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La deriva dottrinale di Amoris laetitia era stata preparata da almeno trent’anni

Molti cattolici "in buona fede" (lo scriviamo fra virgolette, perché una cosa è dirsi tali, e un’altra cosa è esserlo realmente) sono rimasti stupiti e sconcertati dalla evidente deriva dottrinale rappresentata dalla esortazione apostolica Amoris laetitia del 19 marzo 2016, che sembra (sembra!, è lo stile di questo papa: tirare il sasso e poi nascondere la mano…) aprire ai divorziati risposati e ammetterli alla Santa Comunione, senza chieder loro di regolarizzare la loro posizione familiare; accettando così, di fatto, il divorzio.

Si sono stupiti, si sono meravigliati, hanno cominciato a domandare spiegazioni, a porsi — finalmente — qualche domanda. Qualcuno di loro ha perfino deciso di non lasciarsi ricattare, moralmente e intellettualmente, dall’accusa di essere "rigidi", che il papa Francesco lancia di solito contro quelli che non condividono le sue novità: anche perché qui stiamo parlando di teologia morale, non di psicologia, e quindi non c’interessa sapere se una persona sia rigida di carattere, oppure no, ma c’interessa solo e unicamente di sapere se una certa proposizione dottrinale è compatibile con il Magistero, con le Scritture e con la Tradizione, cioè con gli elementi che, per un cattolico, formano la divina Rivelazione; oppure no. Al papa, al capo della sua Chiesa, un cattolico è in diritto di chiedere se una certa affermazione è conforme alla dottrina cattolica, o se non lo è. E se il papa, come ha fatto solo pochi giorni fa, dovesse rispondere che c’è dottrina e dottrina, e che la vera dottrina è quella che unisce (ma chi, poi?), mentre la falsa dottrina, che lui chiama, con sommo disprezzo, "ideologia", è quella che divide, allora noi ci permettiamo di ricordargli una frase di un certo Gesù Cristo, che, se non andiamo errati, è il solo ed unico capo della Chiesa, in senso assoluto e non relativo, come lo è lui: Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera (Vangelo di Luca, 12, 51-53). E allora, come la mettiamo: a che cosa deve credere un vero cattolico, al Vangelo di Gesù Cristo o al neovangelo del papa Francesco?

Ma torniamo al nocciolo della questione: l’indissolubilità del matrimonio cristiano e la possibilità che la Chiesa riconosca, de facto e a posteriori, il divorzio. Nel 1991, cioè ventisei anni fa, le Edizioni Paoline traducevano e pubblicavano un libro di Armand Le Bourgeois (Annecy, 11 febbraio 1911-Parigi, 2 febbraio 2004), un prete francese divenuto vescovo di Autun, nella regione storica della Borgogna, fra il 1966 e il 1987, intitolato Cristiani divorziati risposati, che era tutto un inno alla possibilità che la Chiesa scopra infine la "misericordia" per i poveri divorziati risposati e non faccia pesare su di loro le tragiche conseguenze di un unico errore, per tutta la vita, ma li riammetta nel suo seno, così come sono, senza pretendere da loro impossibili, e ancor più dolorose, rinunce, cioè avallando, di fatto, il divorzio e la rottura del sacramento del Matrimonio cristiano. Un libro del genere, per giunta scritto da un ex vescovo, le Edizioni Paoline, prima della stagione del Concilio Vaticano II (come ormai è entrato nell’uso definirla, con evidenti sottintesi apologetici, ma anche con un voluto margine di ambiguità, in modo da poterle ascrivere qualunque merito e da assolverla, se necessario, da qualunque errore), non lo avrebbero pubblicato mai e poi mai. Sarebbe stato semplicemente inconcepibile. Del resto, nessuna autorità ecclesiastica avrebbe concesso il Nihil obstat, per l’evidente incompatibilità del suo contenuto con il sacro Magistero della Chiesa cattolica. Un libro del genere, le Edizioni Paoline — quelle che noi abbiamo conosciuto, stimato ed amato nella nostra infanzia e adolescenza – non lo avrebbero pubblicato neppure sotto la minaccia di un mitra spianato. Il cambio di passo è incominciato fra gli anni ’60 e ’70, e all’inizio degli anni ’90 era ormai un fatto compiuto: ormai la stampa e l’editoria "cattoliche" erano state conquistate dal modernismo, e chi, ingenuamente, pensava di trovarvi ancora dei libri realmente cattolici, in realtà si trovava esposto al veleno modernista, e lo assorbiva senza neanche rendersene conto.

La stessa evoluzione, o piuttosto involuzione, si era verificata nel clero, e specialmente nell’alto clero: il fatto è che i preti operai, nel corso degli anni ’80 e ’90, avevano fatto carriera, adesso erano vescovi e perfino cardinali: adesso avevano i mezzi per diffondere ad ampio raggio le idee semi-marxiste e semi-protestanti di cui erano stati, vent’anni o trent’anni prima, gli alfieri solitari; adesso avevano a disposizione tutti gli strumenti per imprimere alla Chiesa, nel suo insieme — non tutto d’un colpo, ma in maniera sicura, capillare, implacabile — la svolta modernista e progressista da essi desiderata. I seminari, nel frattempo, si era svuotati e cominciava a farsi sentire la scarsità dei sacerdoti, dato il naturale processo d’invecchiamento di quelli della precedente generazione, l’ultima che avesse seminato e raccolto delle nuove vocazioni; ma che importava? Quando mai i signori progressisti si sono preoccupati per il fatto, banalissimo, che la realtà sembra dare torto alle loro belle teorie? Forse che i disastri del sistema sovietico e di quello cinese avevano minimamente scalfito l’aura di prestigio di cui godeva tuttora l’idea marxista fra i giovani di tutto il mondo, e specialmente fra quelli occidentali? Se i preti europei scarseggiavano, si sarebbe ovviato importando i sacerdoti dal Terzo Mondo; l’importante non era quello, ma proseguire, anzi, accelerare sulla strada delle "riforme", spingere più a fondo le "intuizioni" del Concilio, insomma, attuare pienamente quel che, in quel consesso, era stato, secondo loro, solamente abbozzato, impostato, ma non del tutto sviluppato.

Comunque, ecco come le Edizioni Paoline hanno presentato ai loro lettori, in quarta di copertina, il libro Cristiani divorziati risposati del vescovo Le Bourgeois (titolo originale dell’opera: Chrétiens divorcés remariés, Pris, Desclée de Brouwer, 1990; tradizione dal francese di Pasquale Casillo; Cinisello Balsamo, Milano Balsamo, Edizioni Paoline, 1991):

In circa vent’anni il vescovo francese Armand Le Bourgeois ha ricevuto quasi un migliaio di lettere da parte di cristiani divorziati risposati.

Questa corrispondenza venata di tristezza eppur fiduciosa, ripropone continuamente un’unica domanda: "Il nostro nuovo matrimonio è proprio una colpa imperdonabile, dal momento che veniamo esclusi dall’eucaristia?".

Pubblicando col consenso degli interessati un certo numero di tali lettere, il vescovo emerito di Autun offre a tali coppie "irregolari" l’opportunità di far sentire alla Chiesa la loro viva fede. Ma Le Bourgeois espone con precisione anche la dottrina della Chiesa cattolica sull’argomento, che confronta con quella della Chiesa ortodossa e delle Chiese protestanti. E nondimeno neppure lui, vescovo, riesce ad astenersi dal chiedere: "Bisogna proprio escludere sistematicamente dai sacramenti TUTTI i cristiani divorziati risposati?".

Un libro coraggioso e nello stesso tempo equilibrato. Esso non intende affatto suggerire atteggiamenti ribellistici, ma semplicemente esortare alla pratica della misericordia evangelica verso fratelli e sorelle che, pur non essendo stati "scomunicati", sono costretti a praticare per tutta la vita il "digiuno eucaristico".

Complimenti, un vero capolavoro di gesuitismo, nel senso peggiore della parola: non si vogliono fomentare o suggerire "atteggiamenti ribellistici", però si esercita una forte pressione morale per ammettere all’Eucarestia i divorziati risposati, descrivendo la loro situazione come se il "digiuno eucaristico" fosse colpa di qualcun altro, o, addirittura, della Chiesa stessa, sorda e chiusa alle loro voci imploranti. Oh, per carità: l’Autore (un vescovo!) espone con precisione (ci mancherebbe) "anche" la dottrina della Chiesa; però sposa in pieno le petizioni dei suoi corrispondenti e domanda, con accenti melodrammatici: Bisogna proprio escludere sistematicamente dai sacramenti TUTTI i cristiani divorziati risposati?, accreditando l’idea, completamente falsa, che ad escludere costoro sia la Chiesa, o qualche volontà maligna e vendicativa all’interno di essa, e non già che si siano esclusi da soli, con le loro mani, mediante le loro stesse scelte, al punto che già chiamarli "cristiani divorziati" è, puramente e semplicemente, una contraddizione in termini. Quanto poi alla domanda se li si debba escludere proprio tutti, essa già suggerisce la "soluzione": discernere, distinguere, regolarsi col buon senso… insomma, esattamente quel che ha fatto il papa Francesco con la Amoris laetitia. Cioè, lasciare in piedi, formalmente, la dottrina ufficiale sul matrimonio, che esclude il divorzio; però, di fatto, aggirarla e svuotarla di senso, ammettendo e riconoscendo tutta una serie di possibili eccezioni alla regola, che saranno valutate, caso per caso, dai singoli vescovi o dai singoli sacerdoti. Ma vediamo quale sia la posizione del vescovo Le Bourgeois, riassunta nella Conclusione del libro, direttamente dalle sue parole (op. ci., p. 145):

Nella storia recente della nostra vecchia Europa sono stati abbattuti muri che credevamo incrollabili. Gli uomini hanno sete di incontrarsi, di lavorare insieme per un modo fraterno.

Le nostre Chiese hanno infranto molte barriere, hanno rivisitato una storia piena di pregiudizi. Ormai non andiamo più a scovare le colpe gli uni degli altri, ma piuttosto cerchiamo di arricchirci gli uni gli altri, ci chiediamo se la tradizione degli uni non possa aiutare gli altri a comprendere meglio il messaggio di Cristo e a vivere da credenti in lui.

Non è venuto il momento di abbattere il muro che nella Chiesa cattolica tiene lontani dalla mensa eucaristica TUTTI i divorziati risposati, senza badare a situazioni particolari?

Non bisogna nel contempo prendere sul serio un impegno umano come il matrimonio civile; non bisogna aprirsi alla misericordia verso coloro che, avendo un giorno contratto matrimonio religioso (e non matrimonio civile!), ora sono invischiati in legami inestricabili? Talvolta essi sono vittime, e la loro sorte non può lasciare indifferente la nostra Chiesa; talaltra sono colpevoli: ma esistono dei peccati imperdonabili? Ci sono dei credenti che debbano essere privati per sempre del pane di vita?

Al Padre della misericordia, al Dio di ogni consolazione, ma anche alla mia Chiesa affido tutti coloro che soffrono perché sono rifiutati.

L’esordio è particolarmente penoso: si evoca l’immagine del muro di Berlino per suggerire che anche il "muro" che esclude i divorziati risposati dall’Eucarestia dovrà essere abbattuto, affinché gli uomini possano incontrarsi in spirito fraterno, cosa di cui hanno una gran sete. Nessuna distinzione fra il concetto laico dei "diritti" e il concetto cristiano dei "doveri", come, del resto, nessuna distinzione fra "Europa", espressione usata in senso laico, e "Chiesa" (semmai, si parla delle "nostre chiese", come se quelle protestanti, ad esempio, fossero tutt’uno con quella cattolica), cosa un po’ curiosa, da parte di un vescovo cattolico: ciò che si oppone alla Comunione dei divorziati risposati è un muro, dunque un male, e pertanto deve essere abbattuto. Dove abbiamo già sentito questo linguaggio, pieno di muri da abbattere e di ponti da gettare, non importa verso chi, non importa se ciò sia utile, se ciò sia saggio, se ciò sia possibile? Quando abbiamo già udito parlare dei muri, fossero pure i muri di casa nostra, come di qualcosa di brutto, che esclude, e dei ponti, fossero pure i ponti che faranno entrare le tigri, affamate e inferocite, nel nostro giardino, come di qualcosa che è buono in assoluto? Questa retorica folle, astratta, che non tiene minimamente conto della realtà e che, soprattutto, non opera alcuna distinzione fra bene e male, fra giusto e ingiusto, fra lecito e illecito: dove e quando l’abbiamo già vista e udita? E tutto questo gran parlare di "misericordia"? E questo silenzio assordante sul pentimento, quale condizione indispensabile per la remissione del peccato? E questo insinuare che, forse, non abbiamo ben compreso il messaggio di Cristo? E questo chiamare in soccorso le tradizioni delle altre chiese, quando ciò fa comodo per il proprio discorso? Ma quel che più colpisce, nelle parole di questo vescovo, è il parlare della esclusione dei divorziati risposati dall’Eucarestia (ma lui scrive pane di vita con le minuscole) come di un "rifiuto" da parte della Chiesa, cui si potrebbe porre rimedio con la loro inclusione. Tutto fatto tra di noi, a livello umano. Possibile che a questo signore non sia venuto in mente che non si possono fare sconti in nome di Dio, e che non si può barare con Colui che disse: L’uomo non separi ciò che Dio ha unito?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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