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16 Aprile 2017Possa tu non apprendere quali orrori vi siano nelle tenebre, che cosa avvenga tra le fiamme, che cosa arda tra le torture! Queste parole non appartengono a un romanzo del terrore soprannaturale di Stephen King, né alla sceneggiatura di un film horror, ma alla Messa dei defunti secondo il Messale Romano: quello anteriore al Concilio Vaticano II.
A tale proposito non sarà male ricordare, a quei cattolici progressisti che fossero un po’ duri d’orecchi, o corti di memoria, che il Messale Romano in uso nella liturgia cattolica, ancora nel 1962, sotto il pontificato di Giovanni XXIII e con la sua formale approvazione, era null’altro che una variante del Messale Tridentino, promulgato in funzione della Messa tridentina di papa Pio V, nel 1570 (un anno prima della battaglia di Lepanto), con alcune revisioni e modifiche apportate da papa Pio XII. Il nuovo Messale Romano, quello attualmente un uso, è entrato in vigore il 3 aprile del 1969, con la costituzione apostolica di Paolo VI Missale Romanum, e andava a sostituire il Messale del 1965, che metteva in pratica le indicazioni formulate nella costituzione conciliare Sacrosanctum Concilum. Il nuovo Messale del 1969 era profondamente diverso da tutti quelli che la Chiesa cattolica di rito romano aveva adottato nel corso di secoli e secoli, ma non aboliva affatto il precedente, né quello del 1962. La contraddizione più vistosa in esso presente era che veniva adottato contemporaneamente alla sparizione pressoché subitanea e universale della lingua latina dalla sacra Liturgia, benché nessun documento del Vaticano II, e tanto meno il Sacrosanctum Conclilium, ne avesse deciso l’abolizione, anzi, al contrario i documenti conciliari affermavano che esso rimaneva la lingua ordinaria dei riti latini. Sia come sia, il motu proprio di Benedetto XVI Summorum pontificum, del 2007, non ha fatto altro che ripristinare il rito tridentino e il vecchio Messale Romano, come forma "straordinaria" del rito romano, senza necessità di passare attraverso l’approvazione dell’ordinario diocesano, cioè del vescovo della singola diocesi. Con buona pace del massone cardinale Carlo Maria Martini, il quale sul quotidiano Il Sole 24 ore (si prenda nota: su Il Sole 24 ore, non su una rivista cattolica e non, meglio ancora, in una conversazione privata con il pontefice!) si era affrettato a deplorare la lettera apostolica di Benedetto XVI. Argomentazione principale di tali critiche: il timore di una "svalutazione" delle conquiste (testuale) della riforma liturgica del Vaticano II. Evidente la mala fede: nessuna riforma liturgica del Vaticano II aveva abolito il Messale Romano del 1962, né la Messa di Pio V. Questi cardinali massoni e modernisti si credono tanto furbi, ma poi commettono errori da principianti, come quello di far capire che non hanno mai avuto a cuore la "riforma liturgica", ma che hanno sempre voluto servirsi della riforma liturgica per scardinare la Messa di sempre e per demolire la Chiesa di sempre. Stessi obiettivi di Lutero: ma perseguiti stando all’interno della Chiesa, invece di attaccarla dall’esterno.
La preghiera per i defunti contenuta nel Messale Romano del 1962 rispecchia la severa concezione che il sacro Magistero ha sempre tramandato, ed insegnato ai suoi fedeli, a proposito dei Novissimi: morte, giudizio, inferno e paradiso. All’interno di tale concezione, senza nulla togliere al valore salvifico e redentivo del Sacrificio di Cristo, mediante la sua Passione, Morte e Resurrezione, vi è la piena consapevolezza dell’asperità del passaggio dalla condizione della vita terrena a quella della vita ultraterrena; asperità e problematicità che non è, come vorrebbero certi teologi modernisti, una bieca applicazione della "pedagogia della paura", concepita con il sinistro intento di spaventare il più possibile le anime, ma il logico punto d’arrivo di tutta la dottrina cattolica su questo argomento. La morte, infatti, è un passaggio difficile, davanti al quale tutti, nessuno escluso, devono sentirsi piccoli e pervasi da un riverente timor di Dio, perché nessuno può vantarsi di avere la salvezza garantita in tasca, ma tutti sono chiamati a raccogliere, in maniera definitiva e irreversibile, l’esito delle loro scelte morali, fatte nel corso dell’intera esistenza terrena. In maniera definitiva e irreversibile significa che il giudizio sarà l’ultimo, senza appello e senza alcuna possibilità di successive modifiche. Questo pensiero fa un po’ paura? Ebbene: nessuno ha mai detto che il Vangelo sia qualcosa di facile; nessuno si è mai sognato di affermare che la dottrina cattolica sia fatta in modo da accontentare chiunque, con il minimo dello sforzo, dell’impegno e del sacrificio da parte del credente. Gesù ha promesso la croce e la tribolazioni in questa vita, ma, nello stesso tempo, il suo soccorso e la sua consolazione; e, nell’altra vita, il premio eterno per i buoni e per coloro che hanno accolto il Vangelo, il castigo eterno per il malvagi e per quanti lo hanno osteggiato, rifiutato, disprezzato e combattuto.
Scriveva il cappuccino svizzero Otto Hophan (Nafels, 13/02/1898-Orselina, 5/10/1968), nel suo bel libro Gli Angeli (titolo originale: Die Engel, Luzern, Raber & Cie., 1956; traduzione dal tedesco di W. Sanvito e G. Antonelli, Roma, Edizioni Paoline, 1959, pp. 265-266):
Le preghiere della Chiesa accennano ai pericoli cui si va incontro al momento del passaggio dalla terra all’eternità. Anche in quell’ultima ora i nostri piedi possono urtare contro sassi, sterpi e catene. Per questo la Chiesa chiama in aiuto gli angeli anche per l’ingresso nell’eternità, che avviene con la stessa morte: «Possa tu non apprendere quali orrori vi siano nelle tenebre, che cosa avvenga tra le fiamme, che cosa arda tra le torture! Si allontani da te il terribile Satana con i suoi compagni! Tremi e fugga nel deserto amorfo della notte eterna quando tu, accompagnato dagli Angeli giungerai colà!». «Signore Gesù Cristo, Re di gloria! Preserva l’anima di tutti i fedeli defunti dalle punizioni degli inferi e dal mare profondo! Preservala dalla vendetta del leone, affinché l’abisso — tartarus! — non la divori, affinché non precipiti nell’oscurità. Michele, il santo vessillifero, la ponga nella luce eterna, che Tu un giorno hai promesso ad Abramo ed ai suoi discendenti» (Messale Romano, Messa dei defunti). In Paradiso ti conducano gli Angeli!
L’Apocalisse descrive con immagini possenti l’ira di Satana durante la sera del mondo.
Nella stessa maniera, a che alla sera di una vita umana il nemico chiama a raccolta le forze per vincere la posta. Dietro le ingenue immagini e le leggende che narrano come accanto al morente vi siano a destra un angelo ed a sinistra un diavolo, si celano serie realtà spirituali: in quelle ore decisive si combatte la lotta finale per il possesso dell’anima umana tra gli spiriti buoni e gli spiriti malvagi. Come risuona consolante in quel momento la parola del Signore, secondo cui l’anima, dopo la dipartita, è "portata" dagli Angeli non soltanto attraverso mondi estranei, ma anche attraverso mondi nemici, al disopra degli abissi, fino "al seno di Abramo". Quello che S. Giovanni scrive della vittoria finale degli Angeli sui diavoli la sera del mondo (Ap. 20, 1-3.10), si ripete alla sera di ogni vita umana.
E aggiungeva, in una nota (id., p. 266):
Il famoso psicologo Dr. J. Bleuel, in base a dati parapsicologici, giunge ad affermazioni simili: "Dobbiamo guardarci dal considerare innocuo il mondo che ci attende dopo la morte. Anche se il cristiano vero non ha motivo di temerla, pur tuttavia esso ha le sue proprie leggi, in apparenza severe, che con la logica del nostro cervello non possiamo capire e di cui non vediamo l’interna coerenza. È il modo di "comunicare" tra loro degli esseri dell’al di là, diverso dal nostro, data la mancanza di una logica dei nervi e di una spazialità tridimensionale, che ci rende molte volte difficile la comprensione di certe loro manifestazioni non appena essi, mediante fenomeni di tipo conosciuto [probabile refuso per: "sconosciuto"], cercano di mettersi in contatto con noi" ("Natur un Kultur", Monaco, Ottobre 1954).
Non si tratta, dunque, di vivere nella paura della morte, ma di sapere che la morte segna un passaggio definitivo e irrevocabile, e che, con essa, i dadi saranno tratti, e i giochi saranno chiusi; e che l’anima, nel momento del trapasso, si troverà a dover affrontare qualcosa che non aveva mai neppure immaginato, una situazione inedita, per la quale nemmeno le anime dei dotti e dei santi saranno realmente preparate, perché nessuno è preparato ad affrontare ciò che sorpassa ogni misura dell’umana ragione e dell’umana immaginazione. Nessuno, neppure il più grande teologo, neppure i Padri della Chiesa, sanno con precisione che cosa accadrà. Gli Angeli, senza dubbio, ci staranno vicini, ci accompagneranno e c’incoraggeranno; ma, se nel corso della nostra vita, avremo sprecato tutte le occasioni di conversione e di penitenza, tutte le ispirazioni al bene e alla verità, allora essi potranno fare ben poco per noi: perché nemmeno l’Angelo custode ha il potere di far sì che il male da noi commesso non reclami le sue terribili conseguenze, e che il nostro rifiuto di Dio non conduca alla logica e inesorabile separazione eterna dal suo Amore.
Una pseudo teologia buonista e modernista ci ha ormai familiarizzati con l’idea che a tutto c’è un rimedio, che Dio perdona sempre, che alla fine tutto si aggiusta, tutto si può sistemare e nessuno dovrà pagare il conto. Non è così. Ogni azione, ogni pensiero, ogni scelta, hanno le loro necessarie conseguenze. Dio perdona, ma solo chi si pente del male fatto e si converte: non perdona per forza, perché sarebbe lo stesso che obbligare alla conversione: se lo facesse, priverebbe l’uomo della sua qualità più bella, il libero arbitrio, e lo ridurrebbe a un manichino superfluo, a una marionetta. Allora avrebbe ragione Lutero e avrebbe torto la Chiesa; invece Lutero ha avuto torto e la Chiesa ha visto giusto, ha sempre visto giusto, tranne ora, che, a 500 anni da quello scisma, sembra quasi rendere omaggio all’eretico, e rinnegare se stessa. Ma questo è un altro discorso, e ne abbiamo già parlato tante volte.
D’altra parte, è sbagliato pensare che Dio ci giudicherà e che manderà all’inferno le anime malvagie. A giudicarci, probabilmente, saremo noi stessi; e all’inferno i malvagi ci vanno da soli, per loro libera scelta, anzi, incominciano a costruirselo intorno già in questa vita, e, nell’altra, non fanno altro che gettarne via la chiave, per sempre. Per sempre? Di fronte a questa idea, la teologia buonista e modernista si turba, si agita, s’indigna addirittura. Che crudeltà, un inferno che dura nei secoli dei secoli! È mai possibile? Certo non è politicamente corretto. E non riflette, questa teologia buonista e modernista, che nell’altra vita non c’è più il tempo, quella cosa che noi chiamiamo il tempo; perché nell’alta vita c’è solo un eterno presente, e quell’eterno presente sarà quello che noi avremo scelto per noi stessi. Questa è la legge universale: il paradiso e l’inferno non sono un premio e un castigo che vengono somministrato dall’esterno: sono uno stato dell’anima; e sono il riflesso e il naturale esito del modo in cui l’anima ha risposto, o non ha risposto, alla chiamata divina, nel corso della sua intera esistenza. Non c’è pericolo che qualcosa possa andare perduto: questo succede nel mondo umano, dove le cose possono anche perdersi, perfino quelle preziose, quelle uniche e irripetibili; ma davanti all’eterno, tutto ritorna, tutto si rispecchia: ogni pensiero, ogni parola, ogni atto, perfino ogni sospiro; sia nel bene che nel male. E, naturalmente, anche ogni omissione: perché la nostra vita morale è intessuta non solo di tutte le cose che abbiamo fatto, ma anche di tutte quelle che non abbiamo fatto: come un grande mosaico rimasto incompiuto, con le tessere lasciate a terra, inutilizzate. Forse avevamo altre cose da fare, che ci sembravano più importanti: quando avremo varcato la soglia dell’aldilà, allora capiremo quali erano importanti e quali no; ma sarà troppo tardi. Non potremo più fare le cose che abbiamo omesso, che abbiamo rimandato; forse ci batteremo i pugni sulla fronte per la disperazione, ma invano. Quando si entra nell’eternità, il tempo è scaduto, per definizione.
Del resto, ciò che è vero per gli esseri umani, lo è anche per le creature spirituali. E che l’inferno non sia voluto da Dio, né creato da Dio, ma che sia opera nostra, lo suggerisce anche quel che disse un demonio, parlando per bocca di un povero posseduto, nel corso di un esorcismo, rispondendo alle parole ironiche del sacerdote che lo esortava a ritornarsene nella sua dimora "bella calda", preparatagli da Dio (episodio riferito da padre Gabriele Amorth nel libro Un esorcista racconta, p. 18): Tu non sai niente. Non è Lui (Dio) che ha fatto l’inferno. Siamo stati noi. Lui non ci aveva neppure pensato. E come potrebbe Dio, che è l’Amore infinito, aver pensato all’inferno, averlo voluto, averlo programmato? No: Lui ha fatto bene ogni cosa, ha fatto tutto con amore. È la volontà malvagia delle creature che ha fatto l’inferno: i diavoli l’hanno preparato per se stessi e per anime dannate; queste ultime vi si stabiliscono, ma non nel senso di una dimora fisica, bensì nel senso di uno stato dell’essere, cioè di una eterna, disperante lontananza e separazione da Dio, che è il solo bene e la sola luce. L’inferno è il rifiuto, ostinato e definitivo, della Grazia. Ecco perché il credente dei nostri giorni dovrebbe chiedere allo Spirito Santo il dono del timor di Dio. Prima che sia tardi…
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