
È la Sposa di Cristo o il Circo Barnum?
31 Marzo 2017
Non partecipa alla processione del Corpus Domini, né s’inginocchia davanti al Santissimo: che papa è?
31 Marzo 2017A cosa serve la teologia morale? Qual è il suo oggetto, quale il suo scopo, la sua ragion d’essere? A giudicare da ciò che dicono i sacerdoti, e anche da quel che non dicono, e a giudicare dai documenti che i vescovi indirizzano alle loro diocesi, e da molti atti concreti che compiono, dalle pubbliche dichiarazioni e dalle interviste che rilasciano alla stampa e alla televisione, si direbbe che regni un bel po’ di confusione, in proposito, proprio là dove sarebbe naturale aspettarsi che le idee siano ben chiare: chi deve avere le idee chiare sulla teologia morale, se non un membro del clero cattolico? E non parliamo, poi, dei teologi di professione, dei titolari delle cattedre di teologia, o, comunque, degli autori di libri e trattati di teologia. Se esiste una sostanziale continuità fino al principio degli anni ’60 del Novecento, poi, a partire dal Concilio Vaticano II, le cose cambiano, e si assiste a una vera e propria esplosione di tante piccole teologie, di concezioni perfino contraddittorie, di prospettive, proposte e riflessioni che paiono escludersi a vicenda: ciascuna con la sua verità da gridare al mondo, beninteso in nome di Cristo, anzi, in nome del "Vangelo", divenuto – come per i protestanti – una specie di clavis universalis per far dire a Gesù Cristo quasi qualunque cosa, e, naturalmente, anche il suo contrario. Il fondo lo stiamo toccando in questi giorni, con un generale dei gesuiti, Arturo Sosa Abascal, nominato a quell’altissimo incarico da papa Francesco, che lo tiene in grande stima, il quale ha dichiarato, con la massima tranquillità (o sfrontatezza), che noi non sappiamo cosa abbia realmente detto Gesù Cristo, dal momento che, nella Giudea del I secolo, non esistevano dei registratori per catturare e tramandare fedelmente le sue parole. Che è quanto dire che il cristianesimo è una commedia pirandelliana dai mille volti e dai mille significati, a seconda del punto di vista da cui lo si guarda; che tutto quel che credevamo di sapere su di esso, tutto quel che ci è stato insegnato, a noi e a qualcosa come ad ottanta generazioni di cristiani che ci hanno preceduti in questa vita terrena (calcolando quattro generazioni, in media, per ogni secolo da che esiste la Chiesa, cioè da circa venti secoli, una più, una meno), è nient’altro che fumo e aria fritta; e che adesso si tratta di affidarsi a qualche cervello fino, come Sosa Abascal per l’appunto, o magari come papa Francesco, per capire, finalmente, dopo duemila anni d’ignoranza, fraintendimenti ed equivoci, cosa abbia realmente detto Nostro Signore, vale a dire cosa sia il Vangelo.
Vorremmo provare a rispondere alla domanda: che cos’è la teologia morale?, prendendo lo spunto da ciò che ne pensava quello che è considerato uno dei più autorevoli esperti in materia del XX secolo, don Enrico Chiavacci (Siena, 16 luglio 1926-Ruffignano, presso Firenze, 25 agosto 2013), per poi svolgere le nostre riflessioni e deduzioni. Si noti che Chiavacci condivide quel che abbiamo testé affermato circa una linea divisoria fra il prima e il dopo Concilio, che fa da spartiacque fra due epoche nello studio e nell’insegnamento della teologia morale, e, più in generale, fra due epoche nella storia della Chiesa e nella vita della cristianità cattolica. Lo condivide, ma, si badi, esattamente all’incontrario: vale a dire che, per lui, lo "spirito" conciliare, o post-conciliare, che dir si voglia (perché è innegabile, e dimostrabile con le carte alla mano, che molte delle cose che si sono vagheggiate, proclamate e attuate negli anni susseguenti al Concilio, non trovano alcun vero fondamento nei documenti conciliari stessi, per cui si è trattato di forzature, di abusi ed eccessi, non ascrivibili al fatto del Concilio, ma ad una sua fantasiosa e illecita interpretazione) è stato proprio l’evento benefico che ha messo in moto una più matura e approfondita riflessione in seno alla Chiesa, e, nel caso specifico, che ha tratto fuori la teologia morale dai vecchi schemi formalisti ed asfittici, insufflandovi una vita nuova, aperta, dinamica, coinvolgente, al passo con i tempi della società moderna, e finalmente capace di dare una risposta ai problemi e agli interrogativi degli uomini d’oggi.
Citiamo, dunque, una pagina eloquente di uno dei suoi molti libri dedicati a questo tema, Teologia morale, 1, Morale generale, Assisi, Cittadella Editrice, 1986, pp. 127-129):
Una definizione assai comune della teologia morale era: "la scienza che tratta dell’atto umano in quanto lecito o illecito". Il problema da risolvere è chiaramente: come agire per restare nell’ambito del lecito. Il concetto di coscienza è il già ricordato concetto di coscienza passiva. Il concetto di legge morale è quello di un elenco di precetti che costituiscono il confine certo fra il lecito e l’illecito, e di una regola generale – il sistema morale, appunto – che permetta di stabilire con certezza riflessa quel confine nei casi numerosissimi in cui il disaccordo fra gli autori non permette una certezza diretta. In questo quadro la funzione del magistero è assai semplice: ogni pronuncia, anche non infallibile, anche riformabile o occasionale, serve a dare una certezza riflessa, ed esonera da ulteriori complicazioni, sia essa restrittiva o permissiva rispetto ad altre opinioni autorevoli.
Tutta la riflessione, la predicazione, la prassi morale cattolica ruota intorno alla domanda sul lecito e l’illecito. Non sono misteriosi i motivi che condussero la morale cattolica a questa sua fase riduttiva, e potremmo ricondurli sinteticamente a tre.
1. La degenerazione del concetto di legge naturale e la nascita del giusnaturalismo e del razionalismo […]. 2. L’influsso del diritto sulla morale, e con esso il primato della categoria del lecito e dell’illecito. […] 3. La rigida sistemazione dei compiti del penitente e del confessore stabilita dal Concilio di Trento per il sacramento della Penitenza, e la contemporanea riforma degli studi ecclesiastici miranti, nei seminari, a formare dei pratici più che dei teoreti. La formazione seminaristica negli anni seguenti, e praticamente fino al Vaticano II, mirò a fare dei confessori ben preparati al loro compito di giudici, e i manuali di teologia si ridussero a istituzioni per i confessori, tanto più utili quanto più esauriente era l’elenco dei precetti gravi, lievi, e dei non-peccati (sfera del lecito) che tali somme offrivano.
Il Concilio Vaticano II – preceduto da pochi autori e scuole teologiche – ribalta l’idea stessa di ciò che debba essere lo scopo, la questione fondamentale della riflessione morale cristiana. […] Si vede subito che la domanda fondamentale è cambiata radicalmente: non più che cosa in astratto posso fare, ma a che cosa in concreto sono chiamato. Non più una sfera – la più ridotta e rigida possibile – dell’illecito, al di là della quale c’è il vuoto morale, la libertà come arbitrio; ma un impegno che sussiste in ogni singola scelta della vita di ciascuno, e che vede in ogni singola scelta una risposta "esistenziale" – collocata nel tempo, nello spazio, nella biografia irripetibile di ciascuno – all’unica suprema vocazione al regno, alla carità, alla sequela di Cristo.
È appunto in questa luce che va collocato il problema della coscienza certa: il problema non è più quello della liceità di ogni singolo comportamento, ma è quello della certezza (quasi sempre relativa) di ciò che qui e ora comporta la chiamata divina; e il "qui e ora" si riferisce non più a certi comportamenti, ma a tutti i comportamenti in qualche misura liberi, a tutta la storia umana di ogni singolo, che – nella sua identità nel tempo e nella sua inevitabile storicità – deve essere progressiva risposta a una vocazione, progressivo cammino verso Cristo.
Eh, già: alla fine, si torna sempre alla sessa filastrocca: il cristiano è colui che si mette in cammino verso Cristo. Piace talmente tanto, questa espressione melensa e retorica, ai teologi post-conciliari, che ne fanno un vero e proprio abuso. Sono evidenti i richiami e le derivazioni dalla filosofia profana e specialmente esistenzialista, cattolica e anche protestante: a Kierkegaard, soprattutto, da cui essi traggono l’idea – abusandone senza ritegno, o, forse, semplicemente non capendola – dell’incontro con Dio come fatto "esistenziale", ma anche ad Heidegger, e al suo "mettersi in cammino verso il linguaggio". C’è anche parecchia farina di Teilhard de Chardin, il convitato di pietra di tutta la teologia conciliare e post-conciliare, perché la sua idea (non osiamo chiamarla "filosofia", e neppure "teologia", perché non è sostenuta da alcun ragionamento, ma è solo l’espressione di uno stato d’animo: quello di un paleontologo che vorrebbe rendere la teologia simile alle scienze naturali, a cominciare dal dogma dell’evoluzionismo) di una sorta di evoluzione naturale di tutte le cose verso il Punto Omega, cioè verso un non meglio precisato "Cristo cosmico" (che sa più di New Age che di Vangelo) suggerisce, appunto, quella che gli uomini siano naturalmente avviati verso la Verità, e che i loro passi in quella direzione abbiano qualcosa di fatale, d’irresistibile. Ma la verità è diversa: l’uomo non è chiamato a mettersi in cammino verso Dio, perché la distanza fra la creatura finita e il Creatore infinito non è neppur lontanamente percorribile: è la distanza insondabile fra due statuti ontologici radicalmente diversi; bensì è chiamato a convertirsi, che è tutta un’altra cosa. Se l’uomo, mettendosi in cammino, potesse "incontrare" Gesù, ciò vorrebbe dire che lui e Dio giacciono sullo stesso piano o livello di esistenza; invece non è affatto così. La distanza fra loro è incolmabile, ed è Dio che prende l’iniziativa di scendere verso la sua creatura, per attirarla a sé: e la creatura che si lascia afferrare e portare in alto, incontra Gesù, mentre la creatura che resta chiusa nella propria pretesa intellettuale di poter capire e far da sé, quasi che non vi fosse alcun Mistero (come già notava Dante: quello della Trinità, quello dell’Incarnazione del Verbo) non lo incontrerà mai, per quanta strada possa fare – o credere di aver fatto, magari girando attorno al proprio ego – e per quante paia di sandali abbia consumato.
Ma partiamo dall’inizio. Chiavacci sostiene che la teologia morale cattolica, nel periodi di tempo corso fra il Concilio di Trento e il Vaticano II (il Vaticano I non viene considerato mai dai teologi progressisti, che lo passano totalmente sotto silenzio: riuscirebbe loro penoso anche solo doverlo nominare) era degenerata in arida precettistica, con una sorta di tabella delle cose lecite e illecite, perdendo di vista il punto essenziale: che a Dio non importano tanto i singoli comportamenti, ma tutto l’orientamento di una vita umana; e che fu il Vaticano II a rimettere la Chiesa in carreggiata, ripristinando il giusto ordine delle priorità e ribaltando addirittura l’idea dello scopo della morale cristiana (usa proprio il verbo "ribaltare", non è una nostra esagerazione: e ciò significa, se lo logica non è un’opinione, che, prima del Vaticano II, la morale cattolica era completamente sbagliata e fuori strada). D’altra parte, Chiavacci sostiene che il sistema educativo dei seminari, prima del Concilio, era concepito in funzione di una conoscenza morale di tipo pratico, non teorico; poi, però, rivendica ai nuovi teologi della fase post-conciliare il merito di aver "scoperto" che lo scopo della teologia morale è di domandarsi non più che cosa in astratto posso fare, ma a che cosa in concreto sono chiamato; e questa, a nostro avviso, è una ulteriore contraddizione. L’educazione dei sacerdoti al loro ministero, e specialmente al sacramento della Penitenza, era troppo pratica o troppo teorica? Non si capisce: ora si direbbe una cosa, ora l’altra. Di certo, si vede solo la volontà di magnificare la "svolta" post-conciliare, come se per secoli e secoli i sacerdoti, e specialmente i confessori, si fossero rinchiusi nella gretta amministrazione di una casistica slegata dagli aspetti concreti della vita. Infine Chiavacci sostiene che ai nuovi teologi spetta il vanto di aver riscoperto che Dio, dagli uomini, desidera essenzialmente una cosa, una sola: la suprema vocazione al regno, alla carità, alla sequela di Cristo. Belle parole; ma ciò significa che Ignazio di Loyola, Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, oppure, se vogliamo avvicinarci ai nostri tempi, Giovanni Bosco, Massililiano Kolbe, Pio da Pietrelcina, erano il prodotto di una Chiesa che aveva scordato la suprema vocazione al regno, alla carità, alla sequela di Cristo? Via, cerchiamo di essere seri. Viceversa, che tipo di uomini e donne ha prodotto la Chiesa post-conciliare? Lasciando stare i santi, e limitandoci al livello medio dei sacerdoti, e, naturalmente, anche dei fedeli laici, si può davvero sostenere che esso sia migliorato, che sia progredito, rispetto a prima del 1962? E non si dica che questo è un argomento basato solo sui fatti e non sui ragionamenti, perché è proprio don Chiavacci a rivendicare con fierezza la "riscoperta" della dimensione storica, esistenziale, concerta e individuale dell’atto morale nella biografia interiore del singolo cristiano. Il vero problema, a nostro avviso, non è che la Chiesa prima del Concilio desse troppa importanza al lato precettistico della morale, ma che una parte del clero diventasse schiava della precettistica: il che non è la causa, ma l’effetto di un allentamento della tensione morale nella vita cristiana. Se i cattolici del ventesimo secolo avessero conservato la fede dei loro padri, la precettista del confessore si sarebbe rivelata utile, anzi, utilissima, per dirimere le difficoltà di tipo pratico, ma essi non avrebbero commesso l’errore di assolutizzarla. Quanto al "rimedio" escogitato dai nuovi teologi post-conciliari, esso fu assai peggiore del male: in buona sostanza, l’ufficializzazione del soggettivismo e del relativismo morale. Che altro significa dire che il problema è quello della certezza (quasi sempre relativa) di ciò che qui e ora comporta la chiamata divina? Se non si è certi neanche di questo, a che serve parlare di Gesù?
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