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Ma che aspetta a dimettersi il vescovo Cipolla?

Sì, è vero: l’argomento è talmente squallido e deprimente, che si preferirebbe sorvolare, parlare d’altro, fare finta di nulla. Disgraziatamente, la politica dello struzzo non è mai servita a migliorare le cose, e dunque tanto vale affrontare i problemi, senza rimandare, senza dare loro il tempo d’incancrenire: perché, quando la cancrena si è diffusa, non resta altro da fare che l’amputazione chirurgica, ossia il rimedio estremo. Prima di arrivare a tanto, vediamo se non sia possibile limitare i danni, mettendo bene a fuoco la natura del problema.

La natura del problema creato a Padova dal comportamento del parroco della chiesa di San Lazzaro, don Andrea Contin, si può riassumere in una formula semplicissima: le dimissioni del vescovo, monsignor Claudio Cipolla, fedelissimo di papa Francesco, dal quale aveva ricevuto la nomina, evidentemente per le sue benemerenze di ex prete di strada, nonché di entusiastico sostenitore del "nuovo corso" modernista e progressista. Il problema non è più don Contin, tardivamente e un po’ ipocritamente sospeso a divinis, quando ormai i buoi erano scappati dalla stalla e lo scandalo, enorme, correva sulle bocche di tutta Italia, e forse anche all’estero. Preti e religiosi (o religiose) indegni, purtroppo, ce ne sono sempre stati, e, data la debolezza della natura umana, sempre ce ne saranno. Ma è indispensabile chiedersi se era proprio necessario lasciare che le cose andassero avanti fino alle loro estreme conseguenze; se il vescovo non avesse l’obbligo di tenersi informato su quel che facevano, sotto il suo naso, dei pastori degeneri (purtroppo don Contin non era solo nelle sue squallide orge pornografiche a sfondo sadomasochista; in esse erano implicati, stando alle indiscrezioni della stampa, sinora confermate, almeno altri tre sacerdoti, uno dei quali ha un volto, un nome e un cognome: don Roberto Cavazzana, parroco di un paesino dei Colli Euganei, Carbonara di Rovolon); e, soprattutto, se, una volta informato di quel che stava accadendo — perché ora vi è la certezza che era stato informati per filo e per segno — non avesse il preciso dovere di fare qualche cosa, sia per arginare le malefatte del prete fedifrago, sia per impedire che lo scandalo arrivasse alla magistratura e ne derivasse un immenso danno morale per la Chiesa.

Che cos’è stata, quella del vescovo, glasnost, trasparenza? Non ci sembra; ci pare piuttosto che si debba chiamare debolezza, ignavia, mancanza di carattere e di senso di responsabilità. Ora il vescovo si dice addolorato, chiede perdono ai fedeli: spettacolo penoso e inutile. Se davvero avesse voluto fare qualcosa, aveva avuto dei mesi per farlo; ma, visto che non ha fatto un bel nulla, e lasciato che le cose arrivassero a questo punto, ossia alla conclusione peggiore possibile, invece di chiedere scusa, cosa perfettamente inutile, dovrebbe dignitosamente rassegnare le dimissioni, invece di farsi schermo della solidarietà del papa. Monsignor Cipolla dovrebbe vergognarsi, perché ha dimostrato di non avere né la sensibilità, né l’intelligenza, né la stoffa per dirigere una grossa diocesi con un milione d’abitanti; uno come lui potrebbe fare, al massimo, il cappellano in qualche parrocchia di provincia, possibilmente di quelle molto tranquille; ma sotto l’attenta sorveglianza di un buon parroco, uno della vecchia scuola, con le idee chiare e la schiena dritta; uno di quelli che, quando le cose vanno male, non si nascondono dietro un dito, o, peggio, dietro le sottana di Sua Santità, ma traggono le doverose conseguenze del loro fallimento, nell’unica maniera possibile,

Questo, di non dimettersi, neanche davanti alla prova lampante della propria incapacità, della propria inadeguatezza, è un pessimo e antico vizio della politica italiana, nonché della pubblica amministrazione. Quando mai si vede un dirigente di un’azienda statale, di una banca finanziata dallo stato, o il prefetto o il sindaco di una grande città, rassegnare le dimissioni in presenza di un fallimento evidente e clamoroso, di uno di quei fallimenti che non lasciano adito a scuse o giustificazioni di sorta, perché, anche se l’interessato non si dimettesse, la sua funzione e il suo prestigio rimarrebbero, in ogni caso, permanentemente e irrimediabilmente mutilati, sfigurati, distrutti? Come si può continuare a svolgere una funzione pubblica, quando si è stati moralmente sfiduciati dalle circostanze stesse, dall’evidenza dei fatti? Quando non c’è bisogno che un’accusa venga formalizzata, o che un querelante intraprenda una precisa azione legale, perché ciò di cui si tratta non è un reato specifico, ma, puramente e semplicemente, un fatto di evidente inettitudine, di evidente irresponsabilità, insomma di patente e conclamata incapacità di svolgere la funzione alla quale si è preposti?

Ebbene, il vizio delle non dimissioni pare si sia esteso anche alla Chiesa cattolica, proprio quella rigorosa e moralista di papa Francesco; vizio che, fino a tempi recenti, non la vedeva appiattita sulle (triste) posizioni della società civile, ma esibire un contegno diverso, più fiero, più leale, più responsabile. Ma nella neochiesa modernista e relativista di questi ultimi anni, a quanto pare, tutto è possibile: che ogni catechista si faccia la sua catechesi; che ogni teologo si faccia la sua teologia; che ogni parroco si faccia la "sua" messa; che ogni vescovo si faccia la sua pastorale; e che ogni cardinale coltivi in tutta pace e serenità i suoi obiettivi gnostico-massonici, secondo le istruzioni ricevute nelle rispettive logge di appartenenza. Evidentemente, anche per la morale pratica vige un atteggiamento analogo: ogni prete si sente autorizzato a fare quel che gli pare; tanto, nessuno controlla niente, proprio come nella scuola nessun preside controlla l’operato dei professori, e come nessun direttore sanitario controlla l’operato dei medici di un ospedale pubblico, a meno che scoppi la gran e parta una denuncia. Per silurare il generale Cadorna non bastarono due anni e mezzo di attacchi fallimentari, di un inutile stillicidio di vite umane e di una strategia chiaramente inadeguata: ci volle la catastrofe di Caporetto, e, per soprammercato, la somma viltà, da parte sua, di riversare ogni addebito sui suoi soldati. Per dimettere don Contin, o almeno per trasferirlo, che cosa ci voleva, oltre a tutto quello che stava combinando nella sua parrocchia, trasformata in un nauseabondo puttanaio, e di cui monsignor Cipolla era perfettamente a giorno? Un sacerdote, invitato a una trasmissione televisiva per commentare i fatti della parrocchia di San Lazzaro, ha fatto una osservazione molto sensata; ha detto: Ci vuole amicizia da parte del vescovo per i suoi sacerdoti Se ci fosse stata amicizia, un fatto come quello accaduto a Padova sarebbe stato impossibile; perché sarebbe stato impossibile che il vescovo non fosse informato di quel che stava accadendo. Evidentemente, però, l’ex prete di strada divenuto vescovo era in altre faccende affaccendato; in faccende ben più importanti di simili quisquilie.

Giovedì 2 febbraio 2017, giorno della Madonna Candelora, monsignor Cipolla ha tenuto una conferenza stampa (visionabile in rete) per fare il punto della situazione e spiegare i provvedimenti presi. Il vescovo è rientrato in fretta dal’America Latina, dove si era recato per visitare i missionari diocesani, e ha spiegato di aver avviato le pratiche per la sospensione a divnis di don Contin; mentre nei confronti dell’altro prete indegno, don Roberto Cavazzana, che, per sua stessa ammissione, partecipava le orge di don Contin e, con lui, a turno, si faceva filmare nelle sue prestazioni sessuali, non è stato preso alcun provvedimento. E questa è la prima stranezza, di cui egli non rende conto. Sarà perché i suoi parrocchiani, intervistati dalle televisioni locali, si sono detti entusiasti di don Roberto, che hanno definito un ottimo parroco, e per riavere il quale stanno raccogliendo firme e petizioni? In tal caso, bisogna proprio dire che i calcoli di bottega accomunano ormai la Chiesa a un qualsiasi partito politico, che non perde mai d’occhio il voto degli elettori, e, per strappare consensi, è più che disposto a chiudere tutt’e due gli occhi sulle banali questioni di onestà e correttezza. Poi dichiara che don Contin si è comportato in maniera inaccettabile, sia come prete, sia come cristiano, sia, infine, come uomo. Ha anche riferito di aver ricevuto una telefonata di solidarietà da papa Francesco, che lo ha esortato ad andare avanti, e questo gli ha infuso serenità e coraggio (buon per lui). La parte più interessante della conferenza stampa è stata quella in cui monsignor Cipolla ha ammesso di aver ricevuto, in Curia, segnalazioni anonime già da molto tempo, e segnalazioni firmate sin dalla metà di maggio. Da maggio a dicembre i mesi sono sette: sette mesi abbondanti per agire, durante i quali, però, egli non ha fatto assolutamente nulla. A quanto pare, la segnalazione veniva da una delle donne che sono state coinvolte nelle tresche amorose e pornografiche di don Contin. La sua risposta alla malcapitata? Rivolgersi alla magistratura. Tutto qui. Non dice di aver fatto altro; solo di aver consigliato alla donna di andare dal magistrato. Ma di fare quattro chiacchiere con quel prete assatanato, non gli è venuta l’idea? Di mandare almeno qualcuno sul posto, a verificare, magari con la dovuta discrezione, nemmeno? E non ha pensato che, scaricando la patata bollente sul magistrato, non solo lasciava abbandonata a se stessa la donna in questione, ma esponeva la sua diocesi e la Chiesa tutta a subire uno scandalo enorme, a divenire oggetto di chiacchiere e critiche dall’universo mondo? Non si è reso conto che quell’invito ad andare dal magistrato equivaleva a innescare una bomba a orologeria contro la sua stessa diocesi? Il frate Cipolla della novella di Boccaccio, al confronto, era un’aquila di astuzia e di prontezza: ma questo qui, che atteggiamento pilatesco! Quale biasimevole mancanza di coraggio, di spirito d’iniziativa, di sollecitudine e di carità pastorale! Don Abbondio, al suo confronto, era un leone di ardimento, un fulmine di prontezza e di lungimiranza. Ma come: prima una parrocchiana, poi una seconda, vengono a dirle che nella tal parrocchia succedono cose inconcepibili, che si consumano orge sessuali da far impallidire un Petronio o un Marziale, e lei non sa far di meglio che declinare ogni responsabilità, lavarsene le mani e indirizzare quelle anime alla magistratura? Ma lei ha sbagliato mestiere, monsignore: lei non era nato per fare il vescovo, ma per fare il vigile urbano o l’operatore del numero verde: quelli che passano all’utente la linea desiderata, e non s’interessano affatto al merito della chiamata. Anzi, troppa responsabilità: lei era nato per fare il passacarte, o, tutt’al più, l’usciere, per dire soltanto: vada al terzo piano; vada all’ultimo ufficio a sinistra; l’orario è dalle nove alle dodici e trenta; e così via.

La parte più patetica della conferenza stampa è stata l’ultima. Dopo aver annunciato l’attivazione di linee verdi e variamente colorate per segnalare altri abusi verificatisi in parrocchia e in diocesi, e dopo aver annunciato la prossima costituzione di una apposita commissione, per vigilare sulla trasparenza e sul corretto funzionamento di tutte le attività pastorali, quasi un incitamento a denunciare preti, religiosi, diaconi e operatori pastorali da parte di tutti quanti abbiano subito abusi o abbiano anche solo il sospetto che ve ne siano (ma non le sembra, caro lei, che tutto questo avrebbe avuto un senso cinque o sei mesi fa, mentre adesso, dopo che i buoi sono scappati e la stalla è rimasta vuota, è perfettamente inutile, oltre che tristemente, miseramente esagerato e un tantino ipocrita, come per rifarsi un’impossibile verginità?), ha spiegato in lungo e in largo, con pignoleria da professore di diritti canonico, quali saranno le prossime tappe per ridurre don Contin allo stato laicale. Soprattutto, colpisce l’assenza di quelle parole che, sole, avrebbero forse potuto smorzare un po’ la penosa impressione che monsignor Cipolla abbia voluto scaricare ogni responsabilità su qualcun altro; sul magistrato per la parte attinente agli abusi di don Contin, su papa Francesco per quella relativa alla definitiva cacciata del prete dal clero cattolico. È assai significativo che abbia detto come a lui non risultino esser coinvolti nello scandalo altri sacerdoti, quando tutta Italia sa che non è così, e di uno, almeno, si sa benissimo chi sia, tanto più che costui non ha negato le sue responsabilità: la stampa ha persino riferito che, dopo essere stato ascoltato dal giudice, don Roberto è scoppiato in lacrime. Ma, soprattutto, colpisce il silenzio assordante circa una propria assunzione di responsabilità, fosse anche solo di tipo morale: dov’era, cosa faceva il vescovo di Padova, mentre uno dei suoi sacerdoti, in città, sotto il suo naso, trascinava nel fango la dignità della Chiesa e si abbandonava ad eccessi quali nemmeno un regista o uno scrittore specializzati in porcherie pornografiche, sarebbero, forse, riusciti a immaginare? E mentre lettere e segnalazioni pervenivano ai suoi uffici, dapprima anonime, poi debitamente firmate?

Altro che ex prete di strada; altro che "nuovo corso" progressista. Lei non sarebbe capace di fare il prete di strada per più di ventiquattr’ore, se il gioco si facesse duro: forse farebbe bene a imparare qualcosa dai nostri missionari diocesani in America Latina, e farsi raccontare da loro che cosa vuol dire essere preti di strada, da quelle parti. Se si è spaventato e non ha saputo muovere un dito davanti a una vicenda come quella di don Contin & soci, imbarazzante fin che si vuole, e anche turpe, ma, insomma, roba di tipo amatoriale, che cosa farebbe davanti alla mafia, agli spacciatori, agli sfruttatori delle prostitute: che cosa farebbe, se una vittima di quella criminalità si rivolgesse a lei, non per risolvere i problemi come potrebbe fare uno sceriffo, ma semplicemente nella sua veste e nella sua autorità di pastore d’anime? Se lei non ha saputo parlare né con don Contin, né con le donne che sono state le sue amanti, le sue vittime, poi le sue accusatrici, e se non ha saputo fare nulla per preservare dallo scandalo l’intera parrocchia, lei come se la caverebbe in simili frangenti?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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