull’espulsione dei preti stranieri. Padre Tezza rientra per poche settimane in Italia, poi varca nuovamente la frontiera francese e si dà alla macchia, vive nella clandestinità e sfugge molte volte all’arresto, riuscendo comunque a riunire i religiosi camilliani ormai dispersi. Il 18 settembre 1889 il Capitolo Generale dell’Ordine lo elegge vicario e procuratore generale. Lui accetta solo per obbedienza e raggiunge Roma, Sceglie di vivere in una celletta all’interno dell’ospedale di Dan Giovanni in Laterano, per avere il modo di servire gli ammalati in ogni minuto del suo tempo libero dagli impegni burocratici.

In quei giorni a Roma, nella casa delle suore di Nostra Signora del cenacolo, c’è una maestrina d’asilo di trentadue anni, Giuditta Vannini, che si era vista chiudere in faccia la porta del convento, perché di salute malferma e quindi ritenuta inadatta ai sacrifici della vita religiosa. Ma lei non si era arresa: partecipava a un corso di esercizi spirituali, inseguendo il suo sogno. L’ultimo giorno del ritiro, il 17 dicembre del 1891, Giuditta Vannini raccoglie tutto il suo coraggio e si presenta al predicatore del corso, padre Luigi Tezza, per chiedergli un consiglio. Lui aveva appena ricevuto l’incarico di organizzare le Terziarie Camilliane e di fondare un istituto femminile per l’assistenza ai malati, per poter arricchire l’azione dell’Ordine con i sentimenti della tenerezza, dell’accoglienza, della sensibilità, delle capacità di ascolto e di intuizione, che sono tipici del cuore di una donna. Il genio femminile e la dimensione materna al servizio dei malati. "Vuole far parte di questo nuovo progetto?", le chiede. "Padre, risponde Giuditta, lasciatemi riflettere… Vi darò una risposta". Due giorni dopo ritorna: "Eccomi a disposizione per il suo progetto. Non sono capace di nulla io. Però confido in Dio". Con lei e altre due giovani, padre Tezza fonda la Congregazione delle Figlie di San Camillo. La nuova famiglia nasce il 2 febbraio del 1892, giorno della ricorrenza della conversione di San Camillo de’ Lellis. […]

Padre Luigi Tezza chiamava affettuosamente le suorine "le mie figlie", seguiva con estrema attenzione la crescita della nuova congregazione, si prodigava in consigli, passava ore a discutere con loro sulla migliore organizzazione, le assisteva spiritualmente… Ma questa naturale amabilità viene presa a pretesto da alcuni maligni della Curia, che incominciano a sparlare, a insinuare, a calunniare. Le voci si diffondono malevole, quanto basta al Cardinale vicario per sospendere cautelativamente padre Tezza dal ministero della confessione e proibirgli di incontrare le suore, in attesa della conclusione di un’inchiesta. "Cos’ha da dire in sua difesa?", gli viene chiesto. Padre Tezza sceglie il silenzio dell’obbedienza. Nel rinnovare i voti del quarto anno di sacerdozio, aveva fatto questa solenne promessa: "Serbare sempre inalterabile calma di spirito in tutte le circostanze della mia vita, per quanto fossero per essere difficili e penose, contrarie alle mie viste, ai miei sentimenti. Prometto di abbracciare volentieri per amore del Cuore Santissimo di Gesù, senza mai lamentarmi, ogni maniera di afflizioni, disprezzi, ingiurie, maltrattamenti, disonori che mi possono in qualunque maniera arrivare…". Erano arrivati. Viene allontanato dalla sua creatura. Obbedisce. Viene rimandato in Francia per due anni. Obbedisce…

Nei primi vent’anni che trascorre in Perù, Luigi Tezza si prodiga, come sempre, con l’energia di un giovanotto: ha ormai passato i settanta e comincia sempre la sua giornata alle cinque del mattino, visitando a casa i malati che non possono muoversi; poi dice la santa Messa, passa da un ospedale all’altro, quindi si reca al carcere cittadino, ad assistere i detenuti: sempre sereno e sorridente, sempre illuminato da una fede inalterabile. Pare fatto di ferro, ma senza la durezza del metallo; al contrario, ha la dolcezza materna (sua madre, Catrina Nedwiedt, una tedesca della Moravia, era entrata in convento dopo essere rimasta vedova e aveva avuto la gioia di ricevere la Comunione dalle mani del figlio, appena ordinato sacerdote) e anche la sensibilità di suo padre, Augusto, un medico molto apprezzato dai concittadini per la sua bontà e dedizione alla professione. Solo negli ultimissimi anni le forze lo abbandonano ed egli si ritira in una stanza, recitando sempre il Rosario, quieto, silenzioso, con la sua inossidabile serenità che è, sì, forse, anche un dono della natura, ma soprattutto una conquista ottenuta attraverso un impegno quotidiano, generosissimo, e un abbandono di tutta l’anima alla volontà di Dio.

Nella vita di don Luigi Tezza, una cosa, soprattutto, appare evidente e non può fare a meno di colpire chi l’abbia conosciuta, anche solo per grandi linee: quando il cristiano assimila e mette in pratica l’insegnamento di Gesù: Rimanete nel mio amore, perché chi resta in me e io in lui, quegli produce molto frutto; mentre da soli voi non potete fare niente, gli uomini (e le donne), spogliati del fardello dell’ego, diventano capaci di imprese straordinarie, fatte con la più grande semplicità: la semplicità del quotidiano.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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