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Il cristiano non ripone la sua speranza nel mondo

Non dobbiamo riporre la nostra speranza nel mondo: lo ha detto e ripetuto, anche recentemente, monsignor João Scognamiglio Clá Dias, il fondatore degli Araldi del Vangelo, il quale, raggiunta l’età di 77 anni, si è dimesso dalla carica di superiore generale di questa Associazione, specialmente impegnata nel campo della cultura, dello studio e dell’evangelizzazione, che conta migliaia di aderenti, nei due rami maschile e femminile, sparsi su tutti e cinque i continenti.

Veramente tira una brutta aria verso di loro, da quando il famigerato cardinale brasiliano João Braz de Aviz, colui che ha svolto un ruolo di primo piano nell’incomprensibile, e, per taluni aspetti — come la soppressione della Messa in latino, espressamente concessa da Benedetto XVI — illegittimo commissariamento dei Francescani dell’Immacolata, che perdura ormai da quattro anni e che non è mai stato spiegato ad alcuno, ha lasciato trapelare l’intenzione del Vaticano di procedere ad altre "indagini" su realtà religiose come quella, appunto, degli Araldi. Noi abbiano una nostra idea sulle ragioni che possono aver determinato questa nuova strategia di attacco, che poi sono le stesse che stanno alla base dell’azione contro i Francescani dell’Immacolata: gli Araldi del Vangelo rappresentano una concezione del Vangelo e della Chiesa che è letteralmente agli antipodi di quella di papa Francesco. La loro impostazione è antimoderna e tradizionale, beninteso nel senso migliore, cioè nel senso autenticamente cattolico, del termine: non ammettono cedimenti, sono molto determinati e molto coerenti nel sostenere che l’evangelizzazione deve dispiegarsi al massimo, senza compromessi e senza cedimenti con il mondo, e con una visione integrale della realtà religiosa: insomma, l’opposto di un certo ecumenismo, di un certo dialogo inter-religioso, di un certo sottile, strisciante secolarismo della neochiesa post-conciliare, impregnata di concezioni laiche e più che disposta a chiude un occhio, se non entrambi, sulla deriva laicista del mondo cattolico, compresa la gerarchia e, per certi aspetti, lo stesso magistero ecclesiastico.

Gli Araldi del Vangelo, con la loro serietà, anche formale (gli abiti che indossano, la solennità della loro liturgia), per le fonti alle quali si ispirano (oltre, naturalmente, al Vangelo, essi guardano al pensatore brasiliano Plinio Correa de Oliveira, notoriamente conservatore sia in ambito politico che religioso), disposti ad affrontare a pie’ fermo le onde della modernità; intransigenti, coraggiosi, non fanatici, e pervasi dal senso della trascendenza e della dimensione soprannaturale del cattolicesimo — tutte cose che dovrebbero essere ovvie e caratteristiche di qualsiasi realtà religiosa che si professi cattolica, ma che stanno diventando, invece, sempre più rare, e sempre più guardate con sussiego, o con aperto fastidio, dai cosiddetti cattolici progressisti e neomodernisti — essi, per il solo fatto di esistere, per la ricchezza delle loro vocazioni, per la solidità della loro fede, per il loro disprezzo nei confronti dei cedimenti e degli accordi al ribasso con lo spirito del mondo, rappresentano una specie di bubbone che il papa Francesco, probabilmente, non vede l’ora di eliminare. Se la prima mossa importante del suo pontificato è stata quella di commissariare, senza spiegazione alcuna, e con una sospensione arbitraria del "motu proprio" Summorumn Pontificum di Benedetto XV, i Francescani dell’Immacolata, poi investiti da una vera e propria campagna di fango volta a screditarli e umiliarli in ogni modo, c’è quasi da stupirsi che egli abbia atteso così tanto, prima di passare all’attacco di un’altra realtà cattolica che presenta caratteristiche analoghe, compresa la vivacità delle vocazioni: gli Araldi del Vangelo. Essi, nella sua concezione di una chiesa radicalmente cambiata, rappresentano una anomalia che non può essere sopportata ulteriormente: occorre "normalizzarla", perché, per il solo fatto di esserci, i suoi membri indicano a tutti i cattolici, e specialmente ai più giovani, un’altra maniera d’intendere la fede in Cristo e la missione della Chiesa nel mondo, una maniera che sta agli antipodi di quella propugnata con tanta passione dai vari Paglia, Galantino, Marx, Kasper, Sosa Abscal, Martin, Bianchi (il quale non è nemmeno un prete, eppure gode di un credito, presso il papa, superiore a quello di molti cardinali).

Il punto cruciale che segna la differenza fra le due concezione del cattolicesimo e della Chiesa è proprio il rapporto con il mondo. Per gli Araldi del Vangelo (come per i Francescani dell’Immacolata e come per i Legionari di Cristo, anch’essi duramente colpiti da questo pontefice), perfettamente coerenti e fedeli alla tradizione cattolica di sempre, Cristo non è venuto per condannare il mondo, ma per salvarlo; e, tuttavia, il mondo gli resiste, si oppone, lo rifiuta, lo mette in croce: il mondo, pertanto, è, da un lato, l’umanità che attende la Redenzione, dall’altro è l’insieme delle forze che alla Redenzione si oppongono; quindi, nella prospettiva cattolica, non si deve riporre alcuna speranza nel mondo, ma solo e unicamente in Gesù Cristo, il quale ha detto di sé ai suoi discepoli: Fatevi coraggio, perché io ho vinto il mondo. Per i cattolici progressisti e neomodernisti, al contrario, il mondo, nella fattispecie il mondo moderno, è una realtà fondamentalmente positiva, alla quale si deve guardare con fiducia e simpatia, con apertura, nel rispetto del "pluralismo" delle fedi e delle filosofie, e davanti alla quale bisogna rinunciare a ogni idea di evangelizzazione e ripiegare il simbolo della croce, per non offendere i non cristiani, dato che (sono parole testuali di papa Francesco, nella sua intervista a Eugenio Scalfari del 2013) il proselitismo è una solenne sciocchezza.

Ma ecco cosa dice monsignor Scognamiglio Clá Dias proprio su questo punto decisivo (nel numero di aprile 2017 della rivista Araldi del Vangelo, in un lungo articolo dedicato alla Domenica delle palme e alla Passione del Signore, intitolato Il trionfo, la croce e la gloria, pp. 13-14):

Così, la Passione del nostro Divino redentore lascia una lezione per noi: quelli che, per principi mondani, hanno come ideali ottenere il plauso, collocando la loro speranza nell’approvazione degli uomini, sbagliano, perché commettono la pazzia d scegliere per sé una situazione instabile. Mancando la pratica della virtù, facilmente le acclamazioni si trasformano in odio.

La Passione del Signore ci mostra, in maniera eloquente, quanto sia necessario mettere il nostro impegno nel servirLo, curandoci poco se ci attaccano o ci elogiano, se ci ricevono o ci ripudia noma, questo sì, se Gli piacciamo con il nostro modo di procedere. Quando siamo stati battezzati, ci siamo impegnati — sia da noi stessi, sia nella persona dei nostri padrini — a rinunciare al demonio, al mondo e alla carne, e siamo stati marcati dal segno del combattimento. Non abbiamo fissato, in nessun momento, il proposito di appoggiarci al plauso degli altri. E così, celebrandola Domenica delle Palme dobbiamo ricordarci di queste promesse di lotta, che esigono da parte nostra la determinazione ad affrontare tutte le battaglie che tali nemici, da noi rifiutati nel Battesimo, ci presenteranno. E questo significa, sull’esempio di Gesù, accettare e portare la croce posta sulle nostre spalle dalla Provvidenza.

Ora, anche i cattolici più distratti si saranno accorti che i vari Paglia, Galantino, Marx, Kasper, Bianchi, e lo stesso papa Francesco, nonché tutto un esercito di sacerdoti, hanno smesso di parlare della croce, del valore della croce, della croce che ci viene posta sulle spalle dalla Provvidenza medesima; che hanno smesso di parlare della fedeltà e della coerenza del cristiano alla croce di Cristo; che hanno smesso di ricordare che Gesù non è venuto nel modo per essere applaudito, e infatti non è stato applaudito, ma rifiutato, calunniato, accusato, processato, flagellato, sputacchiato, e fatto morire sulla croce. E hanno smesso di farlo proprio mentre essi cercano più che mai l’appoggio del mondo, l’applauso delle masse, ma non solo, e non tanto, dei cattolici, bensì dei non cattolici, degli anticattolici, dei nemici di Dio e della morale cristiana: fino al punto che alcuni di essi, come monsignor Paglia, non si sono vergognati di fare lo sfrontato elogio di simili perone, arrivando a portarle ad esempio di alta moralità e spiritualità, cui dovrebbero ispirarsi appunto i cristiani. Di simili bestemmie dovranno rendere conto a Dio; così come dovranno rendere conto a Lui delle anime che, forse, stanno traviando, con le loro affermazioni bugiarde e con i loro atteggiamenti blasfemi. Del resto, chiunque ha potuto accorgersi che essi non parlano mai neppure della morte, del giudizio, dell’infermo e del paradiso; e che un altro sciagurato pastore, responsabile davanti a Dio del turbamento che ha prodotto nelle anime, padre Sosa Abascal (il superiore generale dell’Ordine dei gesuiti!), si è spinto a dire che il demonio, quel demonio che noi abbiamo rifiutato nel Sacramento del Battesimo, come ricorda monsignor Scognamiglio — non esiste, perché è solo una immagine simbolica del male.

Lo ripetiamo un’altra volta: qui non stiamo parlando di teologia astratta, non stiamo facendo discorsi di accademia; stiamo affrontando il nodo centrale del Vangelo: se si debba cercar di piacere a Dio oppure agli uomini. La risposta l’ha data san Pietro, negli Atti degli Apostoli, parlando davanti ai membri del Sinedrio, che avevano minacciato severamente lui e gli altri Apostoli di non parlar più del Cristo risorto e del suo Vangelo, con la memorabile frase: Bisogna piacere a Dio piuttosto che agli uomini. Ed è ovvio che, per il vero cristiano, le cose stanno così; opinare diversamente, significa tradire il Vangelo, puramente e semplicemente. Certo; i modernisti e i progressisti, da più di sessant’anni – cioè dai tempi del Concilio Vaticano II, se non da prima ancora — si sforzano in ogni maniera di trovare dei sofismi, dei giri di parole, dei concetti lambiccati, per confondere una verità talmente semplice ed evidente, e testimoniata in maniera così sublime dalla vita del nostro Salvatore, Gesù Cristo, venuto nel mondo non per piacere agli uomini, ma al Padre, e per annunciar loro la Verità, sapendo che in molti non lo avrebbero ascoltato, e che perfino fra i suoi intimi sarebbe maturato il veleno del tradimento contro di Lui. Eppure, per quanto siano abili, almeno a parole, nel confondere le acque e nel rovesciare, senza averne l’aria, il senso e la lettera del Vangelo, codesti modernisti e progressisti non riescono, né lo potrebbero, a nascondere interamente i loro piani: perché troppo evidenti sono il compiacimento, il narcisismo, la soddisfazione, tutta e solamente umana, con la quale vanno a cercare, e naturalmente ottengono, l’approvazione del modo. Basta fare come fanno loro: non parlare mai del peccato, del sacrificio, della croce, del giudizio, dell’inferno e del paradiso; basta non infastidire l’uditorio con discorsi sull’aborto, sull’eutanasia, sul cosiddetto matrimonio omosessuale, sulla droga libera, eccetera; e, viceversa, basta parlare molto, continuamente, anche a scapito delle realtà soprannaturali, dei diritti, della libertà, della giustizia (in senso puramente umano e sociale), della inclusione, dei ponti da gettare, dei muri da abbattere, e via di questo passo, con la retorica più melensa e con la demagogia più sfrenata. Basta invitare i musulmani alla santa Messa, per ricevere gli applausi dei fautori del "dialogo" a ogni costo; basta chiedere perdono ai giudei per tutte le colpe, vere e immaginarie, della Chiesa verso di essi, per ricevere la loro approvazione; basta dire che Lutero è stato un grande riformatore, un sincero cristiano, animato dalle più nobili intenzioni, per avere l’applauso dei protestanti; e basta dire che ciascuno deve seguire la propria coscienza nella ricerca del bene, per avere il plauso dei radicali, dei massoni, de La Repubblica e di Eugenio Scalfari, insieme a tutta la parte laicista e irreligiosa della società e della cultura odierne.

Lo sa Iddio se non preferiremmo sbagliarci, ma abbiamo in cuore un terribile presentimento. Temiamo che tutto quel che abbiamo visto fino adesso sia solo il preludio, sia solo l’inizio di una serie di tribolazioni ben più gravi, che i Santi dovranno sopportare, e di umiliazioni che la Chiesa dovrà subire. Chi mai avrebbe immaginato, solo pochi anni fa, che ci sarebbe toccato vedere e udire tutta una serie di cose, da parte di membri del clero, che turbano profondamente le coscienze, che feriscono le anime, perché sono in contrasto irrimediabile con la vera dottrina cattolica, la quale, del resto, è stata recentemente denigrata dal papa Francesco in persona, che l’ha definita una ideologia alla quale si attaccano i "fanatici" per opporsi ad ogni novità? Eppure, queste cose sono accadute, e sono accadute terribilmente in fretta; e nessuno, o quasi, si è opposto, nessun ha protestato. Il papa, che ama presentarsi come il campione della misericordia e della gestione collegiale della Chiesa, si è permesso, fin dall’inizio, di agire come un autocrate spietato, e nessuno gliene ha chiesto conto. I vari intellettuali che ora ne cantano le lodi, i Cardini, i Melloni, e i teologi modernisti, come Andrea Grillo, avrebbero dovuto chiedergli, fin dal 2013, perché egli abbia commissariato i Francescani e perché abbia proibito loro di celebrare la Messa nel rito antico, contravvenendo ad una esplicita disposizione del suo predecessore, che ne dava facoltà, non ad essi soltanto, ma a tutti coloro che ne facciano richiesta. Santo Padre – dovrebbero chiedergli i troppo ossequienti giornalisti accreditati in Vaticano – perché ha agito a quel modo contro i Francescani del’Immacolata? Ora temiamo che toccherà agli Araldi del Vangelo, e poi a tutti i cattolici che continueranno a sentire come loro: che non si deve riporre la propria speranza nel mondo, ma solo in Gesù Cristo, nostro divino Redentore.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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