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Abbiamo bisogno di coltivare la purezza

Nata da un progetto di opposizione contro Dio, la civiltà moderna si è messa, fin dal suo sorgere, sulla strada del male. Ora il ritmo della sua degenerazione morale sta accelerando, come se fosse smaniosa di arrivare alla fine: al rovesciamento completo, blasfemo, demoniaco, delle leggi divine e della natura stessa. Gli uomini contemporanei stanno lavorando a ritmo febbrile per costruire una contro-civiltà, fondata sul male anziché sul bene, sul peccato anziché sulla grazia, sulla ricerca dell’inferno anziché su quella del paradiso. Sono come presi da un furore autodistruttivo che li porta ai comportamenti più negativi, devastati, catastrofici, sia a livello individuale che collettivo. Ovunque si vedono esseri umani che non cercano il meglio per se stessi, ma il peggio: che si avviliscono, si degradano, si infliggono numerose umiliazioni, non nella ricerca del sacrificio e nell’offerta di sé, ma nell’acre voluttà della corruzione e della morte. Lo si vede nelle normali giornate lavorative, dove tutto parla di corsa al successo, alla carriera, ai piaceri, di oblio della dimensione spirituale, di disprezzo e rifiuto del sacro, di proiezione esclusiva nella dimensione orizzontale e immanente, nel dileggio di tutto ciò che è bene, giustizia, moralità. E lo si vede ancor meglio nelle giornate festive, che si trasformano in scorribande all’insegna del consumismo, all’inseguimento di vuoti divertimenti, allo stordimento con droghe, alcolici, musiche assordanti e danze sfrenate, lascive, che eccitano i sensi e proiettano l’uomo verso la sua parte inferiore, lo fanno regredire a livelli animaleschi.

Pertanto, una delle cose di cui si avverte il bisogno con maggiore urgenza è coltivare la purezza. Per reagire a tanta sporcizia, a tanta lordura, a tanto compiacimento di sprofondare nel fango, abbiamo bisogno di riscoprire le cose buone e belle che rendono l’anima pulita, che fanno star bene l’uomo con se stesso, che rendono il suo sguardo limpido e trasparente. Per stare bene con se stesso, l’uomo ha bisogno di due cose: di essere in pace con Dio e di avere rispetto e amore per se stesso e per i propri simili. Chi si degrada, si avvilisce, si prostituisce, chi mira unicamente a soddisfare gli appetiti del proprio ego e a concedere ogni vizio e ogni capriccio alla propria parte inferiore, non può trovarsi in pace con se stesso e diventa rabbioso, aggressivo, smanioso di rivalsa. Una delle radici psicologiche della odierna crociata contro il bene, da parte delle forze del male, è il desiderio di rivalsa da pare di coloro che sono fortemente a disagio con se stessi, perché non vivono come dovrebbero, hanno l’anima sporca e sprofondata nel male, e, invece di intraprende la via della purificazione, del pentimento, della conversione, sfogano la loro ira e la loro disperazione contro il mondo esterno, e tentano d’imporre per legge le loro abitudini sconce, le loro perversioni, la loro abominevole familiarità con tutto ciò che è turpe. Il loro scopo è di legalizzare e rendere normale il peccato, illudendosi, così, di alleggerire il fardello che grava loro sulle spalle, di attenuare l’angoscia che li soffoca: e non sanno, non vogliono vedere, che quel fardello non si alleggerirà mai, quel senso di soffocamento non li lascerà più, fino a quando seguiteranno a condurre una vita disordinata, all’insegna dell’abbrutimento e della cieca schiavitù nei confronti delle loro passioni più basse e degradanti.

Un aspetto caratteristico della attuale perversione morale consiste nel gusto di mettere in dubbio, di deridere, di banalizzare, di denigrare e di travisare deliberatamente, con malvagità diabolica, tutto ciò che di moralmente elevato ci capita d’incontrare nella nostra vita. I satanici maestri del sospetto — Marx, Nietzsche e Freud — hanno insegnato che non esistono buone intenzioni, né anime belle, ma solo falsità, ipocrisia e opportunismo; e a noi, quanto più siamo sprofondati nella melma del pantano, non sembra vero di poter insozzare anche gli altri, di poter schizzare un po’ di quella stessa melma anche su chi è migliore di noi, sulle cose vere, buone e belle che potrebbero fungere da richiamo verso l’alto, e fungere da richiamo ad un nostro ravvedimento e alla nostra decisione di cambiar vita. Perciò, se c’imbattiamo nella purezza, nell’onestà, nella mitezza, subito ci scateniamo a rappresentarle come una maschera, dietro la quale si annidano orribili vizi: così, per partito preso, per il piacere maligno d’infangare ogni cosa e di rendere il mondo un po’ più brutto — e, se possibile, molto più brutto – di come l’abbiamo ricevuto.

Prediamo il caso della virtù della purezza, intesa non solo in senso sessuale, ma, più in generale, in senso morale e spirituale. Una ragazzina che difendere la propria purezza, fino al sacrificio della vita: quanta ironia, quanti motti di cattivo gusto, intorno alla figura di santa Maria Goretti; e non è mancato il solito "storico" laicista e anticlericale che si è affrettato a scrivere una biografia di lei, nella quale la presenta come una poverina di scarsa intelligenza, appena un po’ meno disgraziata, in tutti i sensi, del suo sventurato assassino, che aveva tentato di violentarla. Figuriamoci: farsi ammazzare piuttosto che rinunciare alla propria verginità! Non è un discorso che può piacere, agli uomini e alle donne dei nostro giorni; del resto, le statistiche dicono che moltissime ragazzine, della stessa età di Maria Goretti, hanno già rinunciato volontariamente al fiore della loro verginità, per cui l’esempio della santa non può che risultare fastidioso, oltre che anacronistico. È come un monito, una cattiva coscienza nei confronti della volgarità, della pornografia e della sozzura dilaganti nella società odierna: la società che noi, con l’aiuto del cinema e della televisione, abbiamo costruito, e nella quale il vizio diventa virtù, e la virtù diventa una sorta di patologia, che, semmai, andrebbe "curata". Maria Goretti moriva a Nettuno, vicino a Roma, non ancora dodicenne, il 6 luglio 1902 (era nata a Corinaldo, in provincia di Ancona, il 16 ottobre 1890), ed è stata canonizzata da Pio XII nel 1950; il giorno prima di morire, conscia della fine imminente, aveva accettato l’invito del sacerdote a pregare intensamente per la salvezza di colui che aveva tentato di stuprarla e poi l’aveva ferita mortalmente con un punteruolo.

Ora, non sono in molti a sapere, almeno da questa parte dell’Oceano Atlantico, che una vicenda molto simile ha avuto come protagonista un’altra dodicenne, proclamata beata da Benedetto XVI nel 2007 e chiamata nel suo Paese "la Maria Goretti del Brasile". Stiamo parlando di una ragazzina tedesca di nome Albertina Berkenbrock, nata a São Luis, nello Stato di Santa Caterina, da genitori immigrati dalla Westfalia, l’11 aprile 1919, e colà morta il 16 giugno 1931, sgozzata da un contadino, un dipendente di suo padre, che già l’aveva adocchiata e che l’aveva aggredita con l’intenzione di violentarla, e al quale ella si era opposta lottando con tutte le sue forze. Era una personcina splendida, capelli biondi e occhi azzurri, sempre sorridente, generosa con tutti e molto religiosa, che amava passare lungo tempo in chiesa, raccolta in preghiera: proveniva da una famiglia profondamente devota, il cui ceppo era originario di Schöppingen, a due passi dal confine con l’Olanda, da dove era stata cacciata dalla miseria e dalle malattie che attanagliavano buona parte del continente europeo nel XIX secolo, perfino i Paesi relativamente progrediti e benestanti, come la Germania. Albertina aveva descritto il giorno della prima Comunione come il più bello della sua vita, e manifestava una particolare devozione per la Vergine Maria e per san Luigi Gonzaga, patrono del paese di São Louis, un altro santo morto giovanissimo (a ventitre anni), protettore degli studenti, e simbolo di purezza e di bontà: aveva contratto la peste curando i malati di Roma, in particolare per aver trasportato un appestato al lazzaretto, dopo esserselo caricato sulle spalle. Ecco: di questi esempi, di questo modelli ha bisogno la società d’oggi: non di cantanti seminude, di attrici provocanti, di soubrette e di aspiranti miss che farebbero qualsiasi cosa pur di mettersi in mostra, di fare carriera nel mondo dello spettacolo e di suscitare l’ammirazione e il desiderio del pubblico più vasto possibile, non disdegnando, talvolta, ma anzi offrendosi spontaneamente, anche di prostituirsi, pur di raggiungere lo scopo.

Sì, lo ripetiamo e ne siamo profondamente convinti: ce ne sono fin troppe di Madonne blasfeme, come la cantante Louise Veronica Ciccone; ce ne sono fin troppi di uomini e donne, di film e sceneggiati, di romanzi e opere "d’arte" che inneggiano all’impudicizia, alla volgarità, all’erotismo di bassa lega; ce ne sono fin troppi di richiami agli istinti brutali e degradanti che albergano in fondo all’anima umana. Perché gli esseri umani sono suscettibili di recepire il richiamo verso le altezze, che viene loro dal Bene, ma anche quello verso gli abissi tenebrosi, che viene dal Male; e la società dovrebbe smetterla di corteggiare le forze delle tenebre, se non vuole preparare da se stessa la propria auto-distruzione. Perché questo, sicuramente, c’insegna la storia: che quando una società sprofonda nella lussuria, la sua fine è segnata, ed è solo questione di tempo. Abbiamo bisogno di purezza, sia in senso fisico che in senso spirituale, così come l’assetato, che si è smarrito nel deserto, ha bisogno di acqua: è un bisogno urgente, disperato, che, se non verrà soddisfatto quanto prima, finirà per segnare la fine dell’intero organismo. Stiamo morendo di sete nel deserto infuocato della lussuria, e, invece di cercare l’acqua, di cui avremmo estremo bisogno, insistiamo a nutrirci di pietanze salate e piccanti, aumentando a dismisura il nostro bisogno di liquidi. È come se una forza maligna si fosse impadronita della nostra mente e ci stesse spingendo, a ritmo sempre più veloce, verso una fine tanto inevitabile, quando dolorosa e avvilente.

La morale cristiana, e specialmente quella cattolica, per secoli e secoli, ha coltivato, esaltato e tramandato la virtù della purezza. In stridente contrasto con la degenerazione morale della società pagana di Roma antica, i cristiani consideravano se stessi, corpo e anima, come il tempio vivente di Dio, e ne avevano il massimo rispetto. Sono innumerevoli le agiografie delle sante martiri, come santa Agnese, le quali hanno preferito difendere sino all’ultimo la propria purezza, piuttosto che preoccuparsi della salvezza fisica. Con l’avvento della modernità, tuttavia, questo modello etico ha cominciato ad apparire troppo elevato, tropo gravoso; i soliti maestri del dubbio e del sospetto hanno insinuato che l’uomo non deve andare contro gli istinti naturali, e che Dio stesso non gli domanda un tale sacrificio (e Lutero, in questo senso, è stato il pessimo antesignano della civiltà moderna). Da qualche tempo in qua, la stessa Chiesa cattolica — non lei, veramente, ma quella sua contraffazione demoniaca, che abbiamo definito neochiesa o contro-chiesa- ha recepito in pieno lo spirito del compromesso col mondo, e si è messa a insegnare che il peccato non è poi cosa tanto grave e che, in ogni caso, si può sempre contare sulla misericordia di Dio (neanche sul suo "perdono", perché il perdono richiama la "colpa", e molti teologi, vescovi e preti hanno deciso di non parlare più della colpa). I vizi più aberranti vengono giustificati e "assolti", al punto che l’aborto, il divorzio, e perfino le unioni omosessuali, vengono presentati da alcuni esponenti della neochiesa come passaggi necessari verso un modo più "maturo" e "aggiornato" di vivere il vangelo (e lo scriviamo volutamente con la lettera minuscola, perché non si tratta certamente del Vangelo di Gesù Cristo, custodito e predicato dalla fede cattolica). Turbando gravemente le anime e capovolgendo il senso della Rivelazione, pseudo teologi progressisti, come il gesuita James Martin, affermano che la Chiesa dovrebbe "aggiornarsi" e modificare il suo giudizio e il suo atteggiamento verso le nuove abitudini sessuali della società moderna, ad esempio riconoscendo e istituendo lei stessa i "matrimoni" fra persone dello stesso sesso.

Quel che stanno facendo codesti teologi e pastori è peggio di una profanazione: è la distruzione dei buoni esempi. Quando si trasformano i cattivi esempi in modelli positivi, è come se si vanificassero e si annullassero quelli veramente buoni: un atroce ribaltamento della morale. Il papa ha creduto di dover riabilitare don Lorenzo Milani, addirittura con un apposito "pellegrinaggio" a Barbiana. Ora, in una lettera a Giorgio Pecorini (in: Don Milani! Chi era costui?, Baldini & Castoldi, 1996, pp. 386-391), il priore di Barbiana scriveva: Come facevo a spiegare che amo i miei parrocchiani più che la Chiesa e il Papa? E se un rischio corro per l’anima mia non è certo di aver poco amato, ma piuttosto di amare troppo (cioè di portarmeli anche a letto!). (…) E chi potrà mai amare i ragazzi fino all’osso senza finire col metterglielo anche in culo se non un maestro che insieme a loro ami anche Dio e tema l’Inferno e desideri il Paradiso? Dunque, l’omaggio reso dal papa e da tutta la cultura cattolico-progressista a don Milani è completamente sbagliato e controproducente. Invece di portare ad esempio di santità lui e don Primo Mazzolari, si dovrebbe guardare alla figura d’un vero gigante dell’educazione, come san Giovanni Bosco: che amava, sì, i suoi ragazzi, e con abnegazione totale, ma non in forma morbosa e non insegnando loro la sua parola, tutta umana, satura di rancore sociale e di rivendicazione dei diritti, ma la vera Parola, la sola Parola che conta, per un prete e per un cattolico, quella di Dio. E si dovrebbe guardare con stima, devozione e assoluta fiducia a un altro gigante della vera santità, padre Pio da Pietrelcina, che parlava sempre, ai suoi pententi, del valore della purezza, e metteva in guardia contro la sporcizia del peccato. Abbiamo bisogno di modelli così; e di piccole sante, come Maria Goretti e Albertina Berkenbrock. Altro che don Milani e don Mazzolari: l’uno carico di livore sociale, l’altro con le mani sporche del sangue della guerra civile…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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