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6 Marzo 2017Nella concezione aristotelica, l’universo è dotato di ordine (kósmos) e dunque ha un senso, perché l’ordine presuppone un senso; inoltre le cose hanno avuto un principio, e il principio dell’essere presuppone una intenzionalità: dunque, di nuovo, un senso. Ma avere un senso, significa anche avere un fine: perché tutte le cose che hanno senso tendono al loro fine, e lottano per raggiungerlo; e, se non lo raggiungono, soffrono, e rimangono imperfette, perché incomplete. Nell’ordine degli elementi fisici, l’aria e il fuoco tendono alla sfera celeste, l’acqua e la terra tendono verso il basso, verso il centro del mondo sub-lunare: tale è il loro fine. San Tommaso d’Aquino riprende questa impostazione e la sviluppa ulteriormente: se tutte le cose tendono al loro fine, e il loro fine è la perfezione, ciascuna nel proprio ordine, allora anche l’uomo tende al proprio fine, che poi è il suo principio, cioè Dio. Tutte le cose vengono da Dio e tutte le cose aspirano a ritornare a Lui: in lui la pace, in Lui l’ordine, in Lui il riposo, la perfezione. Dante Alighieri la pensa allo stesso modo ed esprime i medesimi concetti sia come pensatore, nel Convivio, sia come poeta, nella Divina Commedia: tutto esiste perché è stato voluto, ed è stato voluto perché è stato amato, ancor prima che fosse; tutto ha avuto principio da l’Amor che move ‘l sole e l’altre stelle, e tutto anela a fare ritorno a Lui.
Scrive Dante nell’ultimo libro del Convivio (IV, XII, 14-19; da: Anna Maria Chiavacci, Invito alla lettura di Dante Alighieri, San Paolo, 2001, pp. 31-32):
… Lo sommo desiderio di ogni cosa, e prima dalla natura dato è lo ritornare allo suo principio. E però che Dio è principio delle nostre anime, e fattore di quelle simili a sé (sì come è scritto: "Facciamo l’uomo ad immagine e somiglianza nostra", Gn. 1, 26), essa anima massimamente desidera di tornare a quello. E sì come peregrino che va per una via per la quale mai non fue, sì che ogni casa che da lunge vede crede che sia l’albergo, e non trovando ciò essere, drizza la credenza all’altra, e così di casa in casa, tanto che all’albergo viene; così l’anima nostra incontinente che nel nuovo e mai non fatto cammino di questa entra, dirizza li occhi al termine del suo sommo bene, e però, qualunque cosa vede che paia in sé avere alcuno bene, crede che sia esso. E perché la sua conoscenza prima è imperfetta per non essere esperta né dottrinata, piccioli beni le paiono grandi, e però da quelli comincia prima a desiderare. Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un pomo; e poi, più procedendo, desiderare uno augellino; e poi, più oltre, desiderare bel vestimento; e poi lo cavallo; e poi una donna; e poi ricchezza non grande e poi grande, e poi più… Per che vedere si può che l’uno desiderabile sta dinanzi all’altro alli occhi della nostra anima per modo quasi piramidale, che ‘l minimo li cuopre prima tutti, ed è quasi punta dell’ultimo desiderabile, che è Dio, quasi base di tutti…
Veramente così questo cammino si perde per errore come le strade della terra. Che sì come d’una cittade a un’altra di necessitade è una ottima e dirittissima via, e un’altra che sempre se ne dilunga (cioè quella che va nell’altra parte), e molte altre quale meno allungandosi, quale meno appressandosi; così nella vita umana sono diversi cammini, delli quali uno è veracissimo e un altro fallacissimo, e certi meno fallaci e certi meno veraci. E sì come vedemo che quello che dirittissimo vae alla cittade, e compie lo desiderio e dà posa dopo la fatica, e quello che va in contrario mai non compie e mai posa dare non può, così nella nostra vita avviene: lo buono camminatore giunge a termine e a posa; lo erroneo mai non l’aggiugne, ma con molta fatica del suo animo sempre colli occhi gulosi si mira innanzi.
Poi è arrivata la modernità; è arrivata l’esaltazione della ragione libera e spregiudicata; è arrivato il rifiuto della tradizione, della metafisica, della teologia, in nome di un pensiero razionalista e di un sapere puramente scientifico, al di fuori del quale non v’è nulla che valga la pena di essere indagato e approfondito. Con la modernità, è scomparso anche il buon senso, il sano buon senso istintivo: a dispetto del fatto che le cose esistono, non è parso per nulla evidente che devono avere avuto un principio, né che abbiano un senso, né, meno ancora, che tendano ad un fine. Forse, chissà, le cose sono sempre esiste (si veda, ad esempio, il panteismo di Spinoza); forse si tratta, semplicemente, di un problema irrisolvibile; e non è nemmeno detto che non sia tutto un inganno, un sogno, un’illusione, una creazione solipsistica, per cui non vale la pena di affaticarsi sul principio. Quanto al senso, è tutto da vedere che ve ne sia uno, mentre parecchi indizi suggeriscono che il mondo sia completamente folle e insensato; a maggior ragione non possiede un fine, e nemmeno ce l’hanno le singole cose. Tutto vaga alla rinfusa, tutto lotta per affermarsi e poi scompare; tutto c’è, ma potrebbe anche non esserci, dipende solo dal caso o dalle leggi fisiche, cieche, osservabili e misurabili, ma, in se stesse, prive di qualunque finalità ulteriore.
Già da questo fatto si comprende come la modernità altro non sia che una malattia dell’anima e della mente, e la cosiddetta civiltà moderna altro non sia che la codificazione e l’auto-celebrazione di tale malattia, fatta passare per il trionfo della salute. L’uomo, secondo i fautori della modernità, non è mai stato così "maturo" e consapevole quanto lo è adesso; nelle epoche precedenti, al confronto, non era che un bambino, pieno d’illusioni, nutrito di sogni e di fiabe. Sì, è, vero — essi ammettono, talvolta — non si può dire che l’uomo, oggi, sia diventato anche più felice; ma non è forse preferibile essere infelici, e guardare la realtà dritta negli occhi, con piena consapevolezza, piuttosto che restare in uno stato di minorità, d’ignoranza, di superstizione? Più o meno, che l’uomo moderno sia finalmente uscito dallo stato di "minorità", imputabile solo a se stesso, per non aver usato gli strumenti della sua ragione, è quanto diceva, orgogliosamente, Kant, rispondendo alla domanda: Che cos’è l’Illuminisno?; anche se non riconosceva lo stato d’infelicità dell’uomo moderno, perché, all’epoca, i fautori della modernità, come lui, stavano ancora promettendo all’intera umanità le magnifiche sorti e progressive, e con esse, chi sa quale mai vista felicità. Ma siamo proprio sicuri che l’infelicità, che ormai è sotto gli occhi di tutti, sia il giusto prezzo da pagare per il privilegio di vedere il mondo così come esso è realmente? Davvero è stato dimostrato che il mondo nasce dal caso, va verso il nulla, e che l’esistenza delle singole cose non ha senso, né scopo, né fine? Davvero è stato dimostrato che noi siamo solo i miseri, inconsapevoli burattini di una tragicommedia universale, allestita a nostra insaputa da qualche burattinaio pazzo, oppure, magari, prodottasi da se stessa, sempre come frutto del caso? In realtà, nessuna di queste cose è stata, non diciamo dimostrata, ma neppure ipotizzata con un discreto margine di probabilità: sono solo le speculazioni e le ipotesi di quanti, delusi per non aver trovato, nella civiltà moderna, quella felicità che era stata promessa loro dalla cultura illuminista, se ne vendicano, dipingendo il mondo a fosche tinte, per non dover ammettere che, forse, erano sbagliati tanto le loro premesse che i loro metodi d’indagine.
E adesso torniamo a Dante. Le cose che hanno avuto un principio, hanno ricevuto anche un impulso, un moto, una direzione: nessuna cosa incomincia ad esistere per rimanere ferma in se stessa. Ciò vale anche per le opere dell’uomo: sono state fatte per essere fruite, per soddisfare a delle necessità, e quindi per viaggiare, tanto o poco non importa. Oppure prendiamo le idee: prima non c’erano, adesso ci sono; nessuna idea viene alla coscienza senza una ragione e senza uno scopo; e nessuna rimane neutra ed inerte, sia che venga "utilizzata" nell’immediato, e dia origine a un pensiero filosofico, a un’opera musicale, a una dottrina politica, eccetera, sia che venga, per così dire, accantonata nella coscienza. Accantonata non vuol dire scomparsa nel nulla; prima o dopo, magari in altra forma da quella originaria, quella idea tornerà a farsi strada. Ma se quella persona muore all’improvviso, senza aver potuto sviluppare la propria idea e senza averne parlato con nessuno, né aver preso alcun appunto nel proprio quaderno? Neanche in quel caso l’idea andrà del tutto perduta: un’ombra di essa è rimasta in quello sguardo, in quel volto, in quel sorriso; e quello sguardo, quel volto, quel sorriso, l’avranno trasmessa, inconsapevolmente, agli altri. Anche se costui non aveva moglie, né figli, né amici, né discepoli? Sì, anche in quel caso: sarà rimasta, per esempio, nell’animo della commessa che lavora nel panificio dove costui andava a comprare il pane, la mattina. Noi trasmettiamo agli altri molte più cose di quel che crediamo, di quel che sappiamo e di quel che vogliamo; perfino molte cose che preferiremmo non trasmettere, e che crediamo solamente nostre; e perfino molte che non sappiamo neppur di avere. È tutto da vedere se le idee sono davvero "nostre", nel senso che appartengono a noi soli, o fino a che punto noi non le riceviamo, magari senza neanche essercene accorti.
La cultura moderna non sa, non vuole ammettere che le cose, per il solo fatto di esistere, devono la loro esistenza a qualcosa (o a qualcuno) che è fuori di esse, e che le ha dotate di una ragione intrinseca, per il solo fatto di averle scelte. Se sono state scelte — nel senso che potevano anche non esserci -, e tratte all’esistenza, sono state scelte per qualcosa. C’è, dunque, in esse, una intenzionalità, che scaturisce dalla loro stessa origine: e ciò che è originato da una intenzione, deve essere dotato anche di uno scopo. Nessuno fabbrica nulla senza uno scopo, fosse pure quello di svagarsi senza uno scopo preciso; ma lo scopo, in realtà, c’è: quello di svagarsi. Alcune correnti di pensiero, infatti, specialmente orientali, ritengono che tutto l’esistente altro non sia se non un gioco cosmico, il trastullo di un giocatore divino. Ma se noi possiamo immaginare un bambino annoiato e volubile, che crea delle cose — ad esempio, delle figure nella sabbia umida, per mezzo di uno stampino — solo perché non ha niente di meglio da fare, non possiamo trasferire questa immagine sul piano della creazione cosmica, perché vediamo, nell’universo, una tale perfezione, e una tale bellezza, e una tale amorevolezza (anche solo nello spettacolo di un fiore al tramonto, mentre chiude i suoi petali alla brezza della sera!), che riesce ben difficile, per non dire impossibile, attribuire tutto questo al gioco svagato di un dio bambino, che si sta annoiando. Ci sono, nel mondo, troppa perfezione, troppa bellezza e troppa amorevolezza per pensare che siano il frutto del caso: nemmeno ripetendo il gioco miliardi e biliardi di volte, si sarebbero potute produrre casualmente. Resta perciò l’altra ipotesi, sempre se vogliamo restare sul terreno della ragionevolezza, e quindi, se si preferisce, del calcolo delle probabilità: che tanta perfezione non sia per nulla il frutto del caso, né, meno ancora, che si sia prodotta da sé medesima, ma che sia la manifestazione di una intelligenza amorevole, la quale ha scelto il mondo esattamente come esso è, compresa la terribile incognita della nostra libertà, che è responsabile di aver deturpato in maniera così drammatica quella perfezione, quella bellezza e quella amorevolezza, pur senza mai giungere a scalfirne la base. Ecco perché è sbagliato porsi domande come questa: Ma si può ancora credere in Dio, dopo Auschwitz? Certo che si può, esattamente come prima: sarebbe troppo comodo se l’uomo, dopo aver abusato della propria libertà, citasse Dio in tribunale come responsabile, o complice, dei suoi misfatti. L’uso erroneo della libertà umana non è un argomento contro l’amore e la sapienza di Dio.
Eppure, insisterà qualcuno, Dio sapeva quel che sarebbe accaduto; sapeva che l’uomo non era all’altezza di un dono così grande, come la libertà di scegliere fra il bene e il male: dunque, o ha fatto male i suoi calcoli, o non gl’importano le terribili conseguenza, in fatto di sofferenza e d’infelicità, che derivano all’uomo da quel dono ingestibile. Certo, lo si può pensare; specialmente se si ha a che fare con un dio fanciullo, dal sorriso ineffabile ed enigmatico, che non pare prendersi troppo a cuore ciò che l’uomo soffre (magari anche perché, nella cornice della trasmigrazione delle anime, c’è tempo e luogo per risarcire abbondantemente, già qui sulla terra, coloro i quali hanno sofferto). Non lo si può pensare, però, davanti a un Dio che viene sulla terra e si fa uomo, che vive fra gli uomini, che soffre e muore volontariamente per amor loro; e che risorge per preparare ad essi il ritorno a Lui. E non lo si può pensare di un Dio che, facendo all’uomo quel dono, gli aveva anche raccomandato di non mangiare mai dei frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male. Auschwitz? Ma Gesù Cristo ha sofferto, in se stesso, tutto quel che un essere umano può soffrire, fisicamente e moralmente, compreso l’abbandono degli amici e la solitudine estrema nell’ora della prova. Se l’uomo ha voluto Auschwitz, Cristo ha voluto la Croce. E dalla Croce viene la salvezza…
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