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Il papa può dimettersi come un qualsiasi impiegato?

L’11 febbraio 2013 i cattolici di tutto il mondo rimasero sconvolti dall’annuncio di Benedetto XVI della sua irrevocabile decisione di rinunciare al ministero petrino, alla data del 28 successivo, per dando luogo alla riunione di un Conclave che eleggesse il suo successore, secondo quanto stabilito dalla costituzione apostolica Universi Dominici Gregis, promulgata da Giovanni Paolo II il 22 febbraio 1996. La quale, lo notiamo per inciso, non dice nulla di abdicazioni o rinunce, ma fissa solo i criteri per la correttezza dei lavori del Conclave. Più precisamente, essa presuppone che vi sia una vacanza della cattedra di san Pietro, in seguito alla scomparsa del papa: scomparsa intesa come decesso e non come rinuncia o abdicazione (cfr. il § 49, che è quanto mai esplicito su questo punto (Celebrate secondo i riti prescritti le esequie del defunto Pontefice, e preparato quanto è necessario per il regolare svolgimento dell’elezione, il giorno stabilito – quindi, il quindicesimo giorno dalla morte del Pontefice, o, secondo quanto previsto al n. 37 della presente Costituzione, non oltre il ventesimo – i Cardinali elettori converranno nella Basilica di San Pietro in Vaticano, o altrove secondo l’opportunità e le necessità del tempo e del luogo, per prender parte ad una solenne celebrazione eucaristica con la Messa votiva pro eligendo Papa. ecc.). Così come, sempre per inciso, notiamo che si minaccia la più grave fra le pene canoniche, ossia la scomunica, per chi cerca di predisporre in anticipo l’elezione di un pontefice, o per chi cerca di pilotare la scelta mentre il pontefice è ancora nell’esercizio delle sue funzioni:

79. Confermando pure le prescrizioni dei Predecessori, proibisco a chiunque, anche se insignito della dignità del Cardinalato, di contrattare, mentre il Pontefice è in vita e senza averlo consultato, circa l’elezione del suo Successore, o promettere voti, o prendere decisioni a questo riguardo in conventicole private.

80. Allo stesso modo, voglio ribadire ciò che fu sancito dai miei Predecessori, allo scopo di escludere ogni intervento esterno nell’elezione del Sommo Pontefice. Perciò nuovamente, in virtù di santa obbedienza e sotto pena di scomunica latae sententiae, proibisco a tutti e singoli i Cardinali elettori, presenti e futuri, come pure al Segretario del Collegio dei Cardinali ed a tutti gli altri aventi parte alla preparazione ed alla attuazione di quanto è necessario per l’elezione, di ricevere, sotto qualunque pretesto, da qualsivoglia autorità civile l’incarico di proporre il veto, o la cosiddetta esclusiva, anche sotto forma di semplice desiderio, oppure di palesarlo sia all’intero Collegio degli elettori riunito insieme, sia ai singoli elettori, per iscritto o a voce, sia direttamente e immediatamente sia indirettamente o a mezzo di altri, sia prima dell’inizio dell’elezione che durante il suo svolgimento. Tale proibizione intendo sia estesa a tutte le possibili interferenze, opposizioni, desideri, con cui autorità secolari di qualsiasi ordine e grado, o qualsiasi gruppo umano o singole persone volessero ingerirsi nell’elezione del Pontefice.

81. I Cardinali elettori si astengano, inoltre, da ogni forma di patteggiamenti, accordi, promesse od altri impegni di qualsiasi genere, che li possano costringere a dare o a negare il voto ad uno o ad alcuni. Se ciò in realtà fosse fatto, sia pure sotto giuramento, decreto che tale impegno sia nullo e invalido e che nessuno sia tenuto ad osservarlo; e fin d’ora commino la scomunica "latae sententiae" ai trasgressori di tale divieto. Non intendo, tuttavia, proibire che durante la Sede Vacante ci possano essere scambi di idee circa l’elezione.

Ad ogni modo lasciamo ad altri, più esperti di noi in diritto canonico, di discettare se sia legittimo, da un punto di vista giuridico, che un papa regnante presenti le proprie dimissioni, e sia pure, come stabilito dal comma 332 del Codice stesso, e come affermato da Benedetto XVI, in piena libertà di scelta e liberamente manifestando la sua intenzione; cosa della quale, peraltro, è più che legittimo dubitare che sia avvenuto, se è vero, come è vero, che il cardinale Godfried Danneels si è pubblicamente vantato di aver partecipato a un gruppo di cardinali elettori, da lui stesso soprannominato "mafia di San Gallo", avente lo scopo di sbarrare la strada all’elezione di Ratzinger nel 2005, e di favorire l’elezione di un cardinale progressista nel 2013. Così pure, lasciamo ad altri, più esperti di noi, stabilire se sia stata legittima, sempre dal punto di vista canonico, l’elezione di Francesco, avvenuta il 13 marzio e ciò prima dei 15 giorni stabiliti tra le fine di un pontificato e la proclamazione del suo successore; per non parlare del fatto che un gesuita, per statuto, non può essere eletto cardinale, a meno che riceva un’apposita dispensa, e tanto meno pontefice: e infatti non c’è mai stato, prima di Francesco, alcun pontefice gesuita nella storia della Chiesa, sebbene l’ordine dei gesuiti esista da ben cinque secoli. E infine lasciamo volentieri a qualcun altro dipanare l’intricatissima matassa se l’apostasia e l’eresia del vertice della Chiesa cattolica, divenute ormai evidenti, abbiano avuto inizio con Francesco o se incomincino con il conclave del 1958, dopo la morte di Pio XII, e con lo svolgimento del Concilio Vaticano II, vale a dire con Giovanni XXIII; oppure se l’inizio vada collocato nella dichiarazione Nostra aetate del 28 ottobre 1965, che fa piazza pulita di due millenni di dottrina circa il Vangelo di Gesù Cristo come sola verità soprannaturale e come unica via di salvezza per l’umanità, oppure con la riforma liturgica voluta da Paolo VI nel 1969 e affidata all’arcivescovo massone Annibale Bugnini, e particolarmente con l’istituzione del Novus Ordo Missae e con la repentina esclusione (non soppressione) del vecchio rito, peraltro mai abolito ufficialmente. E non già perché si tratti di questioni di poca importanza, tutt’altro; ma insomma, sono pur sempre questioni formali, mentre a noi preme la sostanza delle cose e non la forma. Perciò la domanda che facciamo a noi stessi, e che poniamo anche agli altri, è la seguente: un papa ha il diritto di dimettersi, come un impiegati qualsiasi, oppure si deve ritenere vincolato sino alla morte al ministero petrino, cui è indissolubilmente legato dall’istante della sua elezione, beninteso purché questa sia canonicamente valida? Fare il papa è come fare il dirigente d’azienda, o il capostazione, o il giudice di un tribunale? Può un papa scendere dalla cattedra di san Pietro e dire ai cardinali, ai vescovi, al clero in generale e alla totalità dei fedeli: Scusate tanto, ma sono stanco e non ce la faccio più, voglio andare in pensione; da domani chiamatemi pure "papa emerito"?

Questa domanda è tanto più importante in quanto una certa fetta di cattolici, al presente, lamenta che Benedetto XVI si sia dimesso, ma sospetta che, pur dopo le sue dimissioni, egli sia rimasto ancora, misteriosamente, il "vero" papa; che se lui è ancora vivo, allora il papa regnante non è Francesco, ma Ratzinger; e che tutti i mali del pontificato di Francesco derivano dal fatto che Benedetto si è dimesso, ma che, siccome da papa non ci si può dimettere, nella sostanza e indipendentemente dalla forma, bisogna ancora sperare e guardare a Ratzinger come alla figura che guiderà i cattolici, chi sa come, fuori dalla crisi che attanaglia la Chiesa sempre di più, e che ormai minaccia di stritolarla completamente. Implicitamente o esplicitamente, quelli che ragionano così contrappongono il "buon" Benedetto XVI, pio e ortodosso, rispettoso del Deposito della fede e della dottrina perenne della Chiesa, al "cattivo" ed eretico Bergoglio, che ha operato uno strappo con la continuità della dottrina e che ha stravolto i contenuti del Deposito della fede, operando una vera e propria apostasia pilotata dal vertice, la quale troverà nel prossimo Sinodo amazzonico la sua definitiva "consacrazione", per trasformare definitivamente la Chiesa cattolica in qualcosa di nuovo e di diverso da ciò che è sempre stata, dalle origini fino ad oggi.

Per tentar di sciogliere questi dubbi, dubbi di sostanza e non di forma, può risultare utile riportare le precise parole con le quali Benedetto XVI annunciò la sua intenzione di dimettersi entro pochi giorni, l’11 febbraio 2013, durante il Concistoro riunito per la canonizzazione dei Martiri di Otranto del 14 agosto 1480, insieme ad altri tre beati:

Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino… Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005.

Ma ecco cosa scriveva a proposito delle proprie eventuali dimissioni Giovanni Paolo II in un testo del 1994, cioè quando la sua salute non era ancora così seriamente compromessa come negli ultimi anni della sua vita e del suo pontificato (allorché, qualcuno lo ricorderà, i vescovi tedeschi cominciavano a scalpitare affinché si dimettesse per davvero); testo che è rimasto inedito e che probabilmente era destinato a essere letto in pubblico, forse nel Collegio dei cardinali, come lascia supporre il fatto che su alcuni vocaboli è segnato l’accento tonico, come per facilitarne la pronuncia (citato da Slawomir Oder nell’articolo Quando Wojtyla voleva dimettersi, su Famiglia Cristiana n. 5 del 31 gennaio 2010, pp. 37-39):

Davanti a Dio, ho riflettuto a lungo su che cosa debba fare il Papa per se stesso al momento in cui compirà i 75 anni. Al riguardo, vi confido che quando, due anni fa, si profilò la possibilità che il tumore da cui dovevo essere operato fosse maligno, pensai che il Padre che sta nei cieli volesse provvedere egli stesso a risolvere in anticipo il problema.

Ma non fu così.

Dopo aver pregato e riflettuto a lungo sulle mie responsabilità davanti a Dio, ritengo doveroso di seguire la disposizione e l’esempio di Paolo VI, il quale, prospettandosi lo stesso problema, giudicò di non poter rinunciare al mandato apostolico se non in presenza di una infermità inguaribile o di un impedimento tale da ostacolare l’esercizio delle funzioni di Successore di Pietro.

Anch’io pertanto, seguendo le orme del mio Predecessore, ho già messo per iscritto la mia volontà di rinunciare al sacro e canonico ufficio di Romano Pontefice nel caso di infermità che si presuma inguaribile e che impedisca di esercitare (sufficientemente) le funzioni del ministeri petrino.

All’infuori di questa ipotesi, avverto come grave obbligo di coscienza il dovere di continuare a svolgere il compito a cui Cristo Signore mi ha chiamato, fino a quando egli, nei misteriosi disegni della sua Provvidenza, vorrà. [Il testo di Paolo VI al quale papa Wojtyla fa riferimento risale al 2 febbraio 1965 e viene citato anche in un altro manoscritto inedito di Wojtyla, datato 15 febbraio 1989.]

Evidentemente Famiglia Cristiana, che pubblicava con fierezza queste parole di Giovanni Paolo II nel gennaio del 2010, non è la stessa Famiglia Cristiana che, nel ma febbraio e nel marzo del 2013, cioè appena tre anni dopo, saluta come cosa normalissima, per non dire cin malcelata soddisfazione, le dimissioni di Benedetto XVI e acclama a perdifiato l’elezione di Francesco, il papa che dice subito, senza tanti preamboli, di voler "cambiare la Chiesa" (e lo dice, affinché intenda chi ha voglia d’intendere, non già all’organo vaticano L’Osservatore Romano o a L’Azione, portavoce della C.E.I., bensì al quotidiano La Repubblica, massimo altoparlante del partito anticristiano e massonico italiano). Un cambio alla direzione, forse? Niente affatto: il direttore era sempre lo stesso, don Antonio Sciortino, che ha diretto il giornale dal 1999 al novembre del 2016; attualmente ne ha preso il posto don Antonio Rizzolo, quello che si fa la pubblicità sul programma domenicale I viaggi del cuore, grazie a Mediaset, gratis et amore dei; e ciononostante le vendite continuano a precipitare, toccando il record negativo assoluto. E anche la linea del settimanale era sempre la stessa, tanto è vero che già nel 2010 vi campeggiava il falso teologo, falso prete e falso cattolico Enzo Bianchi, con due intere pagine nel numero sopraddetto per pubblicizzare i suoi libri (nella collana intitolata, niente di meno: I grandi maestri dello spirito; sarà: del resto, ciascuno si sceglie i maestri che preferisce). La sua linea sui migranti, sull’ecumenismo, sul "dialogo" interreligioso, sulla morale sessuale, sui rapporti coi partiti politici italiani, non era certo quella di Benedetto XVI; era, semmai, in anticipo, quella che sarebbe stata di Francesco: ma che importa? È da un pezzo che, nella Chiesa, non ci sono più problemi di coerenza e di rispetto del Deposito della fede; che si fa a gara nel voler modernizzare ogni cosa, con la scusa di dialogare con il mondo (anche se Gesù Cristo non è vento nel mondo per dialogare, ma per convertirlo); e che ci si prende la libertà di andar per conto proprio, di spararle sempre più grosse e di contraddire apertamente la Tradizione: ma forse che ciò costituisce un problema per qualcuno? Al contrario, ci si fa un merito di tali atteggiamenti; si invoca lo "spirito profetico" del Concilio; si tira in ballo, niente di meno (e senza avvedersi che il concetto è peggio che insostenibile, blasfemo) una "nuova Pentecoste". Insomma c’è stato un contrordine, a partire dal Vaticano II, ma guai a dirlo: almeno, i vecchi comunisti erano brutalmente franchi e dicevano, senza peli sulla lingua: Contrordine, compagni; il nemico non è più la democrazia borghese, ma il nazismo (nel 1941), mentre questi preti progressisti non hanno neanche quella selvaggia franchezza, vogliono agire in punta di piedi e pretendono che tutto sia rimasto intatto, che nulla sia stato cambiato della sostanza della fede, mentre sanno benissimo di aver cambiato tutto, perché quand’anche si fosse cambiata solo la liturgia (e in principio era così, più o meno) si capovolge tutto, perché la liturgia non è forma, ma sostanza del rapporto fra i fedeli e il Signore Gesù Cristo. Però, appunto, guai a dirlo! No: bisognava e bisogna far la recita che non sia cambiato nulla d’importante; che ci sia stata una discontinuità nella continuità, e simili acrobazie verbali, degne delle convergenze parallele di democristiana memoria.

Ma adesso torniamo al nostro assunto iniziale. Dopo ave confrontato le parole di Giovanni Paolo II e quelle di Benedetto XVI, bisogna tirar le somme e giungere ad una conclusione: lo vuole la logica, oltre che la necessità di assumere, come cattolici coerenti, una posizione precisa e motivata rispetto all’evento traumatico del febbraio 2013, che, invece, per la maggioranza dei fedeli, complici appunti i mass-media ex cattolici, per non parlare di quelli da sempre pervicacemente anticattolici, ma che oggi fingono qualche simpatia per questo cattolicesimo, che di cattolico conserva ormai — e usurpa – soltanto il nome (come la Repubblica), sembra esser scivolato via perfino dalla memoria, cose se non fosse successo proprio niente di speciale. Al contrario, come è noto, non si era mai visto un papa fare per viltade il gran rifiuto dai lontani tempi di Celestino V, il 13 dicembre 1294: più di sette secoli fa. A ben guardare, comunque, non c’è tanto da girare attorno alla questione, perché la risposta che cerchiamo è terribilmente semplice. Il solo e grande modello al quale ispirarsi, per il cristiano, deve essere sempre, in ogni circostanza della vita, Gesù Cristo: guardando a Lui solo non si rischia di sbagliare mai, per nessuna ragione. Ebbene, come si è comportato Gesù Cristo, davanti alla prospettiva della grande prova, della Passione e Morte che lo attendeva, per la redenzione del mondo? Ce lo dicono, nel modo più esplicito, i Vangeli: ha provato, umanamente, angoscia e sgomento, e ha pregato con il massimo fervore, nell’orto degli ulivi. Mai, però, neppure per un istante, ha pensato di poter fare altro che la volontà del Padre suo (Marco, 14, 36): Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu. E così dobbiamo fare anche noi; così deve fare anche il papa. Per quanto turbato e sofferente, per quanto minacciato o sottoposto a pressioni che non è possibile neanche immaginare, egli deve conformarsi in tutto e per tutto alla volontà di Dio, il Dio di Gesù Cristo, e dire (Matteo, 26, 39): Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu! Nessun ragionamento capzioso, nessun sofisma potrà mai cambiare questo semplice concetto: per il cristiano nulla è possibile fare, che non sia in perfetto e totale accordo con la volontà di Dio. E se lo Spirito Santo lo ha posto sulla cattedra di san Pietro, va da sé che non ne può scendere a suo talento. Solo una evidente malattia mentale o una malattia fisica del tutto invalidante le sue funzioni, potrebbe giustificare la sua deposizione da parte dei Cardinali; ma quanto a sé, egli non può abbandonare la missione cui Dio lo ha chiamato. Se il Diritto Canonico non lo stabilisce in maniera esplicita, è perché non ce n’era bisogno. C’è forse bisogno di ricordare al cristiano che, nella vita, egli non è chiamato a fare la propria volontà, ma sempre e solo la volontà del Padre celeste?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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