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17 Luglio 2017La sofferenza dell’innocente è scandalo per il mondo, mistero di grazia per il cristiano

La sofferenza degli innocenti! Ci può essere uno scandalo più grande di questo? Da sempre, il fatto che le creature innocenti debbano soffrire per le colpe altrui, per la malvagità altrui, è parso lo scandalo supremo alle anime esigenti e generose, ma superbe, che pretendono di capire anche ciò che è più grande della mente umana. Infatti, se a soffrire fossero solo i colpevoli, la cosa non farebbe scandalo, sarebbe accettata, e la mente non vi troverebbe nulla che contraddica il comune senso della giustizia. Ma la sofferenza di una persona buona; ma la sofferenza di un bambino, di una bambina! Che male possono aver fatto, per meritarsi un simile castigo? Inutile dire che coloro i quali si pongono, sdegnati, simili interrogativi, e poi, con i pugni stretti, ne domandano conto a Dio, mettendo anche questo sul conto della sua mancata Provvidenza, non sono neppure attraversati dal sospetto che la sofferenza, dopotutto, potrebbe anche non essere quel che sembra: potrebbe anche non essere un castigo, ma una grazia; e, soprattutto, potrebbe produrre qualcosa di assai diverso da quel che immaginano loro: non rabbia, dolore e frustrazione, ma un profondo senso di pace, una maggiore confidenza in Dio, un abbandono totale alla sua volontà. Specialmente se la sofferenza non è vissuta e subita passivamente, ma accettata con piena consapevolezza; di più: se essa, come accade nella vita dei santi, è addirittura ricercata, come mezzo di unione con Dio e purificazione spirituale, e come strumento di bene per il prossimo.
Ci piace riportare queste riflessioni di una persona che, della sofferenza, se ne intendeva parecchio: la mistica francese Marthe Robin, figlia di modesti contadini della Drôme (1902-1981), che trascorse gran parte della sua vita al buio, completamente paralizzata e tormentata da tremendi dolori, senza poter dormire, né mangiare, né bere, ma sostentandosi — smentita solenne di quel che la scienza crede di sapere circa l’organismo umano, inteso come realtà meramente biologica – con la santa Comunione, e che per anni e ed anni, trafitta dalle stigmate, ogni venerdì rivisse la Passione del Signore Gesù Cristo; e se ne intendeva perché, come padre Pio da Pietrelcina, aveva deciso di offrire se stessa come vittima per le anime abbandonate e in pericolo di dannarsi, dal momento che nessuno è disposto a sacrificarsi per amor loro (pubblicata originariamente su "L’Alouette", febbraio 1983, p. 7; cit. in: Jean-Jacques Antier, Marthe Robin. Il viaggio "immobile", prefazione di Jean Guitton; titolo originale: Marthe Robin. Le voyage immobile, Paris, Librairie Académique Perrin, 1991; traduzione dal francese di Rita Manzi Torti, Cinisello Balsamo, Milano, Edizioni Paoline, 1993, pp. 356-358):
Il cuore dell’uomo si misura dall’accoglienza fatta alla sofferenza, perché questa è in lui l’impronta di Uno diverso da lui. Anche quando esce da noi per entrare col suo pungiglione penetrante nella coscienza, è sempre malgrado il desiderio spontaneo e lo slancio primitivo del pieno volere. Per quanto prevista, per quanto ci si offra ai suoi colpi rassegnati n anticipo, per quanto si possa essere avidi, innamorati del suo fascino austero e vivificante, non per questo resta meno estranea e importuna, è sempre diversa da come la si aspetta e attendendola, anche chi la affronta energicamente, la desidera e l’ama, non può impedirsi, nello stesso tempo, di tremare al suo arrivo. Essa uccide qualcosa di noi per mettervi qualcosa che non siamo noi.
Ed ecco perché ci rivela questo scandalo della nostra libertà e della nostra ragione: non siamo quello che vogliano, e per volere tutto quello che siamo, tutto quello che dobbiamo essere, bisogna che comprendiamo, che accettiamo la sua lezione e i suoi benefici. Così la sofferenza è in noi come un seme divino, come il chicco di grano che deve morire prima di germogliare, è la base necessaria a un’opera più piena. Chi non ha sofferto per una cosa, non la conosce, né l’ama.
Il senso del dolore è di rivelarci quello che sfugge alla conoscenza e alla volontà egoistica, è di essere la via dell’amore effettivo, perché ci stacca da noi e dalle nostre tendenze umane per farci incontrare i nostri fratelli e donarci a tutti. Esso non raggiunge il suo effetto divino in noi, senza un concorso attivo e libero da parte nostra. È una prova, perché costringe le segrete facoltà della volontà a manifestarsi. Rompendo l’equilibrio della vita indifferente, ci mette in grado di optare tra il sentimento egoistico, che ci porta a ripiegarci su noi stesi escludendo ogni intrusione, e questa bontà che si apre alla tristezza fecondatrice e ai germi che portano ai grandi periodi della prova.
Ma la sofferenza non è solo una prova, è prima di tutto e soprattutto un grande gesto d’amore, un rinnovamento per la vita interiore, un incoraggiamento per l’azione, perché raggiunge e fa scattare le nostre più intime risorse e ci ricorda il fine al quale dobbiamo tendere, impedendoci di acclimatarci in questo mondo, dove ci lascia come in un malessere incurabile. Cos’è infatti acclimatarsi, se non trovare il proprio equilibrio nell’ambiente ristretto in cui si vive fuori da casa propria? E on si finirà di ripetere: dove ci troviamo, stiamo male. È bene rendersene conto, e sarebbe peggio non soffrirne più, come se l’equilibrio fosse trovato e il problema già risolto.
Senza dubbio, ci si adatta bene alla calma di una vita mediocre. Ma di fronte a un dolore reale, le belle teorie sono vane o assurde. Dal momento in cui ci si avvicina, si prova qualcosa di vivo e di doloroso, le teorie sono vuote, i pensieri restano inefficaci. La sofferenza è il nuovo, lo sconosciuto, il divino, l’infinito che penetra la vita come una spada rivelatrice, svelandoci i desideri divini di Cristo in ciascuno di noi.
Gesù ci insegna a guardare più in alto, più lontano, soprattutto con più amore, ciò che il linguaggio umano chiama dolore e sofferenza, ma che in realtà è solo la condizione suprema di un’eternità di felicità e d’amore nel cielo.
Due sono i concetti centrali, in questo ragionamento, che urtano profondamente la sensibilità dei cattolici progressisti e neomodernisti, i quali oggi fanno il bello e il cattivo tempo nella Chiesa e che hanno perfino la pretesa di riscrivere la dottrina a loro uso e consumo, magari per condonare tutti i vizi e per derubricare i peccati, oltre che per farli sentire bene accetti nella società edonista e neopagana in cui viviamo: tanto è vero che non perdono occasione di farsi invitare da illustri personaggi nemici della Chiesa, nei salotti e anche in televisione, né arrossiscono nel ricevere lodi e complimenti per il loro modo "anticonformista" d’essere cristiani: lodi ed applausi che dovrebbero rivelar loro chiaramente, se non fossero del tutto ottenebrati dalla vanità e dal narcisismo, quanto si sono, in realtà, allontanati dal Vangelo e fino a che punto lo stanno rinnegando e tradendo, con la pretesa di averlo "aggiornato" e messo al passo con i tempi.
Il primo concetto è che la sofferenza svolge appunto la funzione di ricordarci che questo mondo, questa condizione terrena, questo corpo che possediamo, non sono la nostra destinazione finale, ma un passaggio transitorio, diciamo pure un esilio: di impedirci, cioè, di attaccarci troppo alle cose di quaggiù, di sentirci un po’ troppo "di casa" in luogo che non è la nostra vera dimora, ma solo un passaggio temporaneo, in vista del ritorno alla nostra patria celeste. Non che sia male godere, legittimamente, delle cose buone che incontriamo nella nostra vita; il male non è questo, ma quello di attaccarci ad esse, di sopravvalutarle, di assolutizzarle, e, così facendo, di smarrirci nella dimensione immanente, e scordarci per che cosa siamo stati chiamati all’esistenza, quale sia la nostra meta, quale lo scopo e la ragione della nostra vita. Laddove sentirsi di casa in questo mondo è precisamente la molla fondamentale del modernismo e del progressismo, i quali vorrebbero un cristianesimo a misura di questo mondo, dal quale viene rimosso tutto ciò che dà scandalo alla ragione — a cominciare dal mistero della sofferenza — e coltivare, invece, tutto ciò che, con il pretesto del Vangelo, alimenta il nostro attaccamento al mondo, per esempio una "sete di giustizia" che finisce per appartenere tutta a questo mondo, sia nei metodi che nelle prospettive, facendoci scordare la che la vera Giustizia non è di questo mondo, per il semplice fatto che nulla, del Regno di Dio, è di questo mondo, ma tutto è di lassù, e lì soltanto troverà il suo pieno ed effettivo compimento. Questo non significa cadere nella rassegnazione, nel fatalismo e nella passività. Il cristiano lotta anche per la giustizia in questo mondo, ma sapendo che non la raggiungerà mai; così come non vedrà mai realizzati il vero, il bene, il bello. E ciò perché il cristiano non dimentica mai il vulnus, la ferita originaria del Peccato originale, che rende l’uomo impotente a fare il bene, quand’anche lo volesse (e lo vuole raramente), anzi, impotente a fare la più piccola cosa buona senza l’aiuto di Dio. Chi rimane in me e io in lui, quegli porta molto frutto: perché, da soli, voi non potete fare niente, ammonisce Gesù nella similitudine della vite e dei tralci.
Viceversa, distaccandoci dalle cose di quaggiù, la sofferenza ci riporta in noi stessi, ci obbliga ad un supplemento di riflessione e d’impegno per comprendere il senso della nostra vita; riduce, per così dire, il problema dell’esistenza all’essenziale. Senza fronzoli, senza abbellimenti posticci, senza finzioni di alcun genere: la realtà nuda e cruda. O la vita è una cosa assurda, e allora, quando vi irrompe la sofferenza, la miglior cosa sarebbe rifiutarla, suicidandosi; oppure essa ha un significato che trascende le apparenze, una logica che non è quella umana, una sapienza che non appartiene a questo mondo. Marthe Robin, inchiodata definitivamente a un letto di dolore dall’età di vent’anni, si trova davanti a questa drammatica alternativa: e deve fare una scelta. Non si deve credere che sia stata una scelta facile: per un certo tempo, comprensibilmente, umanamente, ella si è ribellata, ha cercato di allontanare da sé il calice del dolore: come tutti, avrebbe voluto un po’ di felicità in questa vita, ancora tanto giovane e piena di speranze. Per gradi, è giunta dapprima all’accettazione, poi alla offerta piena e volontaria di sé: ha compreso che la sofferenza, se donata a Dio con animo lieto, è un tesoro prezioso che controbilancia il male volontariamente commesso, e che può essere di aiuto per le anime vacillanti, in pericolo di perdersi. Ha compreso, cioè, che la sofferenza offerta lietamente a Dio è un atto di amore: il più grande che si possa fare in questa vita. Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per i suoi amici, aveva detto ancora Gesù ai suoi discepoli, nel momento solenne dell’Ultima Cena.
E qui si passa al secondo concetto che fa scandalo per la mentalità moderna: ossia che la sofferenza fa parte della pedagogia di Dio per attirare gli uomini verso di Lui, dove si trova il loro vero bene e, perciò, anche la vera felicità. Ma come! Dio, dunque, ci manda la sofferenza, e ce la manda come segno di speciale predilezione? Ce la manda come via necessaria per giungere fino a Lui, come strumento indispensabile di purificazione e chiarificazione interiori? Eppure, ci hanno detto e ripetuto che Dio è amorevole, paterno, misericordioso: e quale padre infligge deliberatamente la sofferenza ai propri figli? Qui c’è un equivoco da dissipare. La sofferenza, Dio non la manda deliberatamente e quasi sadicamente, per godere del nostro annaspare fra le sue spire; no di certo. La sofferenza è parte della vita terrena; e colui che la accetta, che la vive come un’esperienza preziosa, che la offre a Dio in riparazione del male e per il bene delle anime, si comporta, verso di essa, nella maniera più nobile e alta, nella maniera più matura e consapevole. Colui che cerca continuamente di sfuggirla, di evitarla, di scansarla, di eluderla, magari scaricandola sugli altri (e quante volte lo facciamo, ogni santo giorno, magari nelle piccole cose, o in quelle che noi riteniamo tali, e che forse non lo sono!), la vive in maniera puerile, immatura, inconsapevole. L’uno assume su di sé la sofferenza per estrarre tutti i tesori nascosti che essa contiene; l’altro, allontanandola da sé, si priva anche di quei tesori, o meglio, si priva perfino della possibilità di capire che, in essa, vi sono dei tesori. Il primo si sta preparando per la vita vera, per la vita eterna; il secondo, come un eterno bambino, si attacca a questa vita che passa, a questo corpo che invecchia, a queste cose che deludono e lasciano l’amaro in bocca, presto o tardi: tutte, anche le più dolci, o quelle che, sul momento, sembravano le più dolci.
Gesù Cristo, una volta, ebbe ad esclamare: Ti rendo lode, o Padre, Signore del Cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a Te! (Matteo, 11, 25-26). Ebbene: Marthe Robin era una semplice contadina, nata e cresciuta in un piccolo paese del Sud della Francia; non sapeva di greco e di latino, non aveva letto Cicerone, né meditato sul pensiero di Aristotele. Però aveva capito molto, moltissimo: aveva compreso l’essenziale. E fior di filosofi, come Jean Guitton, venivano nella stanza buia e sostavano al suo capezzale, per ricevere un po’ della luce che da lei si sprigionava…
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