L’urlo del silenzio sulla Chiesa di Cristo
15 Marzo 2017
«Un sacerdote eccezionale», di Hans Carossa (1)
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«Un sacerdote eccezionale», di Hans Carossa (2)

(Segue dall’articolo precedente.)

Ed ecco come padre Rupert Meyer affronta la prova più dura, quella in cui ci si trova a faccia a faccia con la morte, e gli altri, coloro che ci vogliono bene, sono lì intorno, addolorati e sconvolti: perfino in tali circostanze, e dopo aver perso litri di sangue, quel sacerdote eccezionale rimane perfettamente lucido e padrone di sé, perfettamente sereno, perfettamente di esempio a tutti quanti per il suo coraggio, la sua accettazione della volontà di Dio, la sua risoluta tranquillità interiore, propria di chi ha fatto da tempo i conti con la propria vita, non lascia debiti o rimpianti dietro di sé, e non teme quel momento che spaventa così tanto coloro i quali non sanno staccarsi dal loro ego, dal loro attaccamento alle cose di questo mondo.

Siamo in una sperduta valle dei monti Carpazi, nel pieno dell’inverno 1916-1917, con un gelo così intenso che le cascate rimangono ghiacciate a mezz’aria, con la neve che cade su un paesaggio fiabesco, sulle antiche foreste silenziose che adesso risuonano degli scoppi delle granate e dei tiri rabbioso dell’artiglieri. Natale è appena trascorso e siamo all’antivigilia di Capodanno. L’ultimo incontro fra l’ufficiale medico, Carossa, e il cappellano militare della divisione ha per sfondo un tale scenario e si svolge in una piccola capanna isolata, ai margini del bosco, sotto le montagne ove si annidano le postazioni nemiche, dalle quali parte il fuoco dei cannoni che, da un momento all’altro, potrebbe centrare il ricovero improvvisato e uccidere tutti i presenti (da: Hans Carossa, Guide e compagni; titolo originale: Führung und Geleit, 1933; traduzione dal tedesco di Lavinia Mazzucchetti, Milano, Mondadori, 1935; cit. in Luigi Rusca, Il secondo breviario dei laici, Milano, Rizzoli, 1961, pp. 20-22):

All’ingresso della vallata deserta ci venne incontro un soldato con l’elmetto; indicò una casupola da pastore, come se ne trovano tante su quelle montagne selvose, e ci disse che avevano trasportato il ferito là dentro. La capanna rivestita di musco era vicina al fianco boscoso del monte, nei cui anfratti rupestri si appiattavano i lanciamine e i cannoni tedeschi.

Accorrendo in quella direzione vedemmo a destra e a sinistra biche di granate russe, ma erano solo di piccolo calibro e per la maggior parte penetravano nel terreno senza scoppiare. Quattro portaferiti arrivarono alla capanna, con una barella quasi contemporaneamente a noi. Un bel cane da pastore scozzese con la croce rossa al collare, che da qualche temo soleva seguire il cappellano quando si spingeva in prima linea, si aggirava disperato davanti alla porta chiusa della casupola, sobbalzando ad ogni nuovo scoppio di granata. All’interno non vi era impiantito; il prete giaceva in una pozza di sangue sulla nuda terra, coperto dal cappotto che lasciava scorgere le mani ed il viso d’un pallore cadaverico, ma appariva in pari tempo singolarmente ringiovanito. Il sorriso con cui ci salutò era chiaro e cosciente, non giungeva dall’aldilà e bastò a darci animo per intervenire in suo aiuto. Il dottor Ronge, fermata l’emorragia, fece una medicazione magistrale attorno alla gamba irreparabilmente sfracellata; lavorava con la fervida devozione che avevo sempre ammirato in lui e non pareva neppure accorgersi del nostro grave pericolo. Non era da supporre che il nemico volesse far l’onore d’un bombardamento a quella capanna sconquassata, ma pareva stesse cercando un bersaglio vicino, e non aveva ragione alcuna per risparmiarla. Comunque, non potevo nascondermi che ormai piovevano anche proiettili di grosso calibro, che alcuni fischiavano bassi sulle nostre teste, mente il terreno sussultava e rintronava di scopi sempre più forti, che una grossa scheggia aveva attraversato in alto una delle pareti e che infine si era udito fuori l’improvviso ululato del cane.

Da due finestrelle si poteva scorgere un sentiero relativamente invisibile al nemico, che, tenendosi a mezza costa, conduceva al villaggio di Sostelek. In parte la stradicciuola era mascherata da boscaglie naturali, in parte da alberelli piantati apposta, e, da quando noi tenevamo la posizione sul Vadas, tutte le comunicazioni si erano svolte per di là senza che si potesse parlare di vera copertura. Vidi avvicinarsi dei portaordini e dalla parte opposta, procedendo a tentoni, un ferito guidato da un compagno. Premeva una mano sugli occhi bendati, come chi versi lacrime in un fazzoletto, ma quel che gli gocciolava fra le dita, non eran lacrime, era sangue. Mentre cercavo di sostenere il cuore del cappellano con iniezioni, ero ben conscio che ogni secondo poteva segnare la fine della capanna con tutti quelli che c’erano. Pareva di sentir rintronar dentro quel sibilo pauroso che si ode da bambini durante il temporale, quando si crede che il lampo ci abbia proprio presi di mira; d’altra parte qualcosa nell’intimo si rifiutava di riconoscere una morte contro la quale non v’era neppure la possibilità di tentar resistenza.

Probabilmente noi affronteremmo una fine improvvisa che ci minacciasse dall’esterno in modo ben diverso in ogni ora della nostra vita, giacché siamo esseri mutevoli, ora illuminati ed ora ottenebrati, e la palla di domani non colpirebbe lo stesso individuo di quella d’oggi. In quei minuti critici, dopo un primo senso di abbattimento, io fui pervaso da quello stato d’animo di strana fede fatalistica, quasi di ebbrezza, in cui tutte le cure e tutti i timori rivelano la loro vera e profonda nullità. Sorgevano in me immagini lontane, buone e tristi; ma ogni cosa sofferta aveva perduto il suo valore ed anche il male fatto ad altri non era più ciò che era stato. Impossibile pentirsene: sopravviveva solo la beata fiducia che le forze di spontanea purificazione insite nel fiume della vita lo trasformassero in sintesi riparatrici…D’un tratto mi resi conto che nella nostra capanna si era fatto silenzio:i pezzi d’artiglieria russa certo si volgevano ad altre parti della valle; nel frattempo noi avevamo provveduto al nostro ferito quanto era possibile in un così disagevole posto di medicazione.

Il cappellano cominciò a parlare, ma tanto sottovoce che bisognava appoggiar quasi l’orecchio ala sua bocca per intenderlo; le sue parole non erano né desiderio né lamento: si scusava soltanto del suo gemito continuo, che noi viceversa non sentivamo affatto. La voce quasi afona non tradiva angoscia né sofferenza, pareva anzi che vibrasse di un giubilo segreto e ci saremmo vergognati di compassionarlo. Quell’uomo immerso nel suo sangue conservava anche in così terribili condizioni un eccezionale dominio di sé. Nella sua esistenza, si sentiva, c’era qualcosa di preordinato; anche la sventura attuale era stata certo contemplata da tempo fra le possibilità e non solo sulla pagina degli ammanchi. La differenza fra un uomo che è ancora legato ala vita con impeto intenso e colui che rinuncia, che trasferisce nello spirito i propri istinti, non mi era mai apparsa più chiara. Quando se ne andava uno di noi, rimaneva sempre un residuo non trasfigurato, non elaborato; questi invece svaniva come una sonata di Bach, evocata fuor dalle tenebre, svolta e risolta in forme semplici e luminose.

Per noi medici tuttavia il compito essenziale era procrastinare per quanto possibile quell’estrema soluzione, e conveniva anzitutto portare il ferito quasi dissanguato con la massima sollecitudine a Sostelek. Il sentiero semiprotetto sulla collina avrebbe rappresentato un ritardo; sarebbero occorse almeno tre ore per giungere, e alla meta non avrebbero scaricato che un cadavere. Per fortuna nel frattempo l’atmosfera si era un poco mutata. Le cime eran celate fra le nuvole e cominciò a nevicare. Questo fece allentare l’attività del’artiglieria. Coi consultammo con quattro portaferiti; essi ritenevano che il nemico non avrebbe ostacolato il trasporto per la via scoperta nella valle. Lo accomodarono sulla barella, lo ravvolsero in coperte di lana bianca a larghe strisce rosse, si misero il carico sulle spalle e si avviarono rapidi e sereni. Indicibile fu la gioia del cane, che accolse a salti il gruppo dei portatori, interrompendosi solo di tanto in tanto per leccarsi una ferita superficiale che gli insanguinava il fianco.

Ronge ed io ci affrettammo a tornare al posto di medicazione, che già troppo a lungo avevamo abbandonato. Mentre mangiavamo e accudivamo ad altri feriti, vedemmo con gran gioia che la nevicata si trasformava in tormenta mista a pioggia. La divisione, che aveva forse veduto un cattivo presagio nella perdita del cappellano, decise di desistere dall’attacco. Anche i russi non si mossero più, noi potemmo dormire in quel pomeriggio sui nostri giacigli di rami d’abete. La sera ci giunse notizia che padre Mayer aveva superato felicemente l’amputazione della gamba, che quattro litri di siero gli erano astati immessi nel sangue, e che già accennava a rivivere.

Se vi sono degli individui i quali, barando al gioco, riescono a spacciarsi per dei grand’uomini, c’è un’ultima prova davanti alla quale inevitabilmente falliscono e vengono smascherati come impostori e bugiardi: quella del cimento con la morte. Solo chi ha fatto realmente pulizia in se stesso, senza sconti o incertezze; solo chi ha avuto il coraggio di estrarre alla radice il cancro del proprio ego, ed è rinato alla vita dello Spirito (quello con la maiuscola, e non i vari "spiriti" di cui han tutti piena la bocca, e non si capisce bene che cosa siano, ma, in ogni caso, non qualcosa che viene dall’alto, bensì un prodotto del loro stesso io, o forse qualcosa di ancor peggiore, qualcosa che viene dal basso), solo costui possiede quella fermezza, quella lucidità e quella cristallina pacatezza dell’anima davanti alla morte imminente, che ha saputo mostrare il cappellano Mayer. Sì, può darsi che qualche impostore riesca a trovare abbastanza coraggio da gettarsi incontro alla morte senza paura: ma noi, qui, stiamo parlando di un’altra cosa, di una cosa infinitamente più rara e preziosa: non del coraggio davanti alla morte, bensì della assoluta serenità davanti ad essa; serenità che vuol dire accoglierla senza paura, ma anche senza fretta, senza impazienza, perché essa è, sì, la liberazione per colui che si è intimamente distaccato dalle illusioni del mondo, tuttavia il vero saggio non ha alcuna fretta di abbandonare il corpo mortale e la vita terrena, non perché sia ancora attaccato alle cose di quaggiù, ma, al contrario, perché, essendosene interiormente distaccato, è capace di viverle e perfino di goderne con quella letizia disinteressata, con quella pace del cuore che è possibile solo quando non si aspetta più niente, e tuttavia nemmeno si dispera, bensì si accoglie come un dono prezioso tutto quel che la vita ci reca ogni giorno, fosse pure il gesto più piccolo o lo spettacolo più abituale. In fondo, il coraggio del temerario che si getta furiosamente nella mischia, sfidando le pallottole, è simile alla frenesia del suicida che si è stancato di vivere, con l’aggiunta di una carica di rabbia per cui si vorrebbe uccidere qualcuno, prima di cadere uccisi. Molti soldati possiedono questo tipo di coraggio, nel vivo della battaglia, quello di un’ebbra e pur lucida disperazione; ma non sono persone che amino la vita, anche se, vedendoli nella loro esistenza ordinaria, lo si potrebbe credere; perché ama la vita solo colui che la sa apprezzare sino in fondo, e che per questo, e proprio per questo, è anche disposto a separarsene senza rancore, quando sia giunta l’ora. Al contrario, le persone avide – avide di ego, di godimento, di successi, di riconoscimenti — non sanno apprezzare la vita, perché mal sopportano i suoi lati oscuri, la sofferenza, la malattia, le delusioni: sono in guerra contro di essa, e per questo, e solo per questo, sono anche capaci di sfidare la morte, quando si presentino le circostanze adatte, come suole accadere nel calor bianco d’una battaglia.

Il cappellano Rupert Mayer non considerava la sua vita come una proprietà; non la considerava "sua", ma imprestatagli da Dio per il servizio del prossimo; se l’aveva cara, l’aveva cara come strumento di lode a Dio e di conforto al prossimo: non per altro, non per se stesso. Avendo dato tutto di sé, senza risparmio (e senza alcuna ostentazione), ogni giorno, senza mai concedersi un momento di stanchezza, di ripiegamento, ma offrendo ogni sacrificio e ogni fatica a Colui che lo aveva chiamato e lo aveva mandato nel mondo, a testimoniare l’amore con la sua stessa vita, e, se necessario, con la sua morte, non aveva rimpianti, né rimorsi: aveva combattuto la buona battaglia ed era pronto, in qualsiasi momento, ad accettare il destino che Dio avesse deciso per lui. Perfetto soldato, tempra magnifica di combattente, disciplinato e valoroso, non aveva bisogno di un particolare tempo di raccoglimento spirituale: i conti li aveva già fatti, e la sua volontà si era risolta nel fare interamente la volontà del Padre. Un uomo così ha capito tutto quel che di essenziale vi è da capire nella vita, ed è pronto in qualsiasi momento a separarsi da ogni cosa. Il suo ultimo servizio reso al prossimo è quella della sua lezione di stile davanti alla morte: lo stile dell’operaio della vigna, che ha lavorato senza risparmiarsi per portare al padrone molto frutto, e che, al calar della sera, si tiene pronto a lasciare il lavoro, che verrà proseguito da qualcun altro, per presentarsi al padrone con animo sereno e tranquilla coscienza. Non ha nascosto le sue mine sotto la terra, per restituirle intatte al padrone; le ha investite e ne ha fatto aumentare il valore; ora è pronto ad accettare il giudizio che verrà dato di lui e del suo lavoro.

Queste anime splendenti sono più che mai preziose nella notte sempre più fitta e senza stelle di questa tarda modernità, che sembra divorare ogni giorno valori, certezze, speranze, per sostituirle con beni sempre più effimeri e grossolani, e con capricci fatti passare, con sempre maggiore impudenza, per necessità vitali e bisogni autentici. Non sono solamente un esempio, sono anche un conforto e un sostegno; e la loro azione si propaga intorno a loro in maniera potente, ma misteriosa, assai più di quel che non sia dato immaginare. Perfino gli animali paiono avvertirla: si pensi al cane pastore che partecipa con sentimenti quasi umani al dramma del suo padrone; perfino i nemici se ne direbbero sfiorati, e sia pure inconsapevolmente: strano che nessun tiro dei russi abbia centrato la casupola, l’unico bersaglio certo in mezzo a quella valle selvaggia; e che nessun fucile abbia preso di mira i quattro barellieri avanzanti sulla neve, bersagli facilissimi per i soliti cecchini desiderosi di aumentare comunque il numero delle tacche sul manico della propria carabina di precisione. Quanto agli amici, ai compagni, la forza potente delle anime eccezionali si manifesta anche nel fatto di aiutarli a superare la paura, nella improvvisa serenità che scende su di loro, pur in mezzo al pericolo; come altro spiegare il fatto che nessuno di quanti si affannavano nella casupola, per prestare i primi soccorsi al ferito, abbia mostrato alcun segno di timore, di fretta, di nervosismo? Hans Carossa riferisce di essere stato invaso da un senso di pace, di esserne rimasto quasi inebriato; di aver visto scorrere davanti gli episodi più significativi della sua vita, belli e brutti, e di non aver provato né angoscia, né rammarico, né alcun’altra forma di agitazione, ma solo una grande pace, come se gli si fosse rivelato il grande mistero del’armonia universale, frutto di una sintesi a noi sconosciuta di tutto il bene e di tutto il male che abbiamo fatto agli altri e che, a nostra volta, abbiamo subito. In quella casupola esposta al tiro dei cannoni nemici, su un pavimento in terra battuta, medicando la gamba sfracellata di un santo sacerdote che non aveva paura della morte, ma si preoccupava solo di non infastidire i suoi soccorritori, si è svolta una lectio magistralis quale nessuna università, nessuna facoltà di filosofia o di teologia potrebbe mai eguagliare, anche se a tenerla fosse il più illustre professore del mondo: la lectio sul significato ultimo del vivere e del morire.

Come si fa a dire che Dio tace, che tante volte ripaga con il silenzio le nostre domande più sofferte? Forse, dovremmo piuttosto imparare ad ascoltarlo, a riconoscerne la voce. Forse ci parla anche per bocca di uno di questi spiriti eccezionali, di queste anime grandi e belle, che paiono venuti sulla terra allo scopo preciso di mostrarci la via che conduce al paradiso. E allora, anche per questo, che sia resa lode a Lui, per tutti i secoli dei secoli. Così sia.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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