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Un imbarazzante scheletro nell’armadio: la Chiesa cattolica e la guerra civile, 1943-45

Sono almeno tre i meriti del libro di Claudio Pavone Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, apparso nel 1991 e trovatosi immediatamente al centro di accese polemiche, peraltro tutte all’interno dell’area ideologica della Resistenza stessa. Primo, ha definitivamente sdoganato l’espressione storiografica "guerra civile" per gli eventi italiani del 1943-45, espressione prima impronunciabile; benché, nell’immediato dopoguerra, l’abbiano usata tranquillamente anche alcuni esponenti della stessa Resistenza; ma poi era scesa, ferrea, la censura ideologica del mito resistenziale, che, negando a quella guerra la qualifica di "civile", voleva rimuovere l’aspetto più sgradevole, anche se, in realtà, quello essenziale, di essa: il fatto che venne combattuta da italiani contro altri italiani, del resto come voluto, auspicato e teorizzato dagli antifascisti fin dai tempi della guerra di Spagna, con lo slogan: Oggi in Spagna, domani in Italia; e, più un generale, in pieno accordo con la teoria marxista-leninista secondo la quale bisogna trasformare la guerra fra le nazioni in guerra civile, del proletariato contro la borghesia. Secondo, ha definitivamente chiaritoi la pluralità delle guerre che si sovrapposero, l’una all’altra, in quella esperienza storica: la guerra patriottica, la guerra civile e la guerra di classe. Terzo, ha impostato, almeno a livello di intenzioni, il problema della "moralità" nella guerra civile del 1943-45, ossia la questione della sua liceità etica, e in quale ambito, e fino a che punto, sforzandosi inoltre di valutare sia il punto di vista "interno" dei partigiani, sia quello dei fascisti.

I suoi meriti, che non sono piccoli, finiscono qui. In pratica, infatti, e pur avendo segnato un indubbio progresso rispetto alle storie precedenti — quella di Battaglia, quella di Bocca, faziose già nel titolo, perché una "Italia partigiana", palesemente, non è mai esistita) — sia sul terreno della ricostruzione storica, con la scelta "selettiva" dei fatti e delle testimonianze, sia proprio sul terreno del giudizio politico-morale (le due cose sono inseparabili), il libro di Pavone non si distacca molto dai vecchi stereotipi e dalle vecchie mitologie, ed è caratterizzato da un dato di fondo, tipico di chi si sente vincitore o erede dei vincitori: il fatto di giudicare quegli eventi a partire da una sorta di sentenza storica già emessa, una volta per tutte, non si sa bene da quale tribunale, per cui solo piccoli aggiustamenti critici sono ancora possibili, ma nulla che possa seriamente mutare la prospettiva dell’insieme, e questo neppure a oltre mezzo secolo di distanza dalla morte di Mussolini e dalla fine della Seconda guerra mondiale. Anche nei giudizi morali, siamo ben lontani da uno sforzo di vera imparzialità: si veda la povertà delle riflessioni a proposito dell’assassinio di Giovanni Gentile, oppure le macabre elucubrazioni su quello di Mussolini, con la successiva esposizione del cadavere, che si riassumono in un rozzo e banale luogo comune, "la legge del contrappasso". Anche sul piano storico, il giudizio è del tutto fuori bersaglio, laddove istituisce un raffronto con i regicidi della Francia e dell’Inghilterra nei secoli precedenti (per trarne la morale che l’Italia, ancora una volta, è arrivata in ritardo), mentre il confronto, semmai, si sarebbe potuto fare con Cola di Rienzo o Masaniello, che, se non altro, erano dei veri capi popolari e insurrezionali e non delle teste coronate. Eloquente, poi, il silenzio sull’assassinio di Carlo Borsani, eroe di guerra e grande invalido, nelle "gloriose" giornate della Liberazione, come pure su tante altre stragi e vendette operate dai partigiani dopo la conclusione delle ostilità. Il libro di Pavone, insomma, è la prova provata della incapacità, da parte della cultura italiana, di arrivare a una condivisione, se non dei giudizi politici e morali, cosa evidentemente impossibile, almeno dei principali aspetti storici della guerra civile del 1943-45, per cui ancora oggi, a settant’anni di distanza, gli eredi ideali della Resistenza se la scrivono alla loro maniera, e quelli del fascismo (Pisanò, Susmel: peraltro assai superiori ai Battaglia e ai Pisanò) alla loro, praticamente senza alcun punto di contatto e senza che vi sia neppure una scambio di esperienze sul terreno pratico della documentazione e della ricerca. Una costante, del resto, della società italiana e uno dei principali aspetti del carattere nazionale: ciascuno si suona la propria musica e poi se la gode, entro i confini della propria parrocchia ideologica, pago dell’applauso dei suoi compagni. Ma c’è un altro aspetto che, nel libro di Pavone, viene portato a galla, dopo anni di ostinato silenzio della cultura politicamente corretta, e che potrebbe essere considerato come il suo quarto merito: quello relativo all’atteggiamento della Chiesa cattolica durante la guerra civile. Argomento scottante, sul quale la Chiesa stessa, e, in genere, la cultura cattolica del dopoguerra, hanno voluto stendere frettolosamente un velo di silenzio, con buona pace delle decine e decine di preti e religiosi (perfino seminaristi, come il povero Rolando Rivi) assassinati, sia dai partigiani che dai fascisti e dai tedeschi, a volte per fatti specifici legati alla loro partecipazione, materiale o morale, alla guerra civile stessa, altre volte, e ciò vale per il fronte partigiano, anzi, specificamente comunista, per puro e semplice odio ideologico, ossia per la veste che portavano e per ciò che rappresentavano: fenomeno già visto durante la guerra civile spagnola, nella quale furono centinaia e migliaia i religiosi e le religiose assassinati da comunisti e anarchici in omaggio al loro odio anticristiano e anticattolico.

Anche se, pure in questo caso, la ricostruzione di Pavone ci sembra decisamente reticente e sotto traccia, senza dubbio gli va riconosciuto il merito di aver sollevato almeno un lembo del velo che ricopriva questo scheletro eccellente nell’armadio della cultura e della memoria collettiva nazionale: velo che era stato steso per comprensibili ragioni di opportunità politico-morale, stante la funzione pacificatrice che la Chiesa intendeva svolgere a partire dal 1945, ma anche per meno nobili ragioni di opportunismo tattico: cioè per far dimenticare i giri di valzer che la gerarchia vaticana indubbiamente fece con il fascismo, per motivi ideologici legati all’anticomunismo, e per accreditare l’immagine, vera solamente in parte, di una Chiesa che, dopo l’8 settembre 1943, si sarebbe schierata decisamente, anche se con discrezione e in maniera non violenta, dalla parte della "vera" Italia, cioè dalla parte della Resistenza. Immagine necessariamente edulcorata e manipolata, visto che la "vera" Italia, nel 1943-45, non si schierò né con i fascisti, né con i partigiani, ma non fece altro che attendere la fine dell’immane tragedia, augurandosi che giungesse il più presto possibile; e visto, inoltre, che, se mancò, da parte del Vaticano, il riconoscimento ufficiale alla Repubblica Sociale Italiana, non mancò del tutto un certo sostegno morale da parte di settori "eretici" del clero, visto che il settimanale di don Tullio Calcagno, di cui abbiamo parlato altra volta, Crociata Italica, a dispetto delle parole sprezzanti e sbrigative di Pavone, fu, nel 1944-45, il giornale più letto nell’Italia settentrionale, con una tiratura "inverosimile" di quasi 150.000 copie (cfr. il nostro precedente articolo: Don Tullio Calcagno, il prete che andò a morire con Mussolini, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 03/11/2009).

Scriveva, dunque, a questo proposito, nel suo ormai classico Una guerra civile, Claudio Pavone (Bollati Boringhieri, 1991, pp. 293-295):

Si può cogliere in moti fascisti un sincero stupore sia per l’ingratitudine di cui il clero e i cattolici in genere davano prova nei loro confronti, sia per la "fin de non-recevoir" che ora veniva opposta alla richiesta che per tanti anni non era rimasta inascoltata: abbiamo gli stessi nemici, perché non state con noi? Una nota della "Corrispondenza repubblicana", ispirata dallo stesso Mussolini, dopo aver ricordato "il debito di riconoscenza" che il fascismo meritava dalla Chiesa, affermava: "I motivi per cui il clero dovrebbe essere al nostro fianco sono quelli già detti: perché noi combattiamo contro tutti i suoi secolari e irriducibili nemici". A livello gerarchico più basso, il segretario del fascio di Firenzuola esprimeva gli stessi concetti: "come possono i preti non schierarsi con chi combatte "contro il settarismo massonico, contro il bolscevismo, contro l’ateismo e contro l’anarchia?".

La piccola minoranza di ecclesiastici che prese aperta posizione a favore della RSI possiamo pensare che lo facesse proprio perché ricettiva di questo tipo di appelli. […]

Nel campo fascista non ci si poteva illudere che don Tullio Calcagno o il cappellano capo delle brigate nere, don Eusebio Zappaterreni, un cappellano reduce dalla campagna di Russia, potessero, con i loro scarsi e screditati seguaci mobilitare gli incerti o addirittura costituire un valido contrappeso alla ben più consistente minoranza di sacerdoti che si schierarono apertamente con i resistenti, fino a diventar , alcuni, cappellani di formazioni partigiane anche garibaldine,. Nella Carta di Verona era stato ribadito che "la religione della Repubblica è la cattolica, apostolica, romana" (parole che figurarono in occhiello nella ricordata rivista "Italia cattolica"). Ma nel complesso le autorità fasciste apparvero piuttosto prudenti o addirittura rassegnate, consapevoli dell’impossibilità in cui si trovavano di aprire un altro, rischiosissimo fronte. Mussolini poteva ben dire a padre Eusebio, il 26 settembre 1944, che "quando i preti vedono le camicie nere suonano le campane per avvisare le camicie rosse"; ma non era in grado di proibirei suonare le campane. L’indovinata definizione di sé come "cattolico e anticristiano", alla quale in tante occasioni si era fruttuosamente ispirato, era destinata a subire, nel crepuscolo della Repubblica sociale, una frustrazione irrimediabile. […]

Ancora Farinacci giudicò, non del tutto a torto, "anguillesca e farisaica" la formula che al posto del giuramento, dovevano "borbottare" i cappellani militari della RSI:

"Dichiaro di possedere le cognizioni degli obblighi inerenti al servizio di assistenza spirituali presso le forze militari della repubblica sociale italiana e di avere piena conoscenza delle disposizioni che regolano la posizione dei cappellani militari. Dichiaro inoltre che mi impegno a compiere esattamente tutti i miei doveri di cappellano con ogni diligenza e zelo".

La figura del cappellano militare della RSI costituiva in realtà un reciproco pegno, anche se di diverso peso, datosi sul piano istituzionale dallo Stato fascista e dalla Chiesa: il primo (sembra contro il parere dei tedeschi) rispettava il Concordato e otteneva un avallo indiretto, la seconda dimostrava che il Concordato era comunque in vigore. In effetti alcuni vescovi invitarono di propria iniziativa, oltre a quelli che vi erano accorsi volontari — in genere reduci dalle campagne del 1940-43 — cappellani nelle formazioni militari della RSI, brigate nere, sia "per cercare di fare un po’ di bene anche tra i lupi", sia per "stringere utilmente relazioni coi comandanti delle Piazze per potersene servire poi a tempo opportuno". I cappellani, scriveva "Italia cattolica", "continuano a fare ciò che hanno sempre fatto"; ma qualcuno vi poneva un eccesso di zelo, come chi portava le insegne delle SS sopra la croce.

Anche l’autorizzazione concessa da Pio XII nell’ottobre 1944, su richiesta di Schuster, all’assistenza religiosa ai partigiani e le varie forme di presenza dei cappellani nelle formazioni resistenziali rispondevano insieme a un’esigenza religiosa e a una di presenza politico-ideologica, atta a contrastare l’influenza di dottrine pericolose per la Chiesa. Uno speculare intreccio di motivazioni agiva nelle bande che accettavano o addirittura richiedevano i cappellani: sincero rispetto per la coscienza religiosa e dimostrazione di avere il clero dalla propria parte, sia di fronte ai fascisti, sia, e questo poteva nei comunisti contare ancora di più, in funzione della politica di unità con i democristiani. Disse una volta Moscatelli: "Da domai avrete due cappellani perché non voglio che manchi la messa la domenica e caso mai non morirete come cani!".

Il segreto di Pulcinella è che, fino a quando le sorti della Seconda guerra mondiale furono in bilico, la Chiesa e il clero si augurarono, come del resto è naturale, la vittoria dell’Italia; ma quando il fascismo cadde e il Paese subì la duplice invasione, degli ex nemici diventati amici, e degli ex amici diventati nemici, essa assunse un atteggiamento di estrema cautela, motivato, sì, anzitutto, dal sincero desiderio di essere al fianco della popolazione inerme e sofferente, fra bombardamenti alleati e rappresaglie tedesche, ma anche dalla comprensibile, per quanto meno nobile, ragione di non trovarsi compromessa con la parte perdente, per non vedere seriamente indebolito il proprio ruolo nell’Italia del dopoguerra e della ricostruzione.

Quanto al problema morale della partecipazione di membri del clero alla guerra civile, sia su un fronte che sull’altro, vale un po’ lo stesso ragionamento: finché la guerra durava, la gerarchia ecclesiastica chiuse un occhio sia nei riguardi della collaborazione del clero con la Repubblica Sociale, come nel caso dei cappellani militari, sia nei confronti dei parroci che scelsero di aderire, più o meno apertamente, alla Resistenza (cfr., ad esempio, il nostro precedente articolo: Don Giuseppe Faè: fu vera gloria?, pubblicato sul sito di Libera Opinione il 30/07/2015). A guerra finita e a Liberazione avvenuta, però, era necessario che uno solo di questi aspetti venisse valorizzato, il secondo, peraltro in maniera tale da non coincidere con una approvazione vera e propria della guerra civile in se stessa, ma sempre con opportuni distinguo, e sottolineando, peraltro abbastanza a ragione, che la maggior parte del clero volle essere al fianco delle popolazioni, più che avallare o approvare uno spargimento di sangue fraterno.

Qui ci sarebbe lavoro per una intera generazione di storici, perché il materiale ancora inutilizzato è immenso, e una parola di verità non è ancora stata detta. Anche se il clima attuale, con una Chiesa ormai irriconoscibile e tutta appiattita sulle posizioni ideologiche della sinistra (o ex sinistra, che dir si voglia), perfino sulle questioni etiche, è tutt’altro che favorevole. Ma forse, proprio per questo, e cioè per rendere un servizio alla verità e per ricordare ai cattolici la loro vera storia, sarebbe tanto più necessario e, nello stesso tempo, tanto più meritorio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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