
È arrivato il quinto vangelo: secondo De André
22 Marzo 2017
«Poiché è giunto il tempo che il giudizio cominci dalla casa di Dio»
23 Marzo 2017Una delle caratteristiche più tipiche dell’uomo moderno è la pretesa di vivere e morire per se stesso: cioè di considerare la propria vita come una proprietà esclusiva, sulla quale nessuno ha il diritto di mettere il naso, e della quale egli deve render conto solo a se stesso. È quasi inutile far notare che ciò è una conseguenza pressoché inevitabile della mentalità democratica, secondo la quale l’uomo ha dei diritti naturali e inalienabili, funzionali alla propria autodeterminazione; ed è quasi altrettanto superfluo far notare che, da quando la Chiesa — imprudentemente e precipitosamente, secondo noi — ha deciso di sposare al cento per cento l’ideologia democratica, come se non ve ne fossero altre di legittime al mondo (vedi, in particolare, l’enciclica di Giovani Paolo II Centesismus annus, del 1991), era perfettamente logico e naturale che tale atteggiamento mentale tracimasse dalla società profana nella Chiesa stessa, modificando il modo di pensare dei cattolici.
Sia come sia, il fatto è quello: e, del resto, l’atteggiamento mostrato dai cattolici italiani, per esempio, in occasione dei due referendum abrogativi sul divorzio e sull’aborto, negli anni Settanta del secolo scorso, aveva mostrato per tempo che una mentalità democraticista porta fatalmente a disattendere le indicazioni del Magistero e a fa sentire ciascun singolo fedele autorizzato, per così dire, a decidere da sé di quel che riguarda la sua vita, e specialmente le cose che attengono alla sfera morale (e anche ciascun singolo sacerdote, se è per questo, autorizzato a predicare il vangelo che gli sembra "migliore", in base alla nuovissima teologia del secondo me). Ma già si era avuta una spia della divaricazione incipiente fra il Magistero e la coscienza individuale in occasione della pubblicazione dell’enciclica di Paolo VI Humanae vitae, il 25 luglio 1968, che aveva provocato reazioni scandalizzate e quasi inferocite nel mondo cattolico e nella Chiesa stessa, non solo a titolo individuale, ma da parte di intere Conferenze episcopali, come quella del Canada, che decise di rigettarla pubblicamente. Sia detto fra parentesi, l’eminenza grigia di quel grave atto di ribellione fu un teologo di cui si parlava, e si parla, poco, ma che aveva rivestito un ruolo centrale nella stesura della dichiarazione Nostra aetate sul cosiddetto dialogo-interreligioso, che faceva a pezzettini due millenni di teologia della salvezza mediante la conversione al Vangelo di Gesù: Gregory Baum, tornato adesso alla ribalta, più che novantenne, perché ha voluto raccontarci, in una spudorata autobiografia, di essere stato omosessuale praticante fin dall’età di quarant’anni, ma di averlo tenuto celato per poter continuare a esercitare la massima influenza all’interno della Chiesa, riuscendoci perfettamente in almeno due ambiti delicatissimi: il rapporto con le religioni con cristiane, e specialmente con il giudaismo, e le questioni legate alla morale sessuale delle coppie di sposi, nella prospettiva della procreazione responsabile. Tutte le cose si tengono, alla fine, a chi sappia allargare lo sguardo dalla parte all’intero; per chi sa andare oltre la superficie, appare chiaro come il Magistero della Chiesa e l’atteggiamento dei cattolici sono correlati su temi quali il pluralismo religioso, che diventa relativismo; la vita sessuale dei cattolici, che viene totalmente slegata dalla procreazione (quante donne, oggi, vogliono un figlio, ma non un marito?), e con gli strumenti della scienza che danno loro questa inaudita possibilità; il giudizio sulla pratica omosessuale (fino al punto che dei vescovi cattolici, come quello di Anversa, auspicano una qualche forma di riconoscimento religioso del cosiddetto matrimonio omosessuale, ed altri, come quello di Santiago, in Spagna, ordinano sacerdoti due omosessuali notori e conviventi).
Questa deriva individualista e fortemente egoica, in base alla quale ciascun essere umano è padrone della propria vita (e anche di quella del nascituro, nel caso della donna), da prima della nascita fino alla morte ed oltre (cremazione e relativa dispersione delle ceneri al vento? oppure non cremazione? questo è il dilemma) sarebbe stata contrastata, almeno nell’ambito del mondo cattolico, da una maggiore fedeltà e conoscenza del Nuovo Testamento, invece di abbandonarsi a tanta cattiva teologia, o pseudo teologia, costantemente in affanno nel vano tentativo di adeguarsi alla mentalità del mondo moderno: vano perché, mentre il mondo moderno brucia le tappe, la cultura cattolica, per quanto aperta e desiderosa di dialogo con tutto e con tutti, compresi i suoi irriducibili nemici (anche troppo!; fino al sacrificio della propria identità e specificità, ossia dei proprio valori), non riuscirà mai a tener il passo con essa: sarebbe come illudersi che, pedalando in bicicletta, si possa affiancare una fuoriserie e starle appaiati per tutta la strada che resta da fare. E, ad ogni modo, possibile che questi teologi modernisti e questi preti progressisti non siano mai sfiorati dal dubbio che,m così facendo, cioè cercando continuamente d’inseguire le ultime tendenze della modernità, stanno svendendo un patrimonio millenario e di valore infinito, perché di origine soprannaturale, con il piatto di lenticchie che, una volta mangiato, li lascerà più affamati di prima? Possibile che non venga loro in mente che l’eterno non deve correr dietro all’effimero, che l’assoluto non deve prendere a propria misura ciò che è relativo?
La vita, per il cattolico, non è di proprietà individuale, ma appartiene a Dio, visto che da lui proviene e a lui dovrà fare ritorno; e la stessa cosa vale per la morte. Nemmeno la morte è nostra, perché non ne siamo i padroni: qualsiasi forma di suicidio, anche mascherato, come l’eutanasia, equivale a un tentativo di anticipare un evento ineluttabile, ma i cui tempi e modi spettano a Dio soltanto, non già all’uomo, il quale, della vita, non è il proprietario, ma soltanto l’usufruttuario. Sia della vita, sia della morte, l’uomo deve rendere conto a Dio: da Lui l’ha avuta in dono, a Lui la deve restituire: questo concetto peraltro da sempre insegnato dalla sana teologia cattolica, non dovrebbe essere assolutamente istintivo e naturale, per chi abbia un animo, non diciamo neppure cristiano, ma anche solo vagamente religioso? E dunque, non dovrà essere ancora più ineludibile, ancora più rigoroso per un cattolico, visto che Gesù Cristo, il Figlio di Dio, il Verbo Incarnato, per amore degli uomini e per la loro salvezza ha scelta sia di assumere su di sé la vita terrena, sia di andare incontro alla morte, coscientemente e lucidamente, e proprio a quella morte, ossia la dolorosissima e ignominiosa morte di croce?
Scrive san Paolo apostolo nella Lettera ai Romani (14, 7-12):
Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore.
Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.
Ma tu, perché giudichi il tuo fratello? E anche tu, perché disprezzi il tuo fratello? Tutti infatti ci presenteremo al tribunale di Dio, poiché sta scritto: "Come è vero che io vivo, dice il Signore, ogni ginocchio si piegherà davanti a me e ogni lingua renderà gloria a Dio". Quindi ciascuno di noi renderà conto a Dio di se stesso.
Cessiamo dunque dal giudicarci gli uni gli altri; pensate invece a non esser causa di inciampo o di scandalo al fratello.
Essere del Signore, dunque significa utilizzare la propria vita per il Signore, e non solo per se stessi. Lo scopo finale di ogni esistenza è quella di rendere onore e lode a Dio, di trasformarsi in un continuo inno di ringraziamento e di lode a Lui, nei pensieri, nelle parole e nelle opere di ogni giorno: questo è il significato dell’espressione biblica: è necessario che ogni ginocchio si pieghi davanti a Dio e che ogni lingua renda gloria a Lui.
L’invito a non giudicare il proprio fratello nasce da qui. Se il fine di ogni esistenza è quello di render gloria a Dio, ne consegue che tutte le vite concorrono al medesimo fine, come tanti fiumi che corrono tutti allo steso mare. Il cristiano lo sa e per questo dovrebbe astenersi dal giudicare e dal disprezzare il proprio fratello: Dio solo è il giudice, perché Lui solo, che legge nel segreto dei cuori, sa se noi abbiamo provato, oppure no, a vivere solamente per Lui e a fare ogni cosa pensando di piacere a Lui, e a nessun altro. E quando si dice che Dio solo è Giudice, non bisogna intendere l’espressione nel senso umano: perché è chiaro che un giudice umano, per esercitare degnamente la sua funzione, dovrà limitarsi ad applicare la legge, con scienza e coscienza, senza far preferenze e senza guardare in faccia ad alcuno; mentre Dio è un giudice infinitamente misericordioso, oltre che giusto: in Lui, e in Lui solo, misericordia e giustizia vanno perfettamente d’accordo. Inoltre, e questa è l’altra, immensa differenza fra Lui e un giudice umano, Dio non giudica gli uomini dall’esterno, come fosse un principio che opera dal di fuori di essi. In realtà, Dio giudica nel senso che sovrintende alla rettitudine del giudizio: ma il giudizio, in ultima analisi, lo faranno gli uomini stessi. Saremo noi, proprio noi, quando la nostra vita si sarà interamene consumata, che saremo chiamati a fare un bilancio di essa, con un unico sguardo, senza finzioni e senza ipocrisie: anche se lungo tutta la nostra esistenza terrena ci saremo raccontati un sacco di bugie e ci saremo auto-scusati e auto-assolti innumerevoli volte, pur essendo gravemente in difetto, allora, al cospetto di Dio, finalmente getteremo uno sguardo di verità su di noi, e ci vedremo come realmente siamo stati, e ne trarremo le inevitabili conclusioni. La giustizia divina ci spronerà a giudicare noi stessi e ad essere giusti, in maniera esemplare, per una volta, verso la nostra vita: ricordando che "giustizia" è dare a ciascuno secondo i suoi meriti. Assolvere il peccatore che non si è pentito, per esempio, non sarebbe un atto di giustizia, e neppure di misericordia, perché la misericordia non può procedere senza la giustizia e non può prescindere da essa.
Se il peccatore impenitente venisse perdonato e ammesso alla beatifica familiarità con Dio, verrebbe violata la giustizia: vale a dire che non verrebbe rispettata la sua libertà. Il peccatore impenitente ha scelto di vivere la sua vita contro Dio, così come il peccatore che si pente sceglie, sia pure tardivamente, di essere per Dio. Questa è la differenza fra il buon ladrone, crocifisso accanto a Cristo, e il suo compagno di sventura, che non solo non si pente del male fatto e della vita mal spesa, ma deride Gesù e lo invita, provocatoriamente, a salvare se stesso e anche loro. Al primo, e non all’altro, Gesù dice: In verità, oggi stesso tu sarai con me in Paradiso. Non lo dice al ladrone impenitente: non potrebbe dirgli una cosa simile, perché, se lo facesse, violerebbe la giustizia, non gli renderebbe secondo i suoi meriti e non rispetterebbe la sua libertà. Riflettano su questo, i cattolici buonisti e progressisti, i cattolici un po’ troppo misericordiosi, che si permettono di giudicare quel che Dio dovrebbe fare, per essere "buono" secondo il loro metro! Vi riflettano, ad esempio, quei cattolici – che poi non sono realmente tali, perché vanno contro il Vangelo – i quali asseriscono, con sicumera, come fosse un loro diritto e una certezza inoppugnabile, che nel mondo del buon Dio non c’è l’inferno, e che ogni peccatore, alla fine, salirà direttamente in cielo, senza neanche bisogno di fare alcuna penitenza, e soprattutto senza pentirsi amaramente dei suoi peccati! Vi rifletta monsignor Vincenzo Paglia, il quale ha osato commissionare un blasfemo affresco nel duomo di Terni, ove un artista dichiaratamente omosessuale ha celebrato il trionfo in cielo degli invertiti, dei transessuali e delle prostitute, raffigurati nell’atto di proseguire anche dopo la morte la loro vita disordinata, e dunque glorificando il peccato! In quell’affresco scandaloso, con un Cristo raffigurato in modo indecente e sacrilego, e con degli angeli che paiono piuttosto dei diavoli, non è rappresentato l’inferno, evidentemente perché non esiste, come insegna il quinto e definitivo vangelo, che sostituisce gli altri quattro, il "Vangelo secondo Fabrizio De André" (nella sua canzone Preghiera in gennaio, la cui "teologia" pare esser stata adottata da centinaia di sacerdoti e vescovi modernisti e progressisti della contro-chiesa odierna, gnostica e massonica, come appunto monsignor Paglia). Ma come potrebbe non esistere l’inferno, se vi sono uomini e donne che lucidamente e coscientemente rifiutano Cristo, rifiutano il Bene, rifiutano la Verità? Come potrebbe non esistere, se Gesù stesso ha detto: Chi crede e verrà battezzato, sarà salvo; ma chi non crede, sarà dannato? Forse costoro vogliono smentire la Parola di Dio?
Ebbene: anche a questo siamo arrivati. Il generale dei gesuiti, Arturo Sosa Abascal, peraltro in maniera perfettamente coerente rispetto alle premesse, ha asserito che nessuno sa cosa Gesù abbia detto veramente, perché allora non c’erano i registratori. La strada dell’apostasia è stata così spalancata. Se non sappiamo cosa ha detto Gesù, allora la Chiesa ha abusato per duemila anni della sua autorità ed ha insegnato un vangelo che non è quello vero. Ma quale è il vero Vangelo, a questo punto? Forse lo sanno Paglia e Sosa Abascal, mentre lo ignoravano Matteo, Marco, Luca e Giovanni, e anche san Paolo, allorché ammoniva pensate a non esser causa di inciampo o di scandalo al fratello. Loro sanno, questi preti modernisti, perché Gesù, sulla croce, non ha detto a tutti e due i ladroni: Oggi stesso sarete entrambi con me. O meglio: loro ‘sanno’ che sì, lo ha detto…
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