
L’ateismo? Colpa dei cattolici
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27 Marzo 2017Due sono le sorgenti della forza interiore di Gesù Cristo, umanamente parlando — perché non dimentichiamo mai che Gesù non era un uomo qualsiasi, per quanto eccezionale, ma era il Figlio di Dio, e Dio egli stesso: il nascondimento e la capacità di distaccarsi dagli uomini. E qui bisogna intendersi bene sul significato delle parole.
Il nascondimento è un modo di porsi che assume due significati opposti a seconda dei tipi umani che lo praticano. Per il tipo inferiore, si tratta di una maschera per tenere celate le proprie intenzioni, per assicurarsi un vantaggio sleale sugli altri, per fingere di essere quel che non si è e ingannare l’altro, giocando con lui e approfittando della sua disponibilità e della sua buona fede. Nel tipo umano superiore, invece, è una cosa completamente diversa: è il sincero bisogno di solitudine e di raccoglimento per non perdere mai di vista l’essenziale, cioè Dio e le cose divine, ciò che inevitabilmente accade se ci si lascia trasportare dalla folla, dal rumore e dalla frenesia della vita attiva, ma senza spiritualità.
Gesù aveva bisogno, quasi fisicamente bisogno, di questo secondo tipo di nascondimento: la folla, dopo un poco, lo stancava, specialmente quando lo osannava e lo cercava solo per le opere che compiva, e non per il Vangelo che annunciava. Lui voleva parlare agli uomini del Padre celeste, ed essi volevano da lui dei segni, dei miracoli, delle guarigioni; appunto per questo Gesù, per prima cosa, chiedeva ai malati: Credi tu che Dio possa farti guarire?, e solo dopo aver ottenuto questa professione di fede, invocando sempre il Padre, Gesù operava le guarigioni, gli esorcismi, e ciò che la folla gli domandava. Non appena poteva, però, Gesù se ne andava in un luogo appartato, nascondendosi perfino ai suoi, che lo cercavano. Dov’eri andato, Maestro, gli chiedevano. È la stessa domanda che gli avevano fatto, preoccupati, i suoi genitori, quando, da adolescente, si era allontanato da loro e per la prima e unica volta – che noi si sappia – aveva dato loro un dispiacere: perché voleva restare nel tempio e ascoltare quel che i sacerdoti dicevano del Padre celeste. E non solo ascoltare, ma anche interrogare. Quel colloquio non si sarebbe mai interrotto: per tutta la vita, pubblica e privata, Gesù non ha mai smesso di tenersi in costante unione con il Padre suo, attraverso la preghiera quotidiana, assidua, fervorosa. Ecco che il nascondimento, per lui, diventava una necessità vitale: non avrebbe potuto farne a meno. Senza raccogliersi in solitudine, l’anima perde il contatto con Dio; e quando ha perso il contatto con Dio, essa è preda di tutte le passioni e di tutti i disordini della natura umana: fragile, incostante, incontentabile.
Qui la ricerca del nascondimento si fonde con l’altro aspetto caratteristico della vita interiore di Gesù: il distacco dagli uomini. Anche su questa espressione bisogna intendersi bene. Nel linguaggio comune, una persona "distaccata" è una persona che non s’interessa del prossimo, che non ha alcuna empatia con gli altri, e vive solo per se stessa. Questa, però, è la descrizione del tipo umano inferiore. Anche il tipo umano superiore è incline al distacco dagli uomini, anzi, ne ha un autentico bisogno, ma non perché non s’interessi a loro, non perché non partecipi alla loro vita, alle loro speranze, alle loro paure, alle loro gioie. Al contrario: il tratto più evidente della novità che Gesù ha rappresentato, nel panorama religioso del suo tempo, cioè in un luogo e in un tempo che pullulavano, letteralmente, di sette e di capi religiosi, veri o fasulli, Gesù s’imponeva al primo colpo d’occhio per la sua partecipazione alla vita degli altri, e particolarmente alla loro sofferenza. Gesù non si limitava a predicare: era profondamente sensibile al dolore e all’angoscia degli altri; non li guardava dall’alto in basso, ma li sentiva come fossero suoi. Il suo primo miracolo, alle nozze di Cana, è stato originato dalla compassione per due sposi che rischiavano di fare brutta figura davanti agli invitati, perché il vino del banchetto stava per finire. E davanti alla tomba dell’amico Lazzaro, che era morto già da quattro giorni, Gesù – dice l’evangelista — pianse (Giov., 11, 35). Dunque, Gesù partecipava intensamente alla vita affettiva che lo legava agli altri: era un uomo fra gli uomini, soffriva della sofferenza altrui, gioiva della gioia altrui. Non era una persona fredda. Era emotivo, appassionato. Durane l’Ultima Cena, a conclusione e coronamento del suo ministero, disse agli apostoli che non li considerava più servitori, ma amici, precisando che la vera amicizia è la disponibilità a offrire la propria vita per amore dei propri amici. E stava parlando di se stesso, stava annunciando la Passione imminente.
Allo stesso tempo, però – e questa è una sintesi che avviene solo nel tipo umano superiore – Gesù era anche distaccato dagli uomini. Come è possibile? E distaccato, in che senso? Gesù era anche distaccato dagli uomini perché faceva i conti, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, con l’infinito. Ad ogni istante, Gesù era pronto: davanti a Dio, e davanti alla morte. Partecipava alle gioie e alle sofferenze altrui, ma restava padrone della propria libertà interiore: non si faceva imprigionare dall’emotività. Era simile a un dottore che soffre per la sofferenza del malato, ma conserva una perfetta lucidità per poterlo curare. Era distaccato nel senso che nulla di ciò che avveniva intorno a lui aveva il potere di fargli smarrire l’essenziale: il rapporto con Dio, la certezza del suo amore e del suo aiuto. Era distaccato, inoltre, perché amando gli uomini, e amandoli sia singolarmente, sia nell’insieme dell’umanità, fino al punto di esser pronto a dare la vita per essi, non si faceva illusioni sul loro conto: sapeva che lo avrebbero tradito, che lo avrebbero abbandonato, che lo avrebbero rinnegato. Lo sapeva, ma non li disprezzava; era convinto che negli uomini vi è un nocciolo di bene, che può sempre svilupparsi, se coltivato con pazienza e con amore (vedi la parabola del fico sterile: Luca, 13, 6-9); e che la confidenza in Dio può far nascere quest’uomo nuovo dall’uomo vecchio, in qualsiasi momento, perché nulla è impossibile a Dio. D’altra parte, se non li disprezzava, non faceva nemmeno troppo conto su di loro: conosceva la loro debolezza. A san Pietro, che per tre volte lo aveva rinnegato, per tre volte chiese, dopo la Resurrezione: Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?, come a ricordargli, ma con estrema delicatezza, e quasi con pudore, la via per riscattarsi da quella fatale debolezza. Gesù contava solo su se stesso e sull’aiuto di Dio: per esempio, non ci risulta che abbia mai domandato un consiglio. Se aveva bisogno di essere consigliato su qualcosa, si rivolgeva a Dio; non agli uomini. Ecco: questo è il "distacco" del tipo umano superiore: non un distacco che nasce dall’indifferenza e che é sinonimo di disprezzo, ma un distacco che nasce dal legame fortissimo e sempre attuale con Dio, davanti al quale tutto il resto impallidisce. Chi di noi, se ha un amico saggio e fidato, invece di rivolgersi a lui per consiglio, si rivolge a un altro amico, meno saggio e meno fidato, o addirittura al primo con cui gli capita di parlare? Solo un pazzo farebbe così. Ebbene: Gesù aveva sempre Qualcuno a cui rivolgersi, infinitamente saggio e infinitamente amorevole: il Padre suo celeste. Perché avrebbe dovuto domandare consiglio e conforto agli uomini, quando poteva sempre contare sul consiglio e sul conforto del Padre suo?
Quando sono in presenza del tipo umano superiore – e Gesù apparteneva a un tale tipo, in maniera perfetta, dal punto di vista umano; perché, ripetiamo, la sua natura non era solamente umana, ma altresì divina – le altre persone avvertono una "distanza" incolmabile: che non dipende dalla scarsa sensibilità di costui alle loro pene, o da una mancanza di calore affettivo, o, peggio, dall’indifferenza di chi si considera molto più saggio e "illuminato", ma dal fatto che egli si è spinto talmente in alto, verso le sommità spirituali, che l’aria, lassù, è troppo rarefatta e la luce troppo accecante per gli organismi delle persone comuni. È una distanza oggettiva, che non dipende dall’atteggiamento degli uomini, ma dalle realtà delle cose: come quando ci si trova in presenza di uno straniero, che parla una lingua sconosciuta: possiamo cogliere la bontà nella luce del suo sguardo, e intuire, in parte, quel che egli vorrebbe dirci; ma i particolari del suo discorso ci restano inesorabilmente preclusi. Non è "colpa" di nessuno. Tutto quel che possiamo fare, è di provare a salire anche noi un poco verso l’alto: allora, e soltanto allora, cominceremo a capire meglio il senso delle sue parole. Lui può certamente chinarsi verso di noi, ma se sarà lui solo a fare il movimento, continueremo a non capire, a fraintendere il senso del suo discorso. Ed è appunto questo che rende Gesù il tipo perfetto del Maestro: Egli attira gli uomini a sé, con i loro difetti e i loro limiti, ma spronandoli a superarli e non già compatendoli o compiangendoli solamente. È come se Gesù dicesse a chi lo vuol seguire: Io so che puoi far di meglio. Alzati e cammina, dunque; vieni dietro di me, prendi la tua croce: io ti aiuterò a portarla. E anche da ciò si vede quanto sono lontani dal vero quei cattolici "buonisti" che credono di praticare il vero Vangelo dicendo e ripetendo ai peccatori che Gesù li ama. Certo che li ama! Però bisogna dir loro anche l’altra metà del discorso: che essi devono cambiar vita. Un vangelo in cui non vi sia l’esortazione a convertirsi e cambiar vita, a far nascere in sé l’uomo nuovo, non è il Vangelo di Gesù. È un altro, che ne rappresenta la deformazione subdola e interessata. E, anche se oggi questo pseudo vangelo va assai di moda, ciò non toglie che non abbia nulla a che fare con il Vangelo vero, quello insegnato, e soprattutto praticato, da Gesù Cristo.
Ha osservato il teologo tedesco Karl Adam (1876-1966), che fu professore all’Università di Tubinga, nel suo libro Gesù il Cristo (titolo originale: Jesus Christus, Augsburg, Verkag Hans & Grabherr, 1933; traduzione a cura di Pietro De Ambrogi, Milano, Morcelliana, 1959, pp. 115-116):
La nota caratteristica della vita d’0aodorazione di Gesù è la virile modestia, il nascondimento,in cui essa si svolge. Se Egli esige dai suoi: "Quando preghi, entra nella tua cameretta, chiudi l’uscio e prega il Padre nel tuo nascondimento" (Mt. 6, 6) è segno che tale era la sua condotta.
Il posto in cui preferisce pregar è la solitudine, dove non v’è nessun altro che il Padre. "Quand’ebbe licenziato il popolo salì su un monte per pregare da solo. Era molto tardi. Ed Egli era là solo" (Mt 14, 23 = Mc 6, 46; Giov. 6, 15). Nell’isolamento notturno, nel grande silenzio d’ogni cosa, gravido di mistero, Egli trovava il Padre, Lui solo.
Sul monte della trasfigurazione la sua intima unione con Dio traspare in raggi luminosi attorno alla sua persona, il suo volto risplende come la candida neve dello Hermon.
Se prescindiamo dal "Pater noster" che Gesù ha composto non per Sé, ma per le necessità dei suoi discepoli, imprimendogli, a questo scopo, una forma ritmica, le preghiere pronunciate da Lui esalano, ancor oggi, il forte e caldo profumo s’un’emozione personale fortemente sentita, d’un’esperienza direttamente vissuta. "Ti ringrazio, o Padre, che mi hai esaudito!"B(Giov.11, 41). "Padre, non come voglio Io, ma come vuoi Tu!" (Mt. 26, 39).. "Ti lodo, o Padre, perché hai nascosto queste cose ai saggi ed ai prudenti, e l’hai rivelato ai pargoli. Sì, Padre, perché così piacque a Te! (Mt 11, 25 s.). Appunto per questo, a differenza delle preghiere di S. Palo, le sue sono semplici e schiette, brevi e concise come giaculatorie. Ma questa preghiera solitaria di Gesù non sgorgava solo dall’impulso della sua vocazione concentrata e raccolta. Qualcosa di più grande vistava nascosti. Rasentiamo ancora il suo mistero…
[…] Attorno a Lui on v’è unicamente la solitudine comune delle anime pie: c’è la misteriosa solitudine del Figlio. […] Quando Gesù prega esce completamente dall’ambiente umano che lo circonda per immergersi esclusivamente nell’atmosfera vitale del Padre suo. Anzi, lo straordinario sta in questo: Gesù non ha bisogno degli uomini. Non ha bisogno di nessuno gli basta il Padre. […] I discepoli non danno nulla a Lui. Egli dona loro tutto.
Il vero cristiano dovrebbe prendere sempre a modello Gesù e praticare quella forma superiore di nascondimento e di distacco dagli uomini. Dovrebbe amare tutti, ma far sempre in modo di potersi ritirare in preghiera, in qualunque circostanza, se possibile mediante uno spazio fisico, e se no, interiore; e dovrebbe esser distaccato da tutto e da tutti, pur conservando la capacità di partecipare ai sentimenti degli altri e di provare compassione. Un cristiano che cerca sempre la confusione e la folla, i lampi dei fotografi e gli applausi della gente; che parla, parla sempre, e non si ferma mai per riflettere, non si domanda mai se le sue parole stiano per caso provocando turbamento, e proprio fra i credenti, fra quanti avrebbero più che mai bisogno d’essere incoraggiati, consolati, sostenuti; che non sa stare mai solo, che esprime a voce alta i suoi dubbi di fede, e lo fa con aria di finta umiltà, mentre non c’è cosa che desideri di più che l’approvazione e l’ammirazione generale: ebbene, un tale cristiano non è in sintonia con il Padre celeste. Figuriamoci, poi, se questo cristiano è il papa…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash