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Aria di guerra civile
10 Agosto 2017Enciclopedie e dizionari, anche di stampo cattolico, sono un po’ avari col none e la figura di padre Giacomo M. Spagnolo (1912-1978), missionario saveriano nativo di Rotzo, sull’Altopiano dei Sette Comuni (Vicenza) e conosciuto soprattutto per essere stato il fondatore, a Parma, insieme alla professoressa Celestina Bòttego (1895-1980), nipote del famoso esploratore africano, del ramo femminile dei missionari saveriani, denominato Missionarie di Maria-Saveriane, ramo che già il fondatore, Guido M. Conforti (1865-1931) aveva desiderato e auspicato, ma del cui progetto nulla sapeva padre Spagnolo, che agì per una ispirazione indipendente.
Il progetto nacque e si concretizzò, in mezzo a difficoltà notevolissime, proprio negli anni della Seconda guerra mondiale, con l’Italia impegnata in un confitto lungo e devastante, e, da ultimo, doppiamente straziata dai bombardamenti aerei e dalla duplice invasione straniera, nonché dalla sanguinosa tragedia della guerra civile. Il passo decisivo ebbe luogo nel 1945 e la sede iniziale fu ospitata in una proprietà della famiglia Bòttego, anche se il riconoscimento definitivo, da parte dell’Ordine saveriano, non venne che nel 1951. Attualmente le Missionarie saveriane sono presenti in Africa, in Asia, specie in Giappone, e nelle due Americhe; sono circa 250 e possiedono una quarantina di case in tutto (contro circa 850 membri e 190 case del ramo maschile). Il loro impegno missionario e per l’assistenza alle popolazioni povere del Terzo Mondo è stato siglato con il sangue di tre suore — Bernardetta Boggian, Lucia Pulici e Olga Raschietti — assassinate selvaggiamente nella loro missione di Kamenge, nel Burundi, ai primi di settembre del 2014: prima di essere uccise, a colpi di pietra e di coltello, erano state violentate, e una è stata anche decapitata.
Giacomo M. Spagnolo era già una figura di spicco all’interno dell’Istituto di San Francesco Saverio quando sentì la chiamata a fare in modo che nascesse anche il ramo femminile, e si mise all’opera nel momento storico meno propizio, cioè nelle convulsioni dell’ultima guerra mondiale. Non vogliamo parlare qui, peraltro, del ruolo da lui svolto come animatore missionario, bensì soffermarci su un tratto eminente della sua personalità di sacerdote, perché ci sembra che offra un modello di grande attualità per la vocazione alla vita religiosa, e, più in generale, alla dimensione mistica dell’esistenza, cui tutti possono dedicarsi, anche coloro i quali vivono nel mondo e, pur non indossando l’abito sacerdotale, hanno un animo naturalmente religioso e sono perciò desiderosi di capire come orientare la propria anima verso le altezze, per udire la voce di Dio, che, nel frastuono della vita d’ogni giorno, è più malagevole udire, quantunque essa parli sempre, sia nell’assorto silenzio di un eremo in montagna che nel trambusto frenetico di una grande città. Qualsiasi persona che avverta in sé il richiamo di Dio ha bisogno di una guida, di una direzione spirituale, anche solo ideale e indiretta; ha bisogno di un modello di riferimento, al quale ispirarsi e col quale confrontarsi, al di là delle stesse barriere della vita e della morte, perché nella Comunione dei santi vi è un circuito virtuoso di forze benefiche, uno scambio di esperienze spirituali e un dialogo incessante di anime, nel quale anche i morti – che poi sono, semplicemente, coloro che ci hanno preceduti sul cammino della Vita – possono fornire soccorso e ispirazione a quanti stanno ancora percorrendo i faticosi sentieri dell’esistenza terrena. E allora vediamo che la personalità di padre Spagnolo dovette risplendere di virtù egregie, che illuminarono quanti lo conobbero ma che possono dire qualcosa anche a quanti non l’hanno conosciuto: perché è di uomini così, di maestri così, che abbiamo bisogno, specialmente oggi che la Chiesa sta attraversando una fase delicatissima e che molti, troppi cattolici, compresi i membri del clero, sembrano irretiti da una interpretazione eccessivamente mondana e immanente del Vangelo, smarrendo il senso della trascendenza e rischiando di farlo smarrire anche alle anime con le quali vengono a contatto. L’esempio di questo religioso ci ricorda che un vero cristiano è, prima di tutto, un mistico, un uomo (o una donna) che si sforza di salire il monte del misticismo, per incontrarvi Dio; e che tutto ciò che può fare, di buono, di ottimo e anche di eccellente, nella sfera dell’azione pratica, non deve mai fargli scordare tale tensione spirituale, né deve fargliela apparire come qualcosa di secondario ed, eventualmente, di "sacrificabile", rispetto agli impegni materiali: perché, al contrario, e come ha detto chiaramente anche Gesù in più occasioni, ma specialmente nell’episodio di Marta e Maria, è la vita dell’anima che irraggia di sé, feconda e arricchisce la dimensione pratica dell’esistenza, mentre non avverrà giammai il contrario, che l’azione materiale fecondi ed ispiri la ricerca di Dio e la comunione con Lui.
Ecco, dunque, come lo ricordavano i saveriani che erano stati suoi studenti, al tempo in cui, durante gli anni ’40, come Rettore della Casa Madre di Parma, insegnava teologia e seguiva in modo particolare i giovani destinati alle missioni (cit. in: Maria A. De Giorgi, Padre Giacomo M. Spagnolo, fondatore delle Missionarie di Maria-Saveriane, Bologna, Editrice Missionaria Italiana, 2009, pp. 83-86):
La sua prima e principale preoccupazione fu la nostra vita spirituale e religiosa. Era l’uomo del soprannaturale, dell’unione con Dio; la parola "mistica" era normale per lui, mentre per noi era quasi nuova. La meditazione settimanale era aspettata e desiderata da tutti; con la massima semplicità e con parole facili ci inoltrava nella profondità del mistero trinitario, nella devozione allo Spirito Santo […]. P. Spagnolo era come una madre che ci nutriva con un alimento sostanzioso, profondo, teologale, mistico.
Ricordo le meditazioni che ogni mattino ci dettava: mi sentivo prendere dolcemente per lo stomaco, avevo l’impressione di diventare sempre più leggero, leggero, di salire sempre più in alto e quando il termine della meditazione scattava, mi sembrava di precipitare da un’enorme altezza e mi dicevo: "No, no, non è giusto, quella non la nostra quotidiana realtà!". OI miei compagni poi mi dicevano: "Guarda che quella è la sommità della vita mistica"!". Ho capito più tardi che p. Spagnolo era un vero mistico!". […]
Lungo il cammino della nostra vita consacrata all’ideale della missione, la Bontà del Signore ha collocato un numero grande di "angeli" perché ci assistano validamente a raggiungere la meta; sono certo che p. Spagnolo è uno degli "angeli" che la Mano del Signore mi ha messo al fianco a questo scopo, al quale sento il dovere di essere sempre grato… […] Tutte le varie tappe e i momento forti di preparazione spirituale e liturgica al giorno di grazia Suprema [ordinazione] nel cammino della mia vita, furono accompagnate dall’attiva, vigilante presenza del Rettore, p. Spagnolo, e dal suo inalterabile spirito paterno […]. All’interno del nostro gruppo di studenti di teologia, come pure in seno alla nostra Comunità della Casa Madre, p. Giacomo Spagnolo godeva del più alto rispetto e della più profonda ammirazione a ogni livello.
Era da tutti apprezzata la sua esemplare e sincera pietà personale, la sua eccellente cultura teologica e scientifica, e così pure la sua guida spirituale, umile ma sicura e sempre paterna. Tra i Padri si distingueva per il suo portamento, nobile, piuttosto serio, di poche parole, ma sempre sereno, fraterno, caritatevole. Personalmente, conservo ancora distinta memoria di due incontri di direzione spirituale avuti con p. Spagnolo, uno in precedenza alla mia Ordinazione Sacerdotale e un secondo, qualche tempo dopo: in ambedue sono rimasto molto soddisfatto nel mio spirito e sono rimasto colpito dal suo discernimento ascetico e dalle sue sagge direttive spirituali.
Ricordo con nostalgia il contesto, l’atmosfera che aveva reato in mezzo a noi. Non c’era la possibilità di ricevere molto entusiasmo missionario in quegli anni 1943-1946 […] in cui si soffriva di notizie delle sofferenze (e non solo quelle) dei nostri missionari in Cina. Ciò che alimentava la nostra giovinezza e formazione era la presenza così’ carica di interiorità del nostro p. Giacomo… Lo Spirito Santo, la Sua abitazione in noi, l’onnipotenza misericordiosa, la consacrazione alla Madonna, le sue Sante Messe, i suo evidente costante raccoglimento… Egli delle volte scendeva anche a giocare con noi, ma era tanto più alto di noi. Tanto occupato ma mai preoccupato.
Ricordo una delle sue bellissime omelie che ci predicava. È un ricordo che mi ha accompagnato per tutta la vita, che mi accompagna anche oggi e di cui mi sono servito spesso nel mio ministero pastorale. Era pentecoste e ci commentava l’antifona di ingresso:per la liturgia pentecostale, che allora era ancora in latino: "Spiritus Domini replevit orbem terrarum; et hoc quod continet omnia, scientiam habet vocis" ("Lo Spiriti del Signore riempie l’universo e, poiché abbraccia tutto, ha conoscenza di ogni voce").. Per me, quella meditazione fu come una rande finestra spalancata […] che mi ha aperto l’orizzonte sull’anima. Mi ha sempre accompagnato e sempre mi accompagna anche in questi giorni, forse un po’ solitari e meno chiari. […] Ecco io ringrazio p. Spagnolo per quest’apertura che poi è continuata per me. Io ho questa testimonianza di lui: ha goduto di grande reputazione, fu un grande Rettore. È stata quella guida così chiara, semplice, lucida che mi ha aiutato fin da allora a dare una semplice ma chiara razionalità a tutta la mia vita spirituale, gli sono veramente riconoscentissimo.
Una cosa è certa: finché la Chiesa ha potuto disporre di simili pastori, ha potuto anche permettersi il lusso di albergare, in sé, qualche mela marcia. Questi autentici uomini di Dio spiravano attorno a sé una tale aria di paradiso, sapevano infondere una fede così contagiosa, erano capaci di trascinare gli altri verso tali altezze, da far passare quasi inosservati i pastori infedeli, i preti meschini e ignoranti, o, peggio, pedofili, che pure c’erano, eccome se c’erano, ma per quanti danni facessero, non riuscivamo a sporcare seriamente il lavoro degli altri, erano dei poveri disgraziati che trascinavano una doppia vita ma che restavamo ai margini, e non potevamo neanche sognarsi d’imprimere alla Chiesa il suo tono generale. Il nerbo del clero era sano, perché era stato cresciuto, nei seminari, da simili pastori: era stato vagliato, selezionato: allora la Chiesa non prendeva tutti, non correva dietro ad alcuno! Al contrario, chi voleva entrarci doveva mostrare di esserne degno. E così le suore: entrare in convento era un privilegio, un onore: diventare la sposa di Cristo! Tutta la famiglia ne gioiva, quello della consacrazione era un giorno di festa per l’intera comunità. Nei seminari, poi, c’erano queste perle, questi uomini speciali, questi "angeli" mandati dal Cielo: pacati ma fermi, severi ma giusti, amati ma anche ammirati, pieni di saggezza, di benevolenza, di comprensione, ma anche attenti custodi della dottrina, della buona pastorale, della rispettosa liturgia. Potevano anche essere "moderni", nel senso di aperti al nuovo, come è stato il caso, stando ai racconti dei suoi ex allievi, di padre Giacomo M. Spagnolo: ma potevano ben permetterselo, loro, perché la modernità non consisteva affatto nel bramare uno stravolgimento della Chiesa, non era una sete disordinata di novità ad ogni costo, e non ammetteva alcuna confusione dottrinale, alcun cedimento teologico sui punti essenziali della fede, magari nel nome della misericordia, del dialogo, dell’apertura e via dicendo. No: erano ben preparati, colti (sapevano di greco e di latino: orrore degli orrori!), avevano studiato il tomismo, ma, cosa più importante di tutte, erano pieni di amore e timore di Dio, vivevano in comunione con Lui, pregavamo moltissimo; e sapevano trasmettere agli altri, ai giovani, ai colleghi, il loro stesso fervore, la loro stessa abnegazione, la loro fiamma di passione divina. Erano coerenti: non c’erano ombre, non c’erano scheletri nella loro vita. Li si sarebbe potuti capovolgere a testa in giù e non sarebbe saltato fuori nemmeno un quattrino. Non pesavano alla carriera; non ambivamo al vescovato e al cardinalato; non smaniavano per diventare abati del convento, o, nel caso delle suore, per divenire madre badessa. Sapevano obbedire e nello stessi tempo, con dolcezza, ma anche con fermezza, esigere obbedienza. Sapevano che il buon prete obbedisce sempre ai superiori; ma obbedisce nella carità, nel discernimento, nello spirito del Vangelo. Non si sognavano d’interpretare il Vangelo alla loro maniera, come i protestanti: accettavano l’interpretazione della Chiesa; né pretendevano di essere tutti dei teologi, degli esperti di Sacra Scrittura, si accontentavano di essere onesti operai della vigna, di vedere il loro lavoro continuato da persone ispirate, oneste e fedeli come lo erano stati loro. Un buon parroco si sarebbe vergognato di non aver raccolto neanche una vocazione nella sua parrocchia; un buon vescovo sarebbe andato in crisi se, in tutta la sua diocesi, le vocazioni fossero arrivate col contagocce: si sarebbero chiesti dove avevano sbagliato. Non pensavano a ristrutturarsi l’appartamento a suon di milioni, non erano preoccupati di apportare confortevoli migliorie in canonica o in curia vescovile. Erano uomini di studio ma anche d’azione. Padre Spagnolo, per esempio: quanto non ha viaggiato, quanto non si è adoperato per far nascere – insieme a Celestina Bòttego – le Missionarie di Maria. E quanta umiltà: molti quasi non si accorsero ch’era stato lui a farle nascere. Come avremmo bisogno, oggi, di preti così! Il loro segreto? Non erano superuomini: ma pregavano tanto, chiedendo a Dio d’aiutarli a essere buoni operai. Tutto lì…
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